Avv. Mirco Minardi
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L’abbandono della casa familiare non comporta automaticamente l’addebito della separazione al coniuge che si è allontanato; occorre indagare le ragioni dell’allontanamento.
Non vi è addebito, ad esempio, se l’allontanamento non è causa della intollerabilità della convivenza, bensì l’effetto; oppure se esso è stato determinato da comportamenti aggressivi, ingiuriosi, minacciosi dell’altro coniuge.
Tuttavia, l’abbandono genera una presunzione di responsabilità; pertanto al coniuge allontanatosi spetterà l’onere di dimostrare l’esistenza di una giusta causa, ovvero di una situazione già irreversibilmente logorata.
Nella decisione in esame il resistente si è limitato ad affermare, ma senza provarlo, di essere stato cacciato dalla moglie; pertanto, non avendo provato l’esistenza di una giusta causa, la separazione gli è stata addebitata.
Tribunale Roma, sez. I 01/02/2011 n. 1868
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Non vi è contestazione sulla impossibilità di ricostituire il consorzio familiare. La elevata conflittualità che ha caratterizzato i rapporti tra le parti e la separazione protrattasi per tutta la durata del processo conducono ad escludere la possibilità di una riconciliazione tra i coniugi ed a riconoscere la intollerabilità della prosecuzione della convivenza.
Deve in conseguenza essere pronunciata la separazione giudiziale dei coniugi.
2. In ordine alle contrapposte richieste di addebito, mentre quella svolta dal resistente non può ritenersi fondata non essendo stata addotta a sostegno della stessa alcuna specifica violazione dei doveri matrimoniali da parte della moglie tale non potendosi ritenere la propensione, comunque non provata, da parte di costei al gioco di azzardo che sembrerebbe peraltro dalle stesse deduzioni di cui alla comparsa di risposta circoscritta alla frequentazione di una sala Bingo dove – e la circostanza appare illuminante – la figlia presta attività lavorativa precaria, la domanda di addebito proposta dalla ricorrente è, al contrario, pienamente fondata. Invero, l’abbandono del tetto coniugale risalente a data antecedente all’introduzione del giudizio (ovverosia al marzo 2006) ed ammessa dallo stesso P. limitatosi ad eccepire senza fornirne alcuna prova di essere stato cacciato dalla moglie, costituisce di per sé violazione di un obbligo posto a carico dei coniugi. Al riguardo appare opportuno chiarire che anche se la norma non sanziona il mero dato “formale” dell’allontanamento di uno dei coniugi dalla sede familiare, ma – come avverte lo stesso dato normativo – un “comportamento” contrario ai doveri nascenti dal matrimonio, facendo in tal modo obbligo al giudice di verificare, nell’ambito della condotta complessiva tenuta da entrambi i coniugi, anche le ragioni che hanno dato luogo a tale comportamento, è anche vero che nessun riscontro di una eventuale giusta causa è stato fornito al riguardo dal convenuto (sul quale gravava il relativo onere), sicché il dato accertato non può non prevalere su ogni altra considerazione. Precisa invero la Corte Suprema al riguardo che il volontario abbandono del domicilio coniugale costituisce violazione di un obbligo matrimoniale ed è pertanto di per sé sufficiente a configurare, in quanto porta all’impossibilità della convivenza, causa di addebito della separazione, salvo che si provi – e l’onere incombe su chi ha posto in essere l’abbandono – che esso è stato determinato dall’altro coniuge ovvero che sia intervenuto quando l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza si era già verificata (cfr. Cass. 10.6.2005 n.12373, Cass. 29.10.1997 n. 10648 e Cass. 28/8/96, n. 7920).
La mancata corresponsione nel periodo intercorso tra l’abbandono del tetto coniugale e l’udienza presidenziale, pari a circa un anno e mezzo, di qualsivoglia contributo per il mantenimento della moglie e della figlia è di per sé sintomatica della rilevanza causale di tale comportamento sulla stabilità del legame matrimoniale alla luce del fatto che il P. risultava nel contesto familiare il principale percettore di reddito e che la casa familiare risultava condotta in locazione ad un canone di oltre euro 700,00 mensili.
Deve quindi concludersi per l’addebito della separazione al marito.
3. La richiesta di assegnazione della casa coniugale formulata dalla ricorrente non può che essere accolta, essendosene il marito già da tempo allontanato ed essendo ivi rimasta la figlia E. che convive insieme alla madre.
4. Con specifico riferimento alla richiesta di contributo che la ricorrente ha svolto per se medesima, è noto in via generale che condizione essenziale per l’insorgenza del diritto al mantenimento (oltre al fatto che la separazione non sia addebitabile al coniuge richiedente), è anzitutto che costui sia privo di adeguati redditi propri, in secondo luogo che sussista una disparità economica tra i due coniugi, ed in ultimo che l’assegno sia concretamente determinato in relazione alle circostanze ed ai redditi dell’altro coniuge, tenendo comunque presenti anche le condizioni del coniuge beneficiario.
Ciò premesso, dall’espletata istruttoria è emerso che la moglie abbia svolto attività lavorativa stabile come dipendente arrivando a percepire da ultimo un reddito mensile di circa euro 750,00 mensili (cfr. il CUD 2010 presentato dalle due diverse società, la L.C. e la G.C. s.r.l., presso le quali la T. ha svolto nell’anno 2009 mansioni lavorative essendo in tale anno passata alle dipendenze della seconda), senza che alcun concreto rilievo possano assumere, in ordine alla sua capacità di reddito, le dimissioni da costei volontariamente rassegnate in data 12.7.2010 (cfr. la documentazione allegata alla comparsa conclusionale) atteso che il licenziamento volontario, peraltro non provato (in difetto di dimostrazione sia dell’invio che della ricezione della lettera di dimissioni da parte del datore di lavoro), lascia necessariamente presumere la sussistenza di un’alternativa concreta tale da consentire al dimissionario la percezione di un corrispettivo uguale evidentemente a condizioni più favorevoli o addirittura superiore, a parità di condizioni, da quello versatogli dall’attuale datore di lavoro.
Il P. che risulta invece aver percepito fino al luglio 2008 un reddito mensile medio di circa euro 1.100,00 mensili svolgendo attività di pizzaiolo (cfr. CUD 2008 e 2009), sostiene di non aver più trovato successivamente a tale data, a seguito del licenziamento intimatogli dall’allora datore di lavoro (T.K. s.r.l.), nessun impiego stabile e di essere costretto invece a lavori saltuari. A prescindere dal rilievo che il licenziamento comminatogli risulta addebitale ad una condotta illecita da parte di costui e, come tale, provocato (cfr. la lettera in data 21.7.2008 dell’amministratore della società datrice di lavoro), in ogni caso la sua capacità di reddito non può ritenersi venuta meno alla luce dell’esperienza professionale acquisita, delle condizioni fisiche integre e dell’età relativamente giovane (50 anni), tenuto altresì conto del fatto che nulla è stato indicato in ordine ai proventi percepiti quale corrispettivo dei lavori precari che lo stesso ammette di svolgere. A ciò si aggiunge il venir meno al momento attuale, rispetto alle condizioni economiche accertate in sede presidenziale, dei rimborsi pari a circa euro 400,00 mensili, per i finanziamenti contratti nel corso della convivenza coniugale (l’ultimo dei quali risulta estinto nel maggio 2009: cfr. comparsa conclusionale) e del canone di affitto che in limine litis aveva dichiarato di corrispondere per la locazione dell’immobile adibito a propria abitazione essendosi per sua stessa ammissione trasferito a vivere presso amici.
In tale quadro, dovendosi ritenere che entrambi i coniugi siano in condizioni di provvedere autonomamente al proprio mantenimento, la richiesta di un assegno di mantenimento svolta dalla ricorrente deve essere rigettata.
5. Per quanto invece concerne la figlia E. è emerso dalle dichiarazioni rese dalle stesse parti in contraddittorio fra loro che la ragazza, che non risulta aver conseguito alcun titolo di studio di grado superiore, svolge anch’essa un lavoro precario come commessa presso una sala Bingo per la quale percepisce, stando alle dichiarazioni rese dalla madre, un salario di circa 300,00 euro mensili. In difetto di diverse risultanze circa i proventi percepiti deve ritenersi che, pur non coincidendo il conseguimento dell’indipendenza economica con l’instaurazione di un rapporto di lavoro giuridicamente stabile, in ogni caso l’esiguità del compenso percepito dalla ragazza necessiti di un contributo volto ad integrare il soddisfacimento delle sue più elementari esigenze di vita, calibrato sulle concrete condizioni economiche di entrambi i genitori. Conseguentemente si ritiene di determinare in euro 200,00 mensili l’assegno per il suo mantenimento che il P. dovrà versare direttamente a costei, fermo per il passato il provvedimento presidenziale, a decorrere dalla presente pronuncia.
6. Con tali statuizioni il giudizio resta definito.
La reciproca soccombenza delle parti impone l’integrale compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
il Tribunale definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da A.T. nei confronti di G.P. così provvede:
– dichiara la separazione personale fra le parti coniugate in A. in data 5 aprile 1984 con atto trascritto nei registri dello Stato Civile del comune di A. dell’anno 1984 al n. …omissis… parte …omissis…, serie …omissis… e per l’effetto ordina al competente ufficiale dello stato civile di procedere alla annotazione della presente sentenza;
– dichiara la separazione, addebitabile al resistente e rigetta la domanda di addebito proposta dal resistente nei confronti della ricorrente;
– assegna la casa coniugale sita in R., via …omissis… alla ricorrente;
– fermi, per il passato, i provvedimenti del Presidente, determina, a decorrere dalla presente pronuncia, in euro 200,00 mensili il contributo dovuto per il mantenimento della figlia E. e per l’effetto condanna il resistente a corrispondere direttamente a quest’ultima detta somma, oltre alla rivalutazione annuale secondo l’Istat, entro il giorno 5 di ogni mese;
– rigetta la domanda di mantenimento in favore della moglie;
– dichiara le spese di lite integralmente compensate tra le parti.
Così deciso in Roma, il giorno 22 ottobre 2010
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