Costretti a scegliere (anche) dove morire? Concessione di un ultimo desiderio.Dott. Anna Cafagna

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“La morte assegna all’essere umano un compito morale, che è quello di trovare un senso che guidi ed assicuri la sua libertà.” Queste sono alcune delle parole conclusive dell’Ordinanza del Tribunale di Roma (16.12.2006) in merito alla vicenda Welby.

Pare conveniente cominciare con questa citazione che vuole costituire la chiave di violino di una riflessione che volutamente non si dilunga in notazioni personali, se non in sede conclusiva.

PREMESSA
Il testamento biologico, secondo la definizionedel Comitato nazionale per la bioetica del 2003 è il “documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato”.
La quaestio fondamentale che involge l’essenza del dibattito sulla autodeterminazione preventiva è quella del valore giuridico da riconoscere alla volontà di una persona ‘cosciente’, quando essa volontà sia destinata a produrre effetti in un momento in cui quella stessa persona non sia più ‘cosciente’ e quindi in grado di esprimerne una.
Consapevole di questo e della rilevanza dei significati coinvolti, l’Italia si confronta -di necessità virtù- con altri paesi che hanno offerto base normativa alle dichiarazioni di trattamento anticipate.
Traghettati da principi come quello del consenso informato (con tutto il background in cui esso affonda le proprie radici), si parla di volontà dell’individuo contenuta in un negozio unilaterale come il living will, caro ai paesi di common law, espressione che viene tradotta con testamento per la vita o testamento biologico (con tutte le querelles puramente appellative che ne derivano); si parla altresì di atto bilaterale con cui la persona interessata possa conferire incarico ad altra di sua fiducia perché funga da suo rappresentante per eseguire la volontà del preponente nominando un tutore o compiendo atti di amministrazione nei limiti delle precise direttive impartite.
Un’istituzione giuridica di origine internazionale limitrofa all’inquadramento delle direttive anticipate è la convenzione dell’Aia del 2000 sulla protezione degli adulti: essa si applica alla protezione degli adulti che a causa di alterazione o insufficienza delle facoltà personali non siano in grado di provvedere ai propri interessi, naturalmente nelle situazioni di ‘carattere internazionale’. Essa disciplina il mandat d’inaptitude sottoponendolo alla legge della residenza abituale dell’adulto al momento dell’atto (art. 15), dandogli peraltro la possibilità di scegliere espressamente per iscritto un’altra legge tra la legge nazionale, quella di residenza abituale precedente e, per quanto riguarda i beni situati in quel paese, la legge dello Stato ove i beni si trovano. La questione dei trattamenti medici è stata ampiamente esaminata nel corso dei travaux preparatoires, ma senza che venisse fatto riferimento alle direttive anticipate; pare dunque che la soluzione fondata sulla competenza delle legge di residenza abituale possa fornire un criterio anche per le direttive anticipate formulate dal paziente.
Il dibattito sulla scelta autodeterminativa è, nei paesi di common law, ristretta, esclusivamente (si fa per dire) al campo della cure terapeutiche; infatti, per i rapporti riguardanti l’amministrazione e la disposizione del patrimonio, nell’ipotesi in cui la persona interessata voglia dare disposizioni per la sua eventuale sopravvenuta incapacità, viene utilizzato quel flessibile strumento giuridico ch è il trust -preso in considerazione dai paesi di diritto ‘latino’ grazie alla convenzione dell’Aia-. Nel living trust il setlor costituisce trustee se stesso o nomina un successor trustee che nell’ipotesi di incapacità dello stesso setlor assumerà l’amministrazione dei beni in piena libertà di azione o eseguendo eventuali direttive.
Tuttavia, pur nella diversità delle soluzioni accolte, o in via di accoglimento, il cultore del diritto è consueto ospitare il fenomeno sotto il tetto della legge regolatrice della persona.
Giovanni Pacchioni già nel 1916 nei suoi “Elementi di diritto civile”, nel constatare i rischi di un isterilimento della riflessione, suggeriva: “Occorre illuminare e vivificare lo studio del codice civile patrio collo studio parallelo dei codici degli altri paesi, e più specialmente di quei codici che più si diversificano dal nostro”.
Nell’antica Grecia i problemi della vita e della morte si discutevano nell’agorà: risulta pertanto indubitabile l’utilità di una meditazione che non può certo rimanere circoscritta nei confini nazionali, visto l’impegno del nostro orizzonte culturale che questo argomento implica.

LE DIRETTIVE ANTICIPATE NEL MONDO
Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 sono gli Stati Uniti ad avviare una critica considerazione della questione. Nel 1967 Luis Kutner conia il termine living will.
Si inizia a discutere di living will e la via giurisprudenziale conferma la capacità di rappresentare lo stimolo più proficuo per una riflessione teorica.
L’occasione viene offerta, il riferimento è obbligatorio, dal caso Quinlan. Siamo nel 1975 ed una ragazza viene ricoverata in coma (svp) a seguito di un incidente stradale.
La Corte del New Jersey (1976), alla quale i genitori si rivolgono a seguito del rifiuto dei medici di spegnere gli apparecchi che la tengono in vita artificialmente -evidente la somiglianza della fattispecie al caso Englaro-, stabilisce che il diritto al rifiuto dei trattamenti terapeutici rientra nel più ampio diritto alla privacy quale diritto che esclude l’intromissione dello stato nelle decisioni del singolo e che, essendo Ann Quinlan incapace, si deve consentire ai genitori di esercitare tale diritto secondo le volontà della stessa.
Nello stesso anno (1976), i principi evidenziati nella sentenza costituiscono la base per la regolamentazione ufficiale del Testamento biologico, il Natural death act, letteralmente “documento sulla morte naturale”, nello Stato della California. Subito dopo si dotano di legislazione in materia altri Stati, fra cui Illinois, Louisiana, Tennessee, Texas e Virginia.
1985:il caso Conroy affronta in modo specifico il problema del soggetto incapace di intendere e di volere, concludendo che ad una persona in completo stato vegetativo può essere applicato il solo criterio soggettivo basato sull’applicazione del generale principio di self-determination.
Nel 1988 altro leading case. Caso Cruzan: donna in stato vegetativo persistente e richiesta dei genitori di sospensione delle terapie. Dal Tribunale (trial court) si arriva alla Corte Suprema del Missouri, e, infine, nel 1990, alla Corte federale degli Usa. Il right to die viene sancito in base al criterio –non più della privacy, ma- della volontà (deeply personal decision) secondo cui il diritto di scelta sopravvive alla perdita di coscienza e della capacità.
Nelle sentenze vengono statuiti altri principi importanti per il successivo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, per cui, a seguito della vasta giurisprudenza statale e federale, oggi è delineabile la seguente situazione: nutrizione e idratazione sono trattamenti sanitari, non mezzi per il mantenimento della vita; il paziente cosciente e capace può rifiutare i trattamenti anche se di sostegno vitale; per quanto riguarda il paziente non più cosciente, va rispettato il suo rifiuto di terapie se espresso e documentato in condizioni di capacità; se il paziente non più cosciente non ha espresso, in condizioni di capacità, una propria volontà sulle cure, la decisione sulle scelte terapeutiche, sarà presa da un “fiduciario” (substituted judgement), di solito un familiare che si mette nei panni del paziente incapace.
Inoltre, nell’affrontare la delicata materia si deve in ogni caso tenere conto di un principio generale: la “migliore soluzione nell’interesse del paziente” (best interest of the patient), per cui si potrà procedere all’interruzione delle cure se le sofferenze derivanti dall’applicazione di trattamenti artificiali non solo superino i possibili benefici a lui derivanti dalla prosecuzione della vita, ma rendano la stessa sostanzialmente dis-umana.
Dopo la sentenza Cruzan, si succedono alcune pronunce in tema di eutanasia (non univoche) e leggi statali che dichiarano apertamente la legittimità del living will.
La svolta si realizza nel 1991, quando a livello federale viene approvato il Patient self determination Act, sulla cui base vengono riconosciuti i diritti della persona di accettare o rifiutare i trattamenti medici e di formulare dichiarazioni anticipate di volontà (living will). L’atto de quo si struttura normalmente in due parti complementari fra loro, l’una relativa ai trattamenti sanitari accettati (cosiddetta direttiva di istruzioni) e l’altra alla nomina del rappresentante (cosiddetta direttiva di delega).
Va ricordato che anche un altro caso famoso, più recente, ha permesso di confermare i princìpi posti a fondamento delle precedenti decisioni giurisprudenziali, in base a cui si è disposta l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale della paziente (Schiavo,2005).

In Canada, a differenza che negli Stati Uniti, non esiste una politica uniformatrice in materia di living will. Le direttive anticipate hanno valore legale solo in alcuni Stati, quali il Manitoba e l’Ontario, mentre, per il resto, ogni Provincia assume le decisioni in materia autonomamente e necessariamente in maniera diversa, in particolare sulle questioni concrete, quali i requisiti del titolare del living will. Dal 1994 è previsto e disciplinato nel codice civile del Quebec il mandato in previsione della propria incapacità (en prévision de l’ineptitude du mandant), contratto da stipulare con atto pubblico in presenza di testimoni e da sottoporre ad omologazione giudiziale.
In Australia, è prevalente, nell’opinione pubblica e in alcuni Partiti politici, un animato dibattito sull’eutanasia piuttosto che sul testamento biologico. Questa materia è oggetto di dibattito parlamentare piuttosto acceso e contrastato (soprattutto dai fautori dell’eutanasia). La necessità di una legge uniforme discende dalla circostanza che fin dal 1995 è stato approvato nello Stato di Vittoria il Living will sul modello Usa, che sancisce il diritto al rifiuto di cure che prolungano la vita al paziente che ha redatto un testamento: al riguardo, istituisce la figura del mandatario di tale testamento con il potere di farlo rispettare in nome e per conto del malato. Analoga legislazione è stata adottata dagli Stati del Nuovo Galles e di Queensland. Al contrario, nello stesso anno, l’Assemblea legislativa degli Stati del Nord (Northen Territory Legislative Assembly), ha approvato il Rights of the terminally ill act, una legge sui diritti del malato terminale entrata in vigore nel luglio del 1996. La legge, in vigenza della quale si sono verificati quattro casi di suicidio assistito o eutanasia attiva, a seguito di durissime polemiche che videro contrapposte le fazioni dei favorevoli e dei contrari all’eutanasia, è stata annullata nel marzo 1997 dal Parlamento australiano.
Il quadro europeo risulta tutt’oggi piuttosto multiforme.
Cronologicamente bisogna salpare dal 1976, anno in cui il Consiglio d’Europa adotta la raccomandazione n.779 sui diritti dei malati e dei morenti –disciplina di princìpi- in cui si affermano i diritti da garantire ai malati (tra cui informazione, dignità e rispetto della volontà). Nella raccomandazione vengono individuati tre casi in cui sussiste il problema della possibilità di rinunciare o meno all’intervento per prolungare le cure: malato preagonico, analgesia invasiva, le dichiarazioni di volontà con le quali persone capaci di intendere e volere rifiutano trattamenti idonei a prolungare la loro vita.
Ventuno anni dopo (1997, Oviedo) viene adottata la Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, sottoscritta anche dall’Italia (ma ratificata solo nel 2001): si prescrivono norme di principio relative alla protezione della persona in tutte le sue condizioni esistenziali di salute e malattia.
Per quello che qui interessa, l’art. 9 (Desideri precedentemente espressi) prevede che la volontà espressa anteriormente da un paziente, che al momento del trattamento non sarà in grado di manifestare il proprio desiderio, dovrà esser presa in considerazione, in nome del principio generale del consenso e a protezione della dignità e identità umana. Qui, se da un lato non si qualificano i “desideri” come vincolanti, dall’altro è evidente che il rispetto va dato non soltanto alle “dichiarazioni di volontà” (men che meno alle sole dichiarazioni solenni come l’atto pubblico) ma ad ogni espressione di preferenze comunque manifestata.
Incidentalmente si suole rammentare che già la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proteggeva il diritto alla vita (art.2) e il diritto all’integrità della persona (art.3) nel titolo dedicato alla Dignità, che è anche il primo, fondamentale diritto della persona (art.1). All’integrità della persona, in ragione della dignità, è consustanziale il principio di autodeterminazione stabilito nel secondo comma dell’art. 2.
In un contesto decisamente più maturo di quello della prima raccomandazione, il Consiglio d’Europa interviene nuovamente (1999) con il testo Protection des droits de l’homme et de la dignitè des malate incurables et des mourants che, richiamati i principi di Oviedo, si sofferma sulla necessità di porre particolare attenzione alle determinazioni del soggetto il quale deve essere protetto nell’osservanza delle sue volontà, nell’intervento terapeutico non desiderato e nel rispetto delle dichiarazioni o istruzioni formali dirette a rifiutare determinati trattamenti: insiste, cioè, nel rispetto della volontà del paziente anche se contrastante con i valori prevalenti nella società in cui vive o con le indicazioni offerte dai medici.

Più analiticamente.
In Inghilterra il living will, originariamente non espressamente riconosciuto dalla legge, è un istituto della cui validità la giurisprudenza non dubita (dal 1993) e di cui ha enucleato i requisiti di operatività: nel momento di manifestazione della volontà un soggetto capace di intendere e volere nonché libero, ovvero non influenzato o costretto, può rifiutare ‘ora per allora’ determinate cure, purché nella piena consapevolezza dell’esatta situazione clinica e psichica in cui si verrà a trovare come pure delle conseguenze esatte del rifiuto del trattamento medico.
All’origine di tale orientamento c’è la vicenda Bland su cui si pronunciò la Divisional court (corte suprema): con la sentenza i giudici decisero che i medici non avevano l’obbligo di somministrare trattamenti divenuti inutili a seguito della valutazione scientifica della condizione di vita del paziente (svp) e che, quindi, non erano rispondenti al suo “migliore interesse”, l’americano best interest of the patient, che deve comunque sempre ricevere l’autorizzazione del giudice. Il caso deciso nel ’93 fu poi preso a modello per ben diciotto successive pronunce in cui “the question is whether it is in the best interest of the patient that his life should be prolonged by the continuance of this form of medical treatment or care”.
Si ricorda un altro caso che suscitò un notevole dibattito nel Regno Unito, quello relativo alla cosiddetta “Miss B”. Tale paziente, pur essendo perfettamente cosciente, ottenne dall’Alta Corte di Londra, nel 2002, il riconoscimento del diritto a rifiutare la terapia e a far staccare la spina del respiratore meccanico che la teneva in vita.
Così fino al 2005, anno in cui il Mental capacity Act istituisce un quadro giuridico per i soggetti incapaci di prendere decisioni in modo autonomo per le dichiarazioni anticipate di volontà (per il caso di sopravvenienza di incapacità). L’Act ha, quindi, definito in via legislativa una serie di prassi correnti e princìpi di diritto comune relativi all’incapacità e alla tutela delle persone in tale stato. In primo luogo, sono stabiliti criteri oggettivi per determinare se una persona sia -temporaneamente o permanentemente- incapace di intendere e di volere, e si esclude che tale incapacità possa essere valutata in base a parametri diversi.
L’Act richiede, affinché la dichiarazione anticipata di volontà abbia valore in relazione alle cure che il personale medico ritenga necessarie per il mantenimento in vita, che essa sia redatta da un maggiorenne in forma scritta e che venga firmata in presenza di testimoni, nonché sottoscritta dalla persona incaricata (in base all’atto medesimo) di rappresentare il soggetto nell’ipotesi di sopravvenienza di incapacità. Nella dichiarazione occorre in ogni caso specificare quali tipi di trattamento s’intendano rifiutare. La dichiarazione è in qualsiasi momento modificabile o revocabile e va rispettata dai sanitari.
Alcuni limiti vengono posti alla possibilità di negare in via anticipata il consenso a cure mediche: non è ammesso rifiutare anticipatamente cure di base o cure per una malattia mentale, mentre si può efficacemente negare il consenso all’alimentazione ed idratazione artificiali.
La normativa disciplina pure le situazioni in cui una persona possa assumere decisioni per conto di un’altra, nel momento in cui quest’ultima si trovi in condizioni di incapacità. Infatti, un soggetto può dare incarico ad una persona (o a più di una) di agire in sua vece e di adottare decisioni, riguardanti anche la salute e le cure mediche, qualora, nel futuro, l’interessato perda la capacità di comprendere. L’Act introduce, inoltre, la figura degli “incaricati dal Tribunale” (Court appointed deputies), che ricevono dal giudice l’autorizzazione di assumere decisioni in materia di salute e trattamenti sanitari per conto di una persona incapace.
L’Act ribadisce che le decisioni in nome di una persona incapace e che non abbia espresso chiare volontà anticipate per il caso in oggetto si devono fondare sul best interest.

In Spagna la Conferenza episcopale (1989) ha proposto un testamento vital per il quale si richiede che le dichiarazioni siano considerate espressione della volontà di chi le ha sottoscritte circa le terapie che si intendono praticare.
Si riconosce che una persona capace di intendere e volere possa manifestare la volontà di non essere mantenuta in vita artificialmente e di non dover essere sottoposto a trattamenti medici sproporzionati, con riferimento ai possibili benefici di cui potrebbe giovarsi, nell’eventualità di una futura impossibilità di rinnovare il proprio desiderio. Attualmente, le dichiarazioni anticipate di volontà sono regolate all’interno di una complessa normativa, la Legge sui diritti dei pazienti (n.41), approvata dal Parlamento nel novembre 2002, entrata in vigore il successivo maggio 2003, che ha profondamente modificato la precedente disciplina del rapporto medico-paziente.
La nuova normativa concerne: il diritto all’informazione sanitaria ed alla privacy in ambito medico, il consenso informato, le istruzioni preventive (dichiarazioni anticipate di volontà), la storia clinica del paziente (con riferimento alla prestazione di servizi medici).
Ruotando essenzialmente attorno a due assi -l’autonomia del paziente (artt. 8-13) e l’obbligo di documentazione clinica-, si intende dare al paziente maggiorenne la facoltà di manifestare anticipatamente, per iscritto (e per iscritto revocare), la propria volontà in merito a cure e terapie cui essere sottoposto, nel caso dovesse perdere la capacità di esprimersi personalmente. Per un’ulteriore garanzia, egli può, inoltre, designare un rappresentante che funga da interlocutore con il medico o l’équipe sanitaria. In ogni caso, in base a tale normativa, si può anche non tenere conto delle istruzioni, qualora emergessero presupposti di fatto, “non corrispondenti a quelli previsti dall’interessato al momento della formulazione delle stesse”.
Il legislatore ha approfittato di tale provvedimento per definire anche una disciplina quadro di riferimento per le Comunità autonome che erano intervenute in materia.
Proprio l’art. 11 delle legge de qua statuisce in merito alle istruzioni preventive, introducendo, in tal modo, a livello statale un istituto giuridico già previsto da alcune leggi delle Comunità Autonome: con il documento di istruzioni preventive (dva), ai sensi del comma 1, una persona maggiorenne, capace e libera, manifesta anticipatamente la propria volontà, affinché questa si compia qualora egli si troverà in situazioni in cui non sia in grado di esprimersi personalmente in merito a: cure e terapie cui essere sottoposto; il destino del proprio corpo e dei propri organi, in caso di morte. La volontà deve essere resa pubblicamente di fronte ad un notaio o tre testimoni o attraverso l’ausilio del personale della comunità autonoma di appartenenza.
Il soggetto interessato può designare un rappresentante, che, in caso di necessità, funga da interlocutore con il medico o l’équipe sanitaria, per portare a compimento le istruzioni preventive.
Anche questo provvedimento vieta l’attuazione di istruzioni preventive contrarie all’ordinamento giuridico ed alla lex artis (cioè, ai precetti propri della branca medica interessata) ed esclude l’efficacia delle istruzioni nel caso in cui si verifichino presupposti di fatto non corrispondenti a quelli previsti dall’interessato al momento della formulazione delle medesime. Interessante ed utile -agli occhi di chi scrive- l’istituzione, presso il Ministero della salute, del Registro nazionale delle istruzioni preventive (simile alla banca dati danese), che raccoglie le dichiarazioni anticipate di volontà e le loro eventuali modifiche, accessibile alle persone che hanno sottoscritto le istruzioni preventive, ai loro rappresentanti, ai responsabili accreditati dai registri delle Comunità Autonome, alle persone designate dal Ministero della salute o dalle autorità sanitarie delle Comunità Autonome.

L’Olanda ha -primo fra tutti gli altri paesi- approvato una legge (12.04.2001) che, pur non eliminando i reati di eutanasia e di suicidio assistito, pone delle condizioni in presenza delle quali i medici che aiuteranno i pazienti a ricorrere alla ”dolce morte” saranno scriminati. La legge riconosce in modo esplicito la validità di una dichiarazione scritta dal paziente in cui si esprime l’intenzione di ricorrere all’eutanasia. E’ necessario che il medico informi il paziente sulla situazione attuale e futura e sulla non esistenza di una soluzione alternativa alla morte. La scelta del paziente deve essere volontaria, ben meditata, a fronte della previsione di sofferenze insopportabili. Inoltre, il medico è tenuto a consultarsi con un collega indipendente che dovrà verificare il rispetto delle condizioni previste dalla legge e dare per iscritto il suo consenso (art.2).
Il medesimo articolo della legge in esame (nel secondo paragrafo) consente l’applicazione dei suddetti criteri anche nel caso in cui il paziente non sia più in grado di manifestare la propria volontà, ma abbia rilasciato -in stato di capacità “di valutare ragionevolmente i propri interessi al riguardo” e comunque dopo il compimento dei 16 anni- una dichiarazione anticipata scritta, contenente una richiesta di interruzione della vita.
Per quanto riguarda i minori fra i 12 e i 16 anni è necessaria l’approvazione del genitore o del tutore; per quanto riguarda i minori tra i 16 ed i 18 anni, invece, i genitori devono essere solo consultati.
E’ prevista altresì (artt.3-17) l’esistenza di commissioni di verifica alle quali spetta verificare il rispetto di tutte le condizioni previste dalla legge e in caso negativo a presentare denuncia alla procura generale e all’ispettore regionale per la salute.

Molto chiara la situazione anche in Danimarca ove vige una legge in materia di testamento biologico. Con legge si è istituita una Banca dati elettronica che custodisce le direttive anticipate presentate dai cittadini. In caso di malattia incurabile o di grave incidente, i danesi che hanno depositato il “testamento medico” (che ogni sanitario è tenuto a rispettare), possono chiedere l’interruzione delle cure e dei trattamenti, e di non essere tenuti in vita artificialmente. Nel caso di sopravvenuta incapacità, il diritto del malato può essere esercitato dai familiari.
In Francia, la legge 370/2005 (22.04.2005) sui diritti del malato e la fine della vita novella il code de la santè publique, in seguito ad un dibattito parlamentare sfociato nell’istituzione presso l’Assemblea nazionale di una commissione ad hoc sull’ “accompagnamento alla fine della vita”. In attuazione di tali 15 articoli (e del decreto n. 2006-120 del 6.02.2006 che emenda l’art. R.4127-37) possono essere sospesi o non iniziati gli atti di prevenzione, indagine o cura che appaiano inutili, sproporzionati o non aventi altro effetto che il mantenimento in vita artificiale del paziente (art. L.1110-5). Nel caso di impossibilità del paziente di esprimere la propria volontà, la decisione in merito deve essere presa dal medico curante, d’intesa con l’eventuale équipe sanitaria e dopo aver ottenuto il parere di almeno un medico, in qualità di consulente; se il medico constata che un trattamento antidolorifico allevia le sofferenze di un malato in fase avanzata o terminale di una malattia grave e incurabile, vi può ricorrere (art. L.1111), anche se quel trattamento potrebbe accorciare la vita, a condizione che ne siano informati il malato, oppure il suo fiduciario e la famiglia o un parente. Circa la materia che qui preme più da vicino, ogni persona maggiorenne, può formulare direttive anticipate (directives anticipées, art. L.1111-11) da utilizzare in caso di intervenuta incapacità, che indichino i suoi orientamenti riguardo alle limitazioni o cessazioni di trattamenti medici; si prescrive (art. R.1111-17) la forma del documento scritto, datato e firmato dall’autore. Tali dichiarazioni sono revocabili o modificabili parzialmente o totalmente con le modalità suddette o in ogni momento senza formalità (art. R.1111-18), rilevanti solo quando siano state redatte a distanza di meno di tre anni dalla perdita di coscienza del soggetto stesso. Le direttive sono conservate (art. R.1111-19) nella scheda del medico curante o di un altro medico scelto dal paziente o nella cartella clinica ospedaliera; in alternativa, qualora il soggetto preferisca conservarle presso di sé, tali documenti possono limitarsi a far riferimento all’esistenza di direttive anticipate. Ogni persona maggiorenne può indicare inoltre un fiduciario da consultare nel caso di sopravvenuto stato di incapacità (art. L.1111-12); in presenza di misure di tutela, però, la nomina, fatta per iscritto e sempre revocabile, non vale se non confermata dal giudice tutelare.

Nell’ordinamento tedesco, il testamento biologico non e’ stato ancora oggetto di una disciplina normativa specifica, sebbene trovi impiego nella pratica e conferma nella giurisprudenza.
Si ricordi che nel 1992 è entrata in vigore la legge che ha totalmente riformato il sistema normativo relativo all’incapacità dei maggiorenni, inserendo il Betreuung (la cui attività si sostanzia in una riserva di consenso per l’atto compiuto dall’assistito) che può essere sostituito da un atto auto determinativo (Aeterrvorsorgevollmecht-autorizzazione per la previdenza per la vecchiaia) con cui si rilascia ad una persona di fiducia una procura efficace in caso di necessità, proprio allo scopo di escludere il betreuung, sottoposta alla condizione sospensiva dell’incapacità d’agire derivante dalla vecchiaia. Con la sentenza del 17 marzo 2003, la Corte suprema federale e’ intervenuta in merito, dichiarando la legittimità e il carattere vincolante della Patientenverfugung, cioè l’atto di disposizione del paziente, quale specifica forma di dichiarazione di volontà, la cui natura vincolante è ricondotta al diritto di autodeterminazione dell’individuo, in quanto il principio della tutela della dignità umana (cfr. art. 1 Grundgesetz, Legge fondamentale). E’ necessario che l’atto, dopo un preambolo, contempli nella parte dispositiva esattamente la fattispecie oggetto della decisione. La forma scritta non costituisce un requisito necessario, anche se di indubbia rilevanza pratica a fini probatori. Le figure del Betreuungsverfugung (nomina di un curatore) e del Vorsorgevollmacht (mandato preventivo a gestire i propri beni) possono essere impiegate quali modalità di gestione di questioni attinenti a trattamenti medici per il caso di futura incapacità di un soggetto. Se le volontà in merito di quest’ultimo sono esplicitate nell’atto di nomina del curatore o del mandatario, tali soggetti non possono discostarsi dalla volontà espressa, come ha affermato (incidentalmente) la Corte suprema federale nella citata sentenza. La materia del testamento biologico è stato oggetto del 66^ Deutsche Juristentag (consesso di giuristi che si riunisce ogni due anni dal 1860) che ha concluso i propri lavori il 20.06.2006, pronunciandosi in favore di una chiara disciplina in merito: la Patientenverfügung andrebbe redatta in forma scritta o documentata mediante video, e dovrebbe essere priva di vizi del consenso (errore, violenza, dolo). In caso di assenza di un testamento biologico scritto e di incapacità del paziente, occorrerebbe determinarne la volontà presunta mediante decisione del giudice tutelare.
In Belgio, con la legge del 2002 sui diritti del malato, le “direttive anticipate” riferibili al Testamento biologico si sono intrecciate con quelle destinate ai malati terminali, prendendo il nome di “dichiarazioni anticipate di eutanasia”. La confusione in materia, che forse inficia pure il dibattito nel nostro paese, è sorta proprio a causa delle violente polemiche degli ultimi anni.

RIFLESSIONI
Su un tema come questo, nessuna affermazione può arrogarsi il diritto di qualificarsi risolutiva, definitiva, corretta. Esso è spinoso e coinvolgendo la coscienza di ciascuno può far sbocciare solo riflessioni.
Non esistono conclusioni, fortunatamente, perché, se è vero -come pare- ciò che scriveva Eschilo, ovvero che la morte è un destino migliore della tirannia, proprio per questo nessuna impostazione culturale -tanto meno normativa- può imporsi, può ‘tiranneggiare’ (può ‘negoziare’) sulla coscienza o sulla vita degli uomini che restano tali fintanto siano libere e degne.
“Il diritto alla vita”, sempre sulla bocca dei critici e dei fautori del testamento biologico, “è anche diritto di scelta”, rammenta d’Avack (Testamento biologico, p.74, Fond. Veronesi,2005).
Basti rievocare quali siano le nobili origini della valorizzazione del consenso ai trattamenti terapeutici, che trova le sue radici nei processi di Norimberga nei quali i soggetti imputati erano, tra l’altro, accusati di aver compiuto esperimenti e trattamenti medici senza il consenso delle persone a questi sottoposte, con violazione della libertà individuale e con lesione della dignità umana.
Le norme, di cui si è riferito in questa sede -volutamente senza alcuna digressione opinabile o valutazione in merito-, così come gli orientamenti giurisprudenziali dovrebbero avere in questa materia (più che in altre) la funzione precipua (ed il coraggio) di affidare nelle mani dell’individuo la libertà di decidere, garantendo ad ognuno la facoltà di decretare della propria esistenza (esistenza che spesso non concede molte occasioni o possibilità di scelta) in nome dei principi di consenso informato ed autodeterminazione. E’ casuale che lo stesso Giuramento di Ippocrate nella sua versione ‘moderna’ imponga di astenersi da ogni accanimento diagnostico e terapeutico, dopo aver fatto giurare di non usare le proprie conoscenze contro i principi etici della solidarietà umana?
Efficaci le considerazioni della opinion del giudice Brennan a commento del caso Cruzan: l’unico interesse statuale inerente al tema trattato è quello relativo alla preservation of life, ma esso non può essere giudicato superiore ai diritti della singola persona fisica,malata e non.
Certo, la persona umana non può “contrattare” il diritto alla vita, come si trattasse di altro diritto avente natura patrimoniale. In questo senso la vita è sicuramente diritto indisponibile anche per l’interessato. Ma la persona umana conserva la libertà di autodeterminazione (che fa da pendant al principio di responsabilità teorizzato da Hans Jonas) in relazione alle scelte fondamentali che riguardano la propria esistenza (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, dove l’intervento sociale si colloca in funzione della persona e della sua sfera autodeterminativa e non viceversa. Così Cass. 21748/2007).
Nell’ordinanza emessa a seguito del ricorso in via di urgenza presentato dagli avvocati di Piergiorgio Welby (ordinanza 15-16.12.2006), il Tribunale di Roma, dopo aver considerato il principio del consenso informato “una grande conquista civile delle società culturalmente evolute”, ha specificato che “esso permette alla persona, in un’epoca in cui le continue conquiste e novità scientifiche nel campo della medicina consentono di prolungare artificialmente la vita, lasciando completamente nelle mani dei medici la decisione di come e quando effettuare artificialmente tale prolungamento, con sempre nuove tecnologie, di decidere autonomamente e consapevolmente se effettuare o meno un determinato trattamento sanitario e di riappropriarsi della decisione sul se ed a quali cure sottoporsi”.
Non vale eccepire che gli eventuali rifiuti ovvero le espressioni di volontà interruttiva di terapie che conducano, in ipotesi, alla morte configurerebbero fenomeni eutanasici, né eccepire la loro mancanza di attualità.
Rimettere tutto il dibattito nelle mani dei legislatori, della medicina o della politica andrebbe a spogliare di significato il valore della dignità della persona di cui gli stessi legislatori, medici e politici fanno il proprio fiore all’occhiello. Conquistare la opportunità di valutare ‘come’ morire, per decidere senza alcuna ipocrisia e senza alcuna angoscia poiché “la maggiore dignità che incontriamo nella morte è quella della vita che la ha preceduta” (Sherwin Nuland, storico della medicina della Università di Yale), dovrebbe essere diritto pacificamente riconosciuto ovunque perché improntato alla sovrana esigenza di rispetto dell’individuo e dell’intimo nucleo della sua personalità (cfr. Cass.21748/2007); dato che già la vita stessa impone costantemente di destreggiarsi tra le infinite alternative prospettate, almeno la autonomia di quel pensiero dovrebbe poter essere garantita senza preoccuparsene (cfr. Il testamento per morire in pace, Cendon).
Questo diritto pare necessitare di doverosa tutela anche in Italia, perché, nonostante “l’art. 32 della Costituzione non garantisce il diritto a morire ma il diritto che il naturale evento della morte si attui con modalità coerenti all’autocoscienza della dignità personale quale costruita dall’individuo nel corso della vita attraverso le sue ricerche razionali e le sue esperienze emozionali” (così, Trib. Modena, Decr. 13.05.’08 e 05.11.’08 -illuminanti in merito e pienamente condivisi da chi scrive- che confermano l’orientamento espresso da Trib.Roma Ord.16.12.2006), tuttavia il dibattito culturale e politico –spesso polemici- e le decisioni dei giudici continuano a restare in balìa di se stessi.
Resta che il conflitto tra due beni -entrambi di fregio costituzionale- della salute e della libertà di coscienza non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo (in questo senso, pure Cass.23676/2008). Si tratta di una sfera personale in cui il soggetto titolare dei propri diritti incide, nel momento in cui è capace di farlo, senza produrre violazioni o restrizioni di diritti altrui.
Ricordo il monito del Prof. Rodotà che, in un articolo della Repubblica, ha invitato a non sacrificare all’emotività del tema la riflessione normativa. La materia offre l’occasione per una leale meditazione, senza indurre alla ossessione di legiferare -ammesso che si necessiti di ulteriori norme- e senza forzature istituzionali.
In gioco non è tanto la vita, quanto la libertà che la identifica.

Dott.sa Anna Cafagna
Università di Macerata


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Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.

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