La Consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c. è una delle creazioni del legislatore riformatore del 2005.
L’Avv. Raffaele Plenteda ha scritto un interessante articolo, già pubblicato da Altalex, che trovate in calce.
Tre, i punti toccati:
- la natura giuridica dell’istituto;
- il valore della relazione tecnica nel successivo giudizio;
- gli effetti della mancata comparizione dell’intimato.
Buon ascolto!!!
LA CONSULENZA TECNICA PREVENTIVA AI FINI DELLA COMPSOZIONE DELLA LITE
(art. 696 bis c.p.c. introdotto dal c.d. decreto competitività)
di Raffaele Plenteda
(articolo già pubblicato da Altalex)
Come è a tutti noto, tra le molte novelle introdotte nel sistema processual-civilistico dal decreto legge c.d. “competitività” (D.L. 35/2005, conv. con mod. in Legge 80/2005), il Legislatore del 2005 ha istituito ex novo la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, la cui disciplina è contenuta integralmente nel nuovo art. 696-bis del Codice di Procedura Civile.
Benchè inserito nel Capo III Titolo I del IV libro del Codice, rubricato “Dei procedimenti cautelari” e, segnatamente, nella sezione IV titolata “Dei procedimenti di istruzione preventiva”, l’istituto in parola è stato senza dubbio concepito come strumento alternativo di risoluzione delle controversie e non come strumento (cautelare) di costituzione preventiva di un mezzo di prova.
Il Legislatore, in altre parole, ha creato un meccanismo processuale connotato da una finalità strettamente conciliativa e, per questo, radicalmente diverso rispetto al canonico accertamento tecnico preventivo, anch’esso significativamente modificato dalla riforma.
Dalla novella legislativa, in definitiva, vengono fuori due istituti profondamente diversi, i quali non condividono tra loro né presupposti né finalità, con il necessario corollario, sul quale di seguito sarà opportuno fare alcune considerazioni, che le due figure giuridiche non possono certamente assimilarsi neppure riguardo ai rispettivi effetti processuali, specie con riferimento all’efficacia istruttoria che le relazioni tecniche, formate nei rispettivi ambiti, siano in grado di produrre all’interno del giudizio di merito successivamente instaurato.
Facendo ricorso ad un’espressione, certo assai sintetica, ma nondimeno in grado di rendere bene la dicotomia tra i due istituti, si può affermare che, mentre l’accertamento tecnico preventivo è strumento che mira a costituire una prova “prima del processo” ed “in vista del processo”, l’istituto disciplinato dal nuovo art. 696-bis pare configurare una prova “in luogo del processo”.
Questa norma, infatti, per l’ipotesi in cui si profili un contenzioso incentrato sull’accertamento ovvero sulla determinazione di crediti che traggano fonte da una fattispecie di responsabilità civile, contrattuale (crediti derivanti da mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali) ovvero aquiliana (crediti derivanti da fatto illecito), consente a ciascuna delle parti coinvolte nella disputa di dare impulso ad un particolare procedimento, finalizzato a sollecitare una soluzione conciliativa della lite.
Nella ricerca di strumenti processuali in grado di arginare l’inflazione del contenzioso giudiziario civile, il Legislatore ha dotato la parte privata del potere di convenire controparte innanzi ad un giudice per indurla, in questo modo, ad intraprendere un percorso che, avvalendosi dell’attività professionale di consulenza prestata da un terza persona esperta della materia (tecnico) ed istituzionalmente neutrale alla lite in quanto nominata dal giudice, giunga a tracciare un’ipotesi di soluzione della controversia, sulla quale le parti possano liberamente far convergere la propria volontà negoziale.
L’intervento neutrale del consulente tecnico, chiamato dal giudice ad esprimere il proprio orientamento sulle questioni (almeno prevalentemente) tecniche sottese alla definizione della vertenza, in questa prospettiva, ha una primaria funzione di tipo persuasivo:
a) scoraggiare iniziative giudiziarie che muovano da un approccio alle questioni tecniche, sottese alla fattispecie, di segno diametralmente opposto rispetto a quanto espresso in sede di consulenza preventiva;
b) fornire un orientamento valutativo, nei limiti dell’oggettività materiale del caso sottoposto all’attenzione del professionista, in grado di raccogliere il “consenso conciliativo” delle parti.
Il questa sede, come è evidente, il consulente è investito di funzioni ben più ampie di quanto non avvenga in ipotesi di consulenza tecnica d’ufficio in corso di giudizio ovvero in sede di accertamento tecnico preventivo. Nella consulenza preventiva, infatti, il peritus materiae non è chiamato ad operare in veste di semplice ausiliario del giudice ma, in sostanza, egli tira le fila dell’intera procedura. La connotazione funzionale della sua attività, in particolare, assume una coloritura del tutto peculiare: gli accertamenti svolti e gli orientamenti valutativi espressi nell’ambito della procedura non possono che risentire della richiamata “funzione persuasiva” dell’opera del consulente. Egli è tenuto a privilegiare l’esigenza di prospettare alle parti una soluzione della questione che, per quanto possibile, sia suscettibile di incassare il loro consenso e ciò, ove necessario, anche travalicando i limiti della propria competenza tecnica e della rigorosa verifica oggettiva degli elementi di fatto a disposizione, circoscritta alla stretta applicazioni delle regole e dei concetti scientifici propri della disciplina alla quale il consulente appartiene.
Sembra, allora, da condividere la posizione di quanti, nell’interpretare l’ultimo inciso del primo comma della disposizione, sostengono che il consulente sia tenuto a tentare la conciliazione non solo prima del deposito, ma addirittura nel corso della stessa redazione della relazione di consulenza, durante la quale operazione egli è tenuto ad ascoltare le posizioni espresse dalle parti procurando, per quanto possibile, di avvicinarle e rendere realizzabile l’accordo intorno all’orientamento espresso nella relazione definitiva.
Occorre sottolineare, per completezza, che il Legislatore prevede ulteriori incentivi per spingere le parti a conciliarsi di fronte al consulente. Si prevede, infatti, che il processo verbale di conciliazione sia esente dall’imposta di registro e che, per altro verso, tale verbale possa essere dotato dell’ “efficacia di titolo esecutivo” con decreto del giudice. Occorre precisare, tuttavia, che si tratterà di un titolo esecutivo idoneo a fondare l’espropriazione, l’esecuzione in forma specifica e l’iscrizione di ipoteca giudiziale, con esclusione, cioè, delle altre forme di esecuzione forzata.
Per inciso, se la funzione di questa consulenza è quella di consentire il formale espletamento di un tentativo “pre-giudiziale” di conciliazione, non dovrebbero esserci dubbi che, nel caso in cui il soggetto chiamato a partecipare alla procedura volontariamente non vi prenda parte (omettendo di costituirsi, di comparire o di partecipare alle operazioni del consulente), la procedura stessa non dovrebbe proseguire. In tal caso, infatti, la finalità compositiva sarebbe “istituzionalmente” compromessa ab origine e il giudizio di merito inevitabile. Ben inteso, in simile evenienza, sarà proprio il processo di cognizione la sede in cui far ricadere sulla parte, che ha in sostanza impedito il tentativo di composizione, le conseguenze (negative) del proprio atteggiamento “poco collaborativo”. Sul punto, tuttavia, è opportuno tornarci in seguito.
In definitiva, sembra che nessuno degli operatori del diritto, almeno sinora, abbia espresso seri dubbi intorno alla ricostruzione della consulenza tecnica preventiva a fini di composizione della lite appena succintamente delineata, né, peraltro, sembrano prospettarsi particolari difficoltà interpretative ed applicative per l’ipotesi in cui la procedura de quo abbia esito positivo, ossia l’iter procedimentale si concluda con la redazione, da parte del consulente tecnico incaricato, di processo verbale contenente la conciliazione delle parti.
Esistono, invece, profonde perplessità e visioni divergenti tra gli interpreti intorno alla problematica concernente il “destino” della relazione del consulente nell’ipotesi di mancata conciliazione preventiva tra le parti. In attesa delle prime applicazioni giurisprudenziali, infatti, si dibatte sull’efficacia da riconoscersi alla relazione di consulenza nel successivo giudizio di merito ed, in generale, sulle conseguenze giuridiche e processuali da riconnettersi all’avvenuto espletamento della procedura conciliativa che abbia avuto esito negativo. Il problema sorge in quanto, contrariamente a ciò che avviene per l’ipotesi di buon esito della conciliazione, per il caso (inverso) di successiva instaurazione del giudizio di cognizione la norma appare generica, limitandosi a riconoscere alle parti la facoltà di chiedere l’acquisizione agli atti della relazione depositata dal consulente (penultimo comma dell’art. 696-bis).
Nel tentativo di prospettare una valida soluzione a questo tipo di problematiche, bisogna tener ben presente la ratio conciliativa che permea l’istituto in esame ed evitare di avallare soluzioni di tipo utilitaristico che, pur di conservare una qualche efficacia alla relazione tecnica, sono troppo frettolosamente propense a trascurarne il percorso generativo, discostandosi in termini inaccettabili dal dato normativo.
Occorre prendere una posizione chiara: la relazione di consulenza formata nel procedimento ex art. 696-bis non è assimilabile, quoad effectum, alla relazione di C.T.U., sia essa espletata nel corso del giudizio di cognizione ovvero nell’ambito del procedimento di accertamento tecnico preventivo ex art. 696 c.p.c.
A favore di questa conclusione militano, prima di tutto, una serie di considerazioni sul carattere e sulle finalità della relazione ex art. 696-bis, già richiamate in precedenza.
Al consulente è riconosciuta la possibilità di travalicare i limiti della propria competenza professionale e di allontanarsi dalla semplice descrizione di fatti ed eventi e dalla valutazione tecnica e/o scientifica dei relativi processi causali e gli è consentito di esprimersi intorno all’ “accertamento e alla relativa determinazione di crediti”. Si tratta, cioè, di attività giuridica che, nel processo di cognizione, è di competenza esclusiva ed “indelegabile” del giudice. Nella procedura preventiva in parola, tale funzione è demandata al consulente nominato e ciò non può essere “motivo di scandalo” proprio perché il relativo esercizio non avviene in forma di statuizione officiosa, ma, semplicemente, di ipotesi conciliativa. In questa prospettiva, come anticipato, anche le semplici considerazioni tecniche del consulente sono orientate verso un “accertamento conciliativo dei crediti” e non scaturiscono da un approccio propriamente tecnico-scientifico.
A ciò si aggiunga che, affinché la procedura preventiva possa assolvere alla sua funzione, è auspicabile che le stesse parti assumano un atteggiamento non già “difensivo”, ma, al contrario, il più possibile conciliativo, fornendo al consulente tutte le notizie e facendo tutte le dichiarazioni che possano essere utili allo sforzo di ricerca di una soluzione condivisa. Riconoscere a tali contegni ed alle valutazioni che su di essi abbia operato il consulente una valenza probatoria azionabile nel giudizio di merito, sia pure sotto forma di argomenti di prova ex art. 116 c.p.c., come è stato acutamente osservato, comporterebbe una compressione del diritto di difesa. In questo caso, l’atteggiamento collaborativo della parte durante la procedura conciliativa le si ritorcerebbe contro nel corso del successivo giudizio di merito o, al contrario, l’esigenza di non pregiudicare la propria posizione nell’(eventuale) successivo giudizio, potrebbe indurla a non prestare un’adeguata collaborazione durante la fase conciliativa, pregiudicando seriamente, così, le possibilità di composizione della vertenza e mortificando la finalità stessa della norma in esame.
Orbene, tenuto conto di tutte queste considerazioni, in caso di esito negativo della procedura preventiva a fini di conciliazione, non si può certamente pretendere che il contenuto della relazione del consulente, nella sua parte descrittiva, di valutazione tecnica e di “accertamento e determinazione dei crediti”, abbia, nel giudizio di merito, una valenza istruttoria o possa assolvere alla funzione di integrazione della cognizione del giudice, propria della C.T.U..
Questa conclusione appare avvalorata da un chiaro elemento di diritto positivo, sinora non adeguatamente messo in evidenza. Ci si riferisce a quanto prevede l’art. 696 c.p.c. in materia di accertamento tecnico preventivo, sul quale il legislatore della riforma è significativamente intervenuto, per un verso, adeguando la normativa alle pronunce della Corte Costituzionale n°571/90 e n°257/96 in materia di ispezione giudiziale (preventiva) sulla persona dell’istante e sulla persona del terzo e, per altro verso, estendendo l’ambito dell’indagine preventiva dalla semplice verifica dello stato dei luoghi o della condizione delle cose anche a valutazioni in ordine alle cause e ai danni relativi all’oggetto della verifica (nuovo secondo comma dell’art. 696).
Come anticipato, dottrina e giurisprudenza riconoscono unanimemente all’accertamento tecnico preventivo la natura di strumento atto a costituire la prova “prima del processo” ed “in vista del processo”. Anche a seguito dell’intervento della novella legislativa, tuttavia, l’attivazione di tale istituto rimane condizionata al ricorrere dell’esigenza (di “cautela della prova”) di ovviare al periculum in mora rappresentato dal rischio che il ritardo nell’assunzione pregiudichi la possibilità di costituire la prova nel corso del processo.
Pur potendolo astrattamente fare, dunque, il Legislatore non ha inteso estendere la possibilità di raccolta preventiva della prova ai casi in cui ciò non sia reso necessario dal rischio della sua perdita, legato alle more del giudizio. Ne deriva che l’interprete non può pervenire ad un risultato diverso, consentendo la raccolta preventiva anche in assenza di ragioni cautelari, attraverso un’operazione esegetica che cada su una norma, quella di cui all’art. 696-bis, la cui ratio (di incentivo alla conciliazione pre-giudiziale), come chiarito, non è certamente quella di fornire alle parti uno strumento di pre-costituzione di un mezzo di prova.
E’ possibile rinvenire, infine, un ulteriore elemento di diritto positivo, che conferma l’asserita incapacità della relazione, resa in sede di consulenza tecnica preventiva, di assurgere a strumento di prova (o di integrazione della cognizione del giudice) nel successivo processo di merito. Ci si riferisce all’ultimo capoverso dell’art. 696-bis, il quale nel dichiarare applicabili alla nuova procedura, nei limiti della compatibilità, le norme codicistiche dettate in materia di nomina ed indagini del consulente tecnico, rinvia espressamente agli articoli da 191 a 197 c.p.c. Restano fuori dal rinvio, di conseguenza, non solo le disposizioni in materia di esame contabile (art. 198 c.p.c.) e, ovviamente, quelle in tema di conciliazione di fronte al consulente, su cui l’art. 696-bis dispone direttamente, ma è esclusa dal rinvio, altresì, l’art. 201 c.p.c., che disciplina la figura del consulente tecnico di parte, sancendo a favore delle parti un vero e proprio diritto processuale di nominare un proprio consulente tecnico, da affiancare al consulente nominato dal giudice nel corso di tutta l’attività demandata a quest’ultimo.
Si tratta di una disposizione che, a parere unanime di dottrina e giurisprudenza, esprime positivamente la necessità di attuare il principio del contraddittorio (c.d. contraddittorio tecnico) anche in sede di consulenza d’ufficio, garantendo che il processo abbia in ogni sua fase la tipica struttura dialettica, dalla quale dipende, in definitiva, la capacità di ogni istituto processuale di assolvere alla funzione per la quale è previsto. La partecipazione dei consulenti di parte, nello specifico, è ricostruita come strumento attraverso cui il giudice può, in concreto, operare quel controllo sull’operato del consulente d’ufficio che, in astratto, l’ordinamento gli affida.
Ora, ai fini che qui interessano, non sembra importante stabilire se le parti possano o meno comunque valersi dell’ausilio di un proprio consulente, quanto piuttosto rilevare che il principio (del contraddittorio tecnico) sul quale è eretta l’attitudine della consulenza tecnica d’ufficio ad assolvere alla funzione istruttoria o integrativa della cognizione del giudice non è stato esteso alla consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite.
E questo è del tutto in coerenza con le conclusioni alle quali, riguardo a tale istituto, si è giunti. In sede preventiva, i consulenti, da cui le parti si facciano assistere, non dovranno convincere nessuno dell’ (eventuale) erroneità delle conclusioni a cui è giunto il consulente nominato dall’ufficio, né la loro funzione sarà quella di indurre il giudice, con le proprie osservazioni critiche, a seguire o a disattendere le risultanze della relazione conclusiva. Piuttosto, essi potranno fornire il proprio contributo in via preventiva, segnalando aspetti della vicenda eventualmente trascurati ed esprimendo opinioni anche tecniche, dal confronto tra le quali l’individuazione di un orientamento condiviso divenga più probabile.
In sede di consulenza tecnica preventiva, lo scopo non è quello di confezionare una relazione capace di assolvere ad una funzione probatoria (o integrativa della cognizione del giudice). E’ davvero tautologico, di conseguenza, che tale relazione non sarà idonea e non potrà assolvere a simili funzioni.
Ed allora, a che scopo la norma riconosce alle parti la facoltà di chiedere l’acquisizione agli atti del giudizio di cognizione della relazione depositata dal consulente? Il progetto di riforma approvato dalla commissione “Vaccarella” lo prevedeva espressamente: con l’acquisizione della relazione, la parte primariamente mira a far valere una precisa responsabilità processuale dell’altra parte, da valutarsi ai sensi dell’art. 96 c.p.c.
Per il caso di fallimento del tentativo di composizione in sede di consulenza preventiva dipeso dalla mancata adesione di una parte all’orientamento valutativo espresso dal consulente nominato dal giudice, qualora la sentenza di merito profili una soluzione della vertenza in linea con tale (preventivo) orientamento, l’altra parte sarà legittimata a richiedere la condanna al risarcimento per “lite temeraria”, in quanto controparte ingiustificatamente non si è allineata all’ipotesi di composizione profilata dal consulente, costringendo la parte a sostenere i costi e le lungaggini di un giudizio che, con la dovuta diligenza processuale, si sarebbe dovuto evitare. E ciò, si badi, anche nell’ipotesi in cui la mancata composizione preventiva sia da imputarsi all’ (ingiustificato) rifiuto di conciliare, proveniente dalla parte vittoriosa nel processo di cognizione. Il risarcimento in questione, dovrà comprendere tra le varie poste, anche la rifusione delle spese, legali e di consulenza, sostenute per dare impulso o, comunque, per prender parte alla procedura preventiva.
Allo stesso modo, anche l’ipotesi di volontaria omessa partecipazione alla procedura di composizione di una delle parti può, senza dubbio, integrare la fattispecie di responsabilità processuale aggravata, tutte le volte in cui il giudizio di cognizione si concluda con l’accoglimento, anche parziale, della domanda proposta dalla parte che ha preventivamente promosso la procedura di consulenza. Anche in questo caso, è da imputarsi al negligente contegno processuale della parte contumace l’impossibilità di esperire un tentativo di composizione “pre-giudiziale” che avrebbe, in caso di esito positivo, fatto evitare il giudizio di cognizione. Al contrario, si ritiene che in caso di totale soccombenza nel merito della parte che ha promosso la procedura conciliativa, le relative spese ed oneri debbano rimanere a suo carico anche in caso di contumacia di controparte nella fase preventiva: l’accertata carenza del suo diritto, infatti, ne esclude la tutelabilità e destituisce di fondamento qualunque iniziativa giurisdizionale che miri a farlo valere.
Una simile impostazione, peraltro, ha l’indiscutibile pregio di incentivare le parti a partecipare (e con diligenza) alla procedura preventiva, configurando una sorta di sanzione civile per il caso di ingiustificata omessa partecipazione ovvero ingiustificata mancata composizione della controversia.
Resta da chiedersi la ragione per cui il penultimo comma dell’art. 696-bis, come prospettato dall’originaria formulazione, abbia eliminato l’esplicito riferimento alla responsabilità processuale come specifica finalità connessa alla richiesta di acquisizione della relazione resa in sede di consulenza tecnica preventiva.
Ebbene, pare che la più generica locuzione contenuta nella norma abbia l’indiscutibile pregio di non precludere aprioristicamente qualunque ulteriore (e secondario!) utilizzo della relazione, che ne rispetti la sua connotazione di strumento orientativo, in ogni caso inidoneo a costituire un mezzo istruttorio ovvero uno strumento di integrazione della cognizione del giudice, utilizzabile ai fini della decisione di merito.
Viene in mente, per esempio, la fattispecie di “provvisionale”, disciplinata dall’art. 147 del nuovo Codice delle Assicurazioni, il quale prevede, a determinate condizioni, l’assegnazione di una somma “nei limiti dei quattro quinti dell’entità del presumibile risarcimento che sarà liquidato in sentenza”. Orbene, nella fase processuale in cui il giudice è chiamato ad accordare tale somma alla vittima di un sinistro stradale, in attesa di una canonica consulenza tecnica d’ufficio, gli elementi, dai quali desumere il “presumibile risarcimento che sarà liquidato in sentenza”, sono costituiti dall’indicazione contenuta nella domanda giudiziale, che è atto di parte e, in caso di precedente consulenza “per la determinazione dei crediti” ex art. 696-bis, dalla relazione redatta dal professionista nominato dal giudice, col contributo di entrambe le parte (e dei rispettivi consulenti).
Tra i due indici, quello che appare più attendibile al fine di fondare la valutazione, sommaria e ad effetti transitori, di “presumibilità” è proprio quello che scaturisce dalle conclusioni contenute nella menzionata relazione. Senza che ciò, ben inteso, possa in alcun modo far ritenere superflua la prova dell’entità del risarcimento da liquidarsi in via definitiva che, qualora coinvolga valutazioni tecniche, non potrà che passare attraverso la classica C.T.U.
La genericità dell’espressione contenuta nella disposizione, in conclusione, consente di non precludere a priori la possibilità di ricavare dalla “relazione preventiva” una qualche utilità, come avviene nel caso di provvisionale o in altri casi analoghi, che possono venire all’attenzione dell’interprete, in cui la legge riconnetta provvisoriamente determinati effetti alla verifica sommaria di determinati presupposti, i quali, tuttavia, non si avranno in questo modo per provati ai fini della sentenza vera e propria.
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