BRUNO SASSANI. A.D. 2009: ennesima riforma al salvataggio del rito civile. Quadro sommario delle novità riguardanti il processo di cognizione

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Il Professor Bruno Sassani ci ha autorizzato a pubblicare l’articolo a commento della recente riforma del processo civile, già apparso su www.judicium.it.

Bruno Sassani A.D. 2009: ennesima riforma al salvataggio del rito civile. Quadro sommario delle novità riguardanti il processo di cognizione

Premessa. Ennesima riforma del processo civile. L’illusione che dalla riforma del rito possa scaturire una rivitalizzazione dell’agonizzante processo civile accompagna ormai da un ventennio la nostra vita giudiziaria. Nel frattempo, però, lo stato delle cose è (salvo eccezioni ed “isole felici”) decisamente peggiorato, sicché non si vede come si possa accogliere con entusiasmo questo nuovo “saggio di legislazione”. Intendiamoci. La nuova miniriforma è molto eterogenea e non è, in sé presa, né migliore né peggiore di quelle (più o meno “epocali”) che l’hanno preceduta, onde un atteggiamento di critica impietosa sarebbe altrettanto fuorviante di accalorate aspettative. Alcune delle nuove norme consistono in semplici e benvenuti ritocchi che sciolgono annosi problemi; altre appaiono discutibili nelle loro ambizioni o nella fattura tecnica ma, come insegnano le ravvicinate esperienze degli ultimi anni, appare difficile azzeccare pronostici. Il processo civile italiano è uno strano animale che si fa beffe di intenzioni di legislatori e di elaborazioni della “scienza” del diritto processuale: le sue disfunzioni si incancreniscono sempre più mentre i suoi (pochi) progressi arrivano in maniera imprevista. Anche stavolta qualcosa migliorerà, qualcosa peggiorerà e, forse, la spes migliore è quella che a conti fatti (cioè di qui a qualche tempo) se ne possano valutare gli effetti come risultati di un gioco “a somma zero”. Va aggiunto, per completezza, che la legge prevede anche la delega al governo (“entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge”) ad adottare “uno o più decreti legislativi in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale”. Si tratta della riduzione dei molteplici riti extracodice oggi presenti a tre modelli: il processo ordinario di cognizione degli artt. 163 ss del codice, il processo del lavoro e un nuovo giudizio sommario che il legislatore introduce nel codice scrivendo i nuovi articoli 702-bis, ter e quater (infra n. 19). Scompare invece il rito societario, che viene abrogato. Ed è una morte annunciata dopo lo scempio che ne ha ingiustificatamente fatto la Corte costituzionale e la perdurante avversione mostratagli – ma per ragioni profondamente diverse – magistratura e avvocatura. Del decreto legislativo n. 5/2003 restano in vita solo i blocchi di norme che prevedono e regolano l’arbitrato e la conciliazione societari.

2. Aumenta la competenza del giudice di pace. Il nuovo art. 7 porta a euro cinquemila la competenza per le cause ad esso affidate in ragione del valore (notazione marginale: finalmente si arrotondano le cifre sull’euro, e non sul valore equivalente in lire: il precedente valore era di € 2.582,28). Stesso aumento per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti il cui tetto di valore passa da € 15.493,71 a € ventimila. Si noti anche l’introduzione di una apposita competenza per le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali (art. 7 comma 3-bis). E tuttavia per tali cause non si applicano le norme per le controversie in materia di lavoro di cui al libro secondo, titolo IV, del codice (nuovo ult. comma art. 442)

3. Cambia il regime della rilevazione dell’incompetenza e quello della sua decisione. Quanto all’eccezione di incompetenza, il vecchio testo dell’art. 38 primo comma (L’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio nei casi previsti dall’articolo 28 sono rilevate, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di trattazione) diventa “L’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio sono eccepite, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata”. Il restringimento sembra severo, sia sotto il profilo tipologico, sia sotto il profilo temporale, ma resta il potere del giudice di rilevare d’ufficio la propria incompetenza “per materia, quella per valore e quella per territorio nei casi previsti dall’articolo 28” non oltre la prima udienza di trattazione (art. 38 c. 3). L’unica vera strettoia è dunque quella relativa all’incompetenza territoriale derogabile, rispetto alla quale il convenuto dovrà rispettare il termine dell’art. 166, senza poter contare su successive iniziative del giudice (o su eccezioni mascherate da suggerimenti). Quanto alla forma del provvedimento, l’ordinanza prende il posto della sentenza, forma storica della decisione su competenza, litispendenza, continenza e connessione. La necessità della sentenza è stata ampiamente giustificata in passato, ma (senza nulla togliere alle egregie ragioni dei suoi sostenitori) non credo si debba piangere sulla sua scomparsa. L’ordinanza semplifica la vita senza sacrificare i valori e gli interessi in gioco e tanto basta per chiudere il discorso. Il termine “ordinanza” succede pertanto al termine “sentenza” innanzitutto nell’art. 279 (il cui primo comma diventa “Il Collegio pronuncia ordinanza quando provvede soltanto su questioni relative all’istruzione della causa, senza definire il giudizio, nonché quando decide soltanto questioni di competenza. In tal caso, se non definisce il giudizio, impartisce con la stessa ordinanza i provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa”) e poi negli articoli 39 comma 1, 39 comma 2, 40 comma 1, 42, 43 comma 1, 44, 45, 47 comma 2, 49 commi 1 e 2, 50. Dal punto di vista tecnico non creano problemi gli articoli 279 comma 4, e 177 comma 1, laddove si legge ancora che i provvedimenti in forma di ordinanza sono modificabili e revocabili, perché l’ordinanza in questione, restando soggetta al regolamento di competenza, rientra tra le ordinanze soggette a controllo di altro giudice e quindi fa eccezione alla regola della revocabilità e modificabilità. In verità l’art. 177 u. c. parla di ordinanze “per le quali la legge predispone uno speciale mezzo di reclamo”, ma non dovrebbero esservi dubbi che la cosa vale a fortiori per un mezzo di impugnazione quale il regolamento. All’orecchio degli addetti ai lavori stride però la conservazione del testo dell’art. 323 che ascrive il regolamento di competenza ai “mezzi per impugnare le sentenze”.

4. Si riducono i tempi dei periodi di stasi del procedimento. Vengono ristretti i tempi per le riassunzioni del processo. Così è per l’art. 50 che riduce da 6 mesi a 3 mesi (dalla comunicazione della ordinanza di regolamento o della ordinanza che dichiara l’incompetenza del giudice adito) il termine legale per riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente (in mancanza di apposito termine giudiziale). Parimenti passano da sei a tre i mesi per la prosecuzione o riassunzione del processo interrotto (art. 305). A tre si riducono anche i mesi per la richiesta di fissazione dell’udienza di prosecuzione dopo la cessazione della causa di sospensione (art. 297). Tre mesi il termine massimo che il giudice può concedere per la sospensione su istanza delle parti dell’art. 296, norma praticamente inapplicata, i cui ritocchi (intervento del giudice, subordinazione a giustificati motivi, irripetibilità della vicenda, fissazione dell’udienza per la prosecuzione del processo) lasciano, per questa ragione, il tempo che trovano. Sempre tre mesi – invece che un anno – il termine dopo il quale si produce estinzione del processo per inattività delle parti (art. 307 c. 1); ancora 3 mesi (in luogo di quello semestrale) il termine massimo che il giudice è autorizzato a fissare ai sensi del comma 3 dello stesso articolo. Tre mesi ancora (in luogo di sei) dalla notificazione della sentenza d’appello per la riassunzione davanti al primo giudice in caso rinvio allo stesso ex art. 353 (e, conseguentemente anche per rinvio ex artt. 354 e 383). Modificato anche l’art. 392, sicché riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio potrà aversi non oltre tre mesi dalla pubblicazione della sentenza della Corte di cassazione. Finora il termine era annuale. Infine viene ridotto il termine lungo annuale per l’esercizio dell’onere dell’impugnazione (e quindi per il passaggio in giudicato) ai sensi dell’art. 327. La cosa riduce sensibilmente la frequentissima proroga della sospensione feriale dei termini, ed impedisce che si dia (come oggi invece avviene) applicazione di una seconda sospensione feriale quando la prima scadenza prorogata cada di nuovo nel periodo dal 1 agosto al 15 settembre. Gli effetti indiretti della modifica dell’art. 327 sono senz’altro positivi, ma appare comunque sopravvalutata l’importanza della riduzione generalizzata dei termini per le parti. L’esperienza insegna che l’accelerazione imposta alle parti non conta nulla senza meccanismi acceleratori dell’attività del giudice, come insegnano i procedimenti mancanti di una vera trattazione istruttoria (cassazione, ma anche appello) in cui l’incommensurabile durata è provocata dai tempi morti dell’attesa della decisione.

5. Altre modifiche riguardanti la disciplina dei termini. Una salutare scelta equitativa ha portato ad aggiungere all’art. 153 un secondo comma che deroga alla rigidità della regola della improrogabilità dei termini perentori “nemmeno sull’accordo delle parti”. Secondo il nuovo testo, “La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’articolo 294, secondo e terzo comma”. La chiusura dell’art. 153 è stata da molti considerata un baluardo contro il disordine ed il possibile favoritismo, ma mostrava ormai la corda da tempo (complice una certa giurisprudenza che, esaltatasi al verbo del “principio di preclusione” portato sugli altari dalla riforma del 1990, aveva ritenuto di farne una delle colonne della procedura). Ben venga quindi l’apertura, della quale si può per ora prevedere che susciterà discussioni quanto alla sua concreta applicabilità ai termini di impugnazione. Consegue alla modifica dell’art. 153 l’abrogazione dell’art. 184-bis in quanto prescrizione già abbracciata nell’ampia portata della nuova e generale rimessione in termini.

6. Retroattività della sanatoria dei vizi di rappresentanza o assistenza. L’art. 182 c. 2 riceve un addendum che permette di sfruttare al meglio il rispetto del termine perentorio assegnato alle parti “per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa”. L’osservanza del termine infatti “sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione”. La norma è opportuna, dato che la giurisprudenza predilige – con formalismo degno di miglior causa – la soluzione della irretroattività. Come tutte le regole del processo e sul processo, anche la nuova possibilità si presta a possibili abusi, ma questo è problema più generale che dovrebbe trovare i suoi antidoti in una cultura giudiziale fatta di maggiore attenzione al caso concreto e di minore idolatria per l’applicazione meccanica delle regole.

7. Accelerazione della CTU. Il primo comma dell’art. 191 viene riformulato allo scopo di accelerare la consulenza tecnica. Il giudice istruttore, con ordinanza ai sensi dell’articolo 183, settimo comma, o con altra successiva ordinanza, “nomina un consulente, formula i quesiti e fissa l’udienza, nella quale il consulente deve comparire”. Come si vede si tagliano gli usuali tempi morti che vedevano separate nel tempo nomina, formulazione dei quesiti e udienza di presa d’incarico. Il che, beninteso, non significa ancora accelerazione dei tempi: non si insisterà mai abbastanza sul fatto che questi ultimi sono scanditi ben più dallo scadenzario del giudice che dal moto effettivo delle fasi del processo. La riscrittura del terzo comma dell’art. 195 completa la velocizzazione della procedura della consulenza imponendo che “la relazione deve essere trasmessa dal consulente alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice con ordinanza resa all’udienza di cui all’articolo 193. Con la medesima ordinanza il giudice fissa il termine entro il quale le parti devono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione e il termine, anteriore alla successiva udienza, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle stesse”. Vale anche a questo proposito la speranza che la accelerazione della consulenza si trasformi in accelerazione della conclusione del processo.

8. Adeguamento pecuniario di sanzioni e penalità. Alla somma di cinque euro di massimo della pena pecuniaria del ricusante in caso di declaratoria di inammissibilità o di rigetto della ricusazione, si sostituiscono i duecentocinquanta del nuovo art. 54. Viene riabilitato il senso del ridicolo, anche la pena resta abbastanza timida. Stesso discorso per la responsabilità del custode che non esegue l’incarico: da un massimo edittale di dieci euro ad una somma graduabile tra € duecentocinquanta e € cinquecento. Quanto all’ordine di ispezione di persone e di cose a carico, la condanna “a una pena pecuniaria non superiore a euro 5”, del terzo che rifiuti l’ispezione si trasforma nella pena pecuniaria da euro 250 ad euro 1500.

9. Contenuto e pubblicità della sentenza. Modifica apparentemente solo terminologica per quel che riguarda il contenuto della sentenza, che dovrà contenere, (ai sensi del n. 4 dell’art. 132) non più “la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione”, bensì “la concisa esposizione dello svolgimento del processo delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”. Il senso della modifica non è chiarissimo ma la nuova norma va comunque collegata alla contestuale modifica al primo comma dell’articolo 118 disp. att. secondo cui “La motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi” (formula quest’ultima già utilizzata dal moribondo art. 16 c. d. lgs. N. 5/2003). Pubblicità della sentenza. Alla prescrizione dell’art. 120 relativa all’ordine di inserzione per estratto in uno o più giornali, si aggiunge la possibilità dell’inserzione “per estratto ovvero mediante comunicazione, nelle forme specificamente indicate, in una o più testate giornalistiche, radiofoniche, televisive o siti internet”. E questo in funzione anche della riparazione del danno, “compreso quello derivante per effetto di quanto previsto all’articolo 96”.

10. Disciplina delle spese. Il richiamo all’art. 96 riporta ai ritocchi apportati agli artt. 91, 92 e 96. Al primo comma dell’art. 91 è stato aggiunta la prescrizione che il giudice, “se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa tempestivamente formulata, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92”. La norma ricalca (nello spirito, almeno) le norme degli artt. 16 comma 2 e 40 comma 5 del d. lgsl. n. 5/2003. L’art. 92 interviene sulla possibilità, fuori della soccombenza reciproca, della compensazione delle spese (possibilità peraltro già “imbrigliata” dalla introduzione, per effetto della legge n. 263/2006 dell’obbligo dell’esplicita indicazione in motivazione dei giusti motivi), e aggiunge un altro elemento restrittivo: che concorrano “altre gravi ed eccezionali ragioni”. Lo sfavore per il diffuso fenomeno della compensazione non potrebbe essere più esplicito. Un terzo comma si aggiunge poi all’art. 96, nel senso che, oltre alle due categorie classiche di responsabilità aggravata, “quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro 20.000”. Si tratta di una forma di condanna ai danni forfettariamente determinati che dovrebbe, semplificando la vita all’avente diritto e tranquillizzando il giudice, far uscire l’art. 96 dal suo limbo di norma poco (o punto) applicata.

11. Regime della questione rilevata d’ufficio. L’art. 183 comma 4 indica chiaramente che “il giudice … indica le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”, ma la prassi appare renitente a considerare questo un obbligo pieno a tutti gli effetti. Giunge ora di rinforzo un nuovo comma aggiunto all’art. 101: “Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”. È evidente la speranza di recuperare, ex post ed attraverso una norma sulla decisione, l’obbligo eventualmente tralasciato in sede di trattazione. Alla norma ha fatto da battistrada, tra l’altro, l’art. 384 c. 3 introdotto dal d. lgs. n. 40/2006 per il giudizio di cassazione.

12. Rilevanza dei fatti non contestati. Alla prescrizione per cui “il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero”, il nuovo comma 1 dell’art. 115 aggiunge “nonché i fatti ammessi o non contestati”. Il principio che la non contestazione di fatti allegati dalla controparte vale relevatio ab onere probandi per il deducente riceve qui consacrazione. In verità la pratica non aveva mai dubitato di ciò ma molti distinguo della dottrina (alla cui chiarificazione non avevano giovato neppure gli artt. 423 c. 1 e 186-bis) e varie oscillazioni giurisprudenziali avevano sempre tenuto acceso il dibattito sulla effettiva portata della regola. Oggi la regola è codificata ed è sicuramente un bene, ma proprio ciò rende più pressante la necessità di rivedere l’incongrua disciplina della contumacia, tutta irragionevolmente sbilanciata a favore del contumace (ma l’incredibile vicenda della declaratoria incostituzionalità dell’art. 13 d. lgs. n. 5/2003 – che aveva cercato di responsabilizzare il comportamento del contumace – indica che l’argomento merita ancora di essere affrontato con un coraggio che finora è mancato).

13. La testimonianza scritta. L’art. 257-bis introduce una sorta di affidavit all’italiana ammettendo il giudice a disporre l’assunzione della deposizione testimoniale attraverso risposta scritta ai quesiti su cui il teste deve essere interrogato. Il comma 1 da un lato intesse di cautele preliminari l’esercizio di questo potere (“Il giudice, sentite le parti e tenuto conto di ogni circostanza, può disporre, avuto particolare riguardo all’oggetto della causa, di assumere la deposizione chiedendo al testimone, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 203, di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato”), dall’altro l’ultimo comma ha cura di precisare che il giudice, “esaminate le risposte, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato”. Tutto ciò non ha però impedito la levata di voci critiche tra i primi commenti al progetto di norma, sorta di rassegnata sfiducia nel timore che il diffuso malcostume possa volgere la norma a meccanismo di più agevole aggiramento della conoscibilità della verità dei fatti. In realtà è difficile fare previsioni, perché, se è vero che sa di operazione meccanica l’invocazione della presenza della testimonianza scritta in altri ordinamenti (si tratta di ordinamenti ben più attenti e severi del diritto italiano vivente rispetto al possibile mendacio), è anche vero che sa di retorica invocare la perdita dell’immediatezza della prova, visto che la tollerata presenza della poco virtuosa prassi dell’interrogatorio dei testi da parte dei legali ha vulnerato da tempo quella garanzia. Il grosso della disciplina della testimonianza scritta sta nelle disposizioni di attuazione, tra le quali viene inserito l’art. 103-bis (Modello di testimonianza) che prescrive che essa sia resa su di un modulo conforme al modello approvato con decreto del Ministro della giustizia, che individua anche le istruzioni per la sua compilazione. Oltre a una puntigliosa elencazione di modalità l’articolo stabilisce che il modulo “deve altresì contenere l’ammonimento del testimone ai sensi dell’articolo 251 del codice e la formula del giuramento di cui al medesimo articolo”. È impossibile trattenersi dal pensare quanto curioso sia questo giuramento privato che la parte recita… a se stessa, tanto più che sarebbe bastato il richiamo alle sanzioni penali per la falsa testimonianza, visto che l’art. 372 c. p. non punisce il falso giuramento del testimone ma direttamente la falsità della testimonianza resa. Si veda anche il nuovo primo comma dell’art. 104 disp. att. relativo alla decadenza dalla prova della parte che non fa chiamare i testimoni.

14. L’eccezione di estinzione “L’estinzione opera di diritto ed è dichiarata, anche d’ufficio, con ordinanza del giudice istruttore ovvero con sentenza del collegio”. Così il nuovo quarto comma dell’art. 307, che taglia peraltro l’inciso per cui essa “deve essere eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa”. La modifica esprime un notevole favor per l’estinzione, che invece era limitata non solo dalla impossibilità di una declaratoria d’ufficio, ma anche dalla necessità che la parte che intendesse valersi dell’estinzione la facesse valere in maniera decisa, immediata e non subordinata ad altra difesa. Questa variante cambia molto della figura dell’estinzione, e mi pare che intanto venga meno la impossibilità (finora acclarata) di far valere l’evento estintivo con i mezzi di impugnazione. La scelta sembra dettata dalla affannosa ricerca di accelerazione dei tempi del processo, ma non mi pare che il gioco valga la candela.

15. Notificazione della impugnazione. Il nuovo testo dell’art. 330 contiene ora l’inciso per cui l’impugnazione notificata “presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio” si notifica “ai sensi dell’articolo 170”, il che vuol dire che “è sufficiente la consegna di una sola copia dell’atto anche se il procuratore è costituito per più parti” (art. 170 c. 2). La novità codifica un principio di buon senso, contrastato da un formalismo giurisprudenziale che, solo negli ultimi anni aveva consentito la sanatoria di una notificazione per lungo tempo considerata inesistente.

15. Nuovi documenti in appello Tristi e dolenti note qui, peraltro annunciate dalla progressiva chiusura giurisprudenziale sul tema in virtù di una malintesa applicazione del principio della “ragionevole durata”. L’art. 345 c. 3 viene così riscritto: “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ecc.” Non vi sono giustificazioni ad una norma siffatta; calata nella realtà del nostro processo, essa consacra la progressiva degradazione del processo d’appello, in cui praticamente non si può ottenere altro che un nuovo giudizio di diritto su fonti cristallizzate. Il discorso porterebbe lontano ma gli operatori che hanno l’esperienza del processo davanti le nostre Corti d’Appello sono in grado di capire a volo quel che si intende.

16. Le astreintes. Il tentativo di rendere meno platonico l’adempimento degli obblighi di fare infungibile o di non fare ha portato alla formulazione del nuovo art. 614-bis, secondo cui “con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento”. Si tratta del meccanismo c.d. delle “astreintes”, delle spinte forzose, ma indirette, cioè, ad adempiere obblighi nell’esecuzione dei quali il debitore non può essere direttamente surrogato dagli organi dell’esecuzione. Con motivazioni spesso singolari, la dottrina italiana si era a lungo opposta a questo tipo di soluzione, ma ormai da tempo l’esigenza di far pagare chi non adempiva nella coscienza della insurrogabilità della propria prestazione, si era imposta all’attenzione dei legislatori in pectore che avevano dato vita al c.d. Progetto Tarzia di riforma del codice negli anni novanta e al c.d. Progetto Vaccarella di un nuovo codice di rito nei primi anni dell’ultimo decennio. Curiosamente, dopo tanto discettare se adottare il sistema francese della condanna-indennizzo (cioè a favore del creditore) ovvero il sistema tedesco della condanna-pena (cioè a favore dell’erario), il legislatore non fa parola del destinatario del pagamento. Mi sembra però che non dovrebbero esserci dubbi sulla adozione del primo modello. La norma dà al giudice un ampio potere discrezionale quanto all’opportunità di pronunciare la condanna pecuniaria. Difficile riempire a priori il concetto di “manifesta iniquità”, che a me sembra un po’ il residuo della risalente diffidenza della nostra letteratura per questo istituto: qui si varrà la tua nobilitate viene da dire all’immaginario giudice chiamato alla valutazione. Il secondo comma dell’articolo prevede che il giudice “determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile, delle condizioni personali e patrimoniali delle parti, e di ogni altra circostanza utile”. La disposizione non si applica, però, “alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409”. È evidente che il legislatore ha voluto mantenere una linea cauta, per timore di un aggravamento eccessivo degli oneri del sistema produttivo; l’opinione critica, secondo cui la posizione del lavoratore dipendente sarebbe stata invece la prima tra quelle da ricomprendere nella previsione, è stata peraltro già formulata.

16. Il giudizio di cassazione Di un qualche rilievo le modifiche al giudizio di cassazione. Viene abrogato (dopo breve vita) l’art. 366-bis. Scompare così il “quesito di diritto”, requisito degno di credito ma straziato dalle interpretazioni incongruamente formalistiche che una certa giurisprudenza della Suprema Corte ne aveva dato. Amen. In compenso, con l’introduzione dell’art. 360-bis viene tentato un rafforzamento degli argini dell’accesso al giudizio rispetto alla piena dei ricorsi (poco arginata dal d. lgs. N. 40/2006) e all’innegabile abuso del rimedio da parte di troppi. Una prima versione dell’articolo (che conferiva un previo giudizio di ammissibilità del ricorso ad un collegio ristretto di 3 membri nella forma della camera di consiglio) aveva suscitato una vera sollevazione nell’avvocatura, che la aveva giudicata eccessivamente penalizzante del diritto di difesa nonché in contrasto con la garanzia dell’art. 111 c. 7 cost. L’attuale versione edulcora notevolmente quel testo e – eliminando la strettoia del previo giudizio di ammissibilità – si limita ad aggiungere due figure di inammissibilità del ricorso a quelle già conosciute dall’ordinamento. Le nuove sanzioni di inammissibilità sono prescritte “quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa” (n. 1), nonché “quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo” (n. 2). Come giudicare l’innovazione? Il precedente testo meritava (non tutte ma sicuramente alcune delle) critiche rivoltegli; il nuovo sfugge alle sostanza di quelle critiche poiché si limita a legittimare l’ampliamento della categoria della inammissibilità a supporto del ricorrente tentativo della Corte di ridurre l’abuso del ricorso. Intendiamoci: a rigore la Corte non aveva bisogno di farsi autorizzare dal legislatore per il caso della manifesta infondatezza del n. 2 dell’articolo, poiché la manifesta infondatezza del ricorso rientrava già nei casi del rigetto con la procedura della camera di consiglio e non aggiunge granché trasformare una manifesta infondatezza in un caso di inammissibilità. Ma, osservato che non è la prima volta che la Corte chiede aiuto al legislatore per fare cose che avrebbe ben potuto fare da sé. Si è anche osservato che la “censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo” non fa riferimento ad uno dei motivi contemplati dall’art. 360, ma va anche detto che tale censura è diventata ormai lo standard di un gran numero di ricorsi (che variamente la distribuiscono tra i nn. 4, 5 e 3), onde la sua evocazione non è così irragionevole come potrebbe apparire. Quanto al n. 1, la sua formulazione esprime la volontà di rinforzo della funzione di indirizzo della Corte, e bisogna dire che in essa appaiono in equilibrio le esigenze di continuità e le esigenze di progresso. More solito però, norme del genere sono degli utensili la cui bontà o dannosità sta tutta nell’uso che se ne farà da parte della Corte, uso che potrà essere intelligente o miope, rispettoso o irrispettoso della ricerca di un punto di equilibrio tra esigenze di tutela giurisdizionale del singolo, nomofilachia ed efficienza del sistema. In questa fase conviene sospendere il giudizio. La legge interviene anche sulle modalità della declaratoria di inammissibilità del ricorso, modificando il primo comma dell’articolo 376 nel senso di conferire al primo presidente (“tranne quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374”) il potere di assegnare i ricorsi ad “apposita sezione” che verifica se sussistono “i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5). Se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all’assegnazione alle sezioni semplici”. Come si può vedere, si tratta della consacrazione legislativa della procedura, affermatasi di fatto negli ultimi anni, dell’avviamento accelerato delle manifeste inammissibilità alla camera di consiglio tramite la c.d. “struttura”, nome sinistro per indicare il gruppo di magistrati addetto all’esame preliminare dei ricorsi. Consacrazione completata dalla inserzione nel TU Ord. Giud. di un articolo 67-bis (Criteri per la composizione della sezione prevista dall’articolo 376 del codice di procedura civile) che ufficializza “la sezione prevista dall’articolo 376, primo comma” prevedendo che ad essa siano “chiamati, di regola, magistrati appartenenti a tutte le sezioni”. L’art. 375 viene ritoccato per rendere la procedura in camera di consiglio adeguata alle modifiche; l’inammissibilità per “mancanza dei motivi previsti dall’articolo 360” passa dal n. 5 al n. 1 (del comma 1); lo stesso n. 5 perde anche l’inciso finale relativo al “difetto dei requisiti previsti dall’articolo 366 bis”, considerata l’abrogazione di questo. Viene riformulato, in ragione delle modifiche dell’art. 360-bis e 376, anche l’art. 380-bis la cui rubrica diventa “Procedimento per la decisione sull’inammissibilita` del ricorso e per la decisione in camera di consiglio”

17. Il regime della sentenza sull’opposizione all’esecuzione. La legge di riforma sopprime l’ultimo periodo dell’art. 616 (di recente ed infausta introduzione) secondo cui “La causa è decisa con sentenza non impugnabile” (leggi: non appellabile, ma ricorribile per cassazione). La relativa sentenza torna così ad essere appellabile secondo le regole generali, mentre resta meramente ricorribile per cassazione la sentenza resa sulle opposizioni agli atti, ai sensi dell’art. 618 commi 2 e 3.

18. Il calendario del processo. La legge di riforma non rinuncia all’idea del “Calendario del processo” (già grido di battaglia dell’abortito, Progetto del Guardasigilli Mastella), ed introduce l’art. 81-bis disp. att. che prescrive che il giudice, “sentite le parti e tenuto conto della natura, dell’urgenza e della complessità della causa, fissa il calendario del processo con l’indicazione delle udienze successive e degli incombenti che verranno espletati”. La fissazione avviene quando esso “provvede sulle richieste istruttorie”: non in limine litis, dunque, ma al momento dell’ordinanza istruttoria quando dovrebbero essere meno oscuri i possibili svolgimenti del processo. Questa precisazione temporale rende la norma meno velleitaria di quella che faceva mostra di sé nel citato Progetto, ma ci si consenta di sospendere il giudizio sul suo effettivo impiego e – ove impiegato – sulla sua effettiva efficacia, una volta che si passi dalla carta alla pratica. Naturalmente “i termini fissati nel calendario possono essere prorogati, anche d’ufficio, quando sussistono gravi motivi sopravvenuti”. Non si sfugge però alla solita imposizione stile oratorio secondo cui “la proroga deve essere richiesta dalle parti prima della scadenza dei termini”: si ritiene evidentemente che i “gravi motivi sopravvenuti” siano accidenti temporalmente limitati alla fase anteriore alla scadenza, e incapaci di presentarsi dopo.

19. Il procedimento sommario di cognizione. Abrogato l’art. 19 d. lgs. N. 5/03 (c.d. sommario societario) il legislatore si accinge a varare un rito sommario che da quella norma si distacca nettamente sia per l’articolazione del procedimento, sia per essere indirizzato ad un accertamento con forza di giudicato, laddove l’art. 19 negava espressamente al provvedimento di accoglimento del ricorso l’applicabilità dell’art. 2909 c.c. A regolare il nuovo procedimento vengono inseriti nel quarto libro gli articoli 702-bis, ter e quater, a cui conviene qui dare uno sguardo molto sintetico. Nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, la domanda può essere proposta con ricorso; fissata l’udienza di comparizione, il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, viene notificato al convenuto e dà luogo ad una vicenda strutturata sul modello del processo di cognizione da ricorso (costituzione, termini preclusivi di eccezioni, riconvenzione e chiamata di terzi ecc.). È affidato al giudice valutare se le difese svolte dalle parti sopportano un’istruzione sommaria ovvero richiedono un’istruzione ordinaria. In quest’ultimo caso, “con ordinanza non impugnabile, fissa l’udienza di cui all’articolo 183” e il processo continua con l’applicazione delle disposizioni del libro II. Viceversa, “alla prima udienza il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande”. L’ordinanza così pronunciata “produce gli effetti di cui all’articolo 2909 del codice civile se non è appellata entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione”. Si ha così una pronuncia decisoria che, oltre alla condanna esecutiva (se di accoglimento), contiene un vero accertamento e in nulla si distingue dalla sentenza, se non per il fatto che ad essa si arriva tramite un procedimento deformalizzato (a partire dalla fase successiva al giudizio che esclude la necessità di istruzione ordinaria). Da notare che in appello sono ammessi “nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene rilevanti ai fini della decisione”. Che dire? Ferma restando la legittimità di un accertamento con forza di giudicato all’esito di un processo sommario e deformalizzato, astenersi dal fare previsioni sul successo del modello è d’obbligo, poiché sarà la volontà collettiva della magistratura civile a dare valore o a lasciar cadere lo strumento. Si tratta di una magistratura che ha decretato in partenza (ed ha ottenuto) la condanna capitale del processo societario, che ha snobbato e reso obsolete le ordinanze anticipatorie su cui facevano tanto affidamento i legislatori, che, pur dichiarando ad ogni pie’ sospinto la sua fedeltà alla legge, in realtà resta arbitra della vita o della morte delle singole norme del codice di rito. Se ritiene che il principio della durata ragionevole non tolleri la produzione di documenti in appello, reinterpreta di conseguenza l’art. 345; se confronta lo stesso principio con l’art. 37, ne cancella la parte che sancisce la rilevabilità dell’eccezione di giurisdizione in ogni stato e grado. Questo giudizio non risente solo delle scelte esplicite degli alti consessi giurisdizionali (che, comunque, hanno avuto un’impennata negli ultimi tempi) poiché essa discende dall’osservazione del comportamento generalizzato dei giudici civili. Comportamento – fatto di comuni scelte, propensioni, abitudini, omissioni di ogni giorno – che diventa subito norma (sia chiaro: nessuna critica agli uomini – e alle donne – in campo. L’anomalia del processo italiano è tale che induce a pensare che, al loro posto, sarebbe difficile per chiunque comportarsi diversamente).


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Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.

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2 commenti:

  1. Luigi Passalacqua

    Perché escludere le controversie di lavoro? Sarebbe stato un ottimo strumento nei casi il cui il datore rifiuti di reintegrare o comunque riammettere in servizio il lavoratore vittorioso in giudizio!



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