C’è una domanda che mi piacerebbe porre ai magistrati civili, specie quelli di prima nomina. La domanda è questa: qual è lo standard di giudizio al quale si atterrà? In altre parole: di “quanta prova” avrà bisogno per poter affermare che un fatto si è verificato o non verificato? Tanta fino ad essere certo? E cosa intende per certezza? Oppure si accontenterà della probabilità, e in tal caso quanta probabilità? Altissima, alta, media, prevalente? E questo standard sarà univoco o cambierà a seconda delle fattispecie sottoposte al suo giudizio?
Si tratta, questi, di temi centrali su cui non c’è formazione o non ce n’è a sufficienza. D’altra parte il tema è poco considerato dai processualisti, ancor meno dai sostanzialisti. È più tema di indagine dei filosofi del diritto, ma sappiamo che – con poche eccezioni – solo i filosofi del diritto leggono ciò che scrivono i filosofi del diritto.
Prendiamo un manuale qualsiasi di procedura civile. Il problema il più delle volte viene solo sfiorato, mai approfondito; eppure gran parte dei giudizi civili implicano l’accertamento di una situazione di fatto e l’accertamento della situazione di fatto implica a sua volta l’utilizzo e la valutazione delle prove.
Ritorniamo alla domanda fondamentale: quanta prova occorre per ritenere accertato un fatto?
Volgiamo lo sguardo alla giurisprudenza. Ad esempio, in tema di nesso di causalità sembra ormai acquisito il principio della “preponderanza dell’evidenza” o del “più probabile che non”. In altre parole, è possibile affermare che un fatto sia causa di un evento quando è “più probabile che non” che detto fatto abbia prodotto l’evento e non il contrario.
Ma non esiste una qualche ragione logica o normativa per ritenere che il criterio debba applicarsi al solo nesso di causalità. Può infatti riferirsi ad ogni altro fatto che debba essere accertato nel processo.
D’altra parte, che la certezza non sia imposta dal legislatore si ricava dall’art. 2727 c.c. in tema di presunzioni o dal potere riconosciuto al giudice di utilizzare gli argomenti di prova. Per definizione le presunzioni non possono mai condurre alla certezza, ma solo alla possibilità che un certo fatto si sia verificato. Certo, il legislatore richiede che siano gravi, precisi e concordanti, ma nonostante ciò la presunzione rimane pur sempre una presunzione, cioè una inferenza di carattere induttivo: da uno o più fatti noti, presumo un fatto ignoto. Ad esempio, dal fatto noto che il danneggiato stava frequentando con profitto la facoltà di ingegneria e che è figlio di un ingegnere, il giudice può presumere che in futuro avrebbe esercitato la stessa professione del padre, al fine di quantificare il danno da lucro cessante. Si tratta di un accertamento solo presunto, senza alcuna pretesa di certezza.
Dunque non sembra possano continuare ad applicarsi criteri come quello del “sicuro fondamento” o l’altro più ineffabile della “certezza morale”. Qualunque fatto può dirsi accertato qualora sia “più probabile che non” che si sia verificato.
Ovviamente in molti casi non sarà facile stabilire il quantum della probabilità, basti pensare alle indagini scientifiche o tecniche.
Una volta acclarata la generale accettazione del criterio de quo, dobbiamo chiederci se il giudice possa ritenere non verificatosi un fatto giuridico anche se dall’istruttoria è probabile che ciò sia avvenuto. Si supponga che una ctu affermi che qualora fosse stata somministrata la corretta dose di farmaco il paziente sarebbe sopravvissuto con molta probabilità: può il giudice disattendere questa conclusione? Di primo acchito la risposta parrebbe affermativa, vista la “libertà” assegnata nella valutazione delle prove dall’art. 116 c.p.c. Tuttavia, il libero e prudente apprezzamento non può e non deve sfociare nell’arbitrio o nella soggettività. In questi casi, il giudice può ritenere non accertato il fatto purché sia in grado di dimostrare l’esistenza di altri elementi probatori che escludono nel caso concreto la maggiore probabilità.
Il libero e prudente apprezzamento deve sempre fondarsi su criteri enunciabili e verificabili. Si supponga che l’unico testimone sentito abbia risposto perfettamente alle domande e alle richieste di chiarimenti e nonostante ciò il giudice abbia la convinzione che sia un testimone falso. Potrebbe rigettare la domanda, perché intimamente convinto della falsità della deposizione, in assenza di elementi obiettivi? La risposta è no, perché il potere del giudice non può spingersi fino al punto di considerare una prova falsa solo perché intimamente convinto che sia così, senza poterlo dimostrare in alcun modo. Ci troveremmo di fronte ad un caso di arbitrio, ad una valutazione critica effettuata senza, appunto, la presenza di criteri enunciabili e verificabili.
Riassumendo:
- Un fatto è processualmente accertato quando è più probabile che non che si sia verificato;
- Il libero e prudente apprezzamento non può spingersi fino al punto di considerare non verificatosi un fatto che processualmente risulta probabilmente verificatosi;
- Il libero e prudente apprezzamento presuppone l’utilizzo di criteri enunciabili e verificabili.

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