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La Corte di Cassazione ha bacchettato la Corte d’appello dell’Aquila, rea di avere mal interpretato la natura del giudizio di appello civile. In buona sostanza, la Corte territoriale aveva dichiarato l’inammissibilità di un appello solo perchè l’appellante aveva reiterato le argomentazioni già utilizzate in primo grado circa l’inattendibilità dei testimoni e della ctu.
Vale la pena leggerla per intero:
Col proprio appello B.C. e B.Z. impugnarono la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva: (a) ritenuto che B.C. fosse il conducente del ciclomotore; (b) ritenuto che B.C. fosse il solo responsabile del sinistro.
Avevano motivato tali censure sostenendo che il primo giudice avesse malamente valutato le prove (scientifiche, storiche e critiche) raccolte nel corso dell’istruttoria.
Avevano, in particolare, sostenuto che:
(-) la perizia disposta dall’autorità Inquirente nel corso delle indagini preliminari scaturite dal sinistro evidenziava una condotta colposa di D.G.L., ovvero il conducente dell’autoveicolo Fiat 600 (così l’atto d’appello, p. 12);
(-) la circostanza che fosse D.G.M. il conducente del ciclomotore si sarebbe dovuta desumere da vari indizi, tra cui le lesioni riportate dal suddetto D.G.M. (ibidem, p. 14-15);
(-) la consulenza tecnica d’ufficio svolta in primo grado era carente sul piano del metodo e dei contenuti, dal momento che il consulente non aveva ispezionato i veicoli coinvolti, aveva ispezionato i luoghi sette anni dopo il fatto, ed aveva riempito la propria relazione principalmente trascrivendo gli atti di causa (ibidem, p. 16-18).
1.4. A fronte d’una impugnazione così strutturata, la Corte d’appello ha ritenuto che essa “non fosse conforme” ai precetti contenuti nell’art. 342 c.p.c., in quanto contenente una “mera riproposizione delle argomentazioni già svolte dinanzi al Tribunale”.
Questa affermazione non è condivisibile. Nessuna norma né alcun principio dell’ordinamento, infatti, vieta all’appellante di riproporre in grado di appello non solo le domande, ma anche le argomentazioni difensive che non fossero state condivise dal giudice di primo grado. Ciò per tre ragioni.
1.4.1. La prima ragione è di tipo logico: se l’attore invoca l’esistenza del fatto “A” fondato sulla prova “B”, e il giudice di primo grado rigetti la domanda negando l’attendibilità della prova “B”, il soccombente che intenda dolersi di tale statuizione non può che riproporre al giudice d’appello quanto già dedotto in primo grado: ovvero l’attendibilità della prova “B”.
Sostenere il contrario significherebbe pretendere dall’appellante di introdurre sempre e comunque in appello un quid novi rispetto agli argomenti spesi in primo grado, il che – a tacer d’altro – non sarebbe coerente col divieto di uova prescritto dall’art. 345 c.p.c..
1.4.2. La seconda ragione è di tipo sistematico.
La Corte d’appello, con la propria decisione, parrebbe avere ritenuto che il giudizio d’appello abbia ad oggetto non il rapporto dedotto in giudizio, ma la sentenza di primo grado, che per tale ragione dovrebbe dunque impugnarsi con argomentazioni nuove ed ad hoc, senza potersi limitare a riproporre gli argomenti già spesi in primo grado.
L’opinione cui la Corte d’appello mostra di avere aderito viene talora suffragata da certa dottrina o certa pratica, secondo cui tale conclusione sarebbe imposta dal fatto che il giudizio d’appello, per effetto delle riforme avvenute nel 1995 (L. 27 novembre 1990, n. 353, art. 50) e nel 2012 (D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. 0a, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134), non costituirebbe più un novum ma una revisio prioris instantiae.
Così, tuttavia, non è.
Iniziamo col ricordare che il ricorso a formule come “novum iudicium”o “revisio prioris instantiae” per risolvere problemi concreti in tanto ha senso, in quanto di tali formule si sia preventivamente stabilito in modo inequivoco il significato, altrimenti “il richiamo a termini il cui significato resta oscuro serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l’ambiguità concettuale nonchè la pigrizia esegetica, inducendo a cedere alla tentazione sbrigativa e autoritaria della formuletta” (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).
Ebbene, è certamente vero che il giudizio d’appello è oggi una revisio prioris instantiae: ma lo è non dal 2012, e tanto meno dal 1995. Il giudizio d’appello, sin da quando entrò in vigore il vigente codice di procedura civile, è sempre stato una revisio prioris instantiae.
Tale sua caratteristica era resa evidente – tra l’altro – sia dall’obbligo di specificità dei motivi d’appello (art. 342 c.p.c., nel testo originario), sia dal principio di acquiescenza alle parti della sentenza non appellate (art. 329 c.p.c.).
La concezione del giudizio d’appello quale revisio prioris instantiae fu espressamente voluta dal legislatore del 1940: nel sistema del codice del 1865, infatti, l’appello devolveva al giudice di secondo grado la cognizione piena della causa, a prescindere dai mezzi di impugnazione, sicchè il giudizio d’appello finiva per “ridurre quello di primo grado ad un semplice saggio preliminare”, riservando la trattazione dei “problemi più salienti e le prore più importanti” alla fase d’appello (così la Relazione del Guardasigilli al sul progetto definitivo al codice di procedura, 244).
Le riforme del 1990-1995-2012 hanno accentuato tale aspetto, ma non lo hanno affatto introdotto.
E’, pertanto erroneo affermare che il giudizio d’appello abbia oggi una natura od un oggetto diverso da quello clic aveva nel 1940. Revisio prioris instantiae il giudizio d’appello è oggi, e revisio prioris instantiae era allora (come affermato già, tra le tante, da Sez. 3, Sentenza n. 2229 del 13/08/1966).
Stabilito dunque che l’oggetto del giudizio d’appello non è affatto mutato per effetto delle riforme degli ultimi anni, deve ora rilevarsi come l’attribuzione al giudizio d’appello – della natura di revisio prioris instantiae non vuol affatto dire che esso costituisca un giudizio sulla sentenza di primo grado, e non sul rapporto.
L’appello resta un giudizio di merito pieno sul rapporto dedotto in giudizio, sia pure nei limiti dei motivi proposti dall’appellante.
La Corte d’appello, entro tali limiti, è chiamata a stabilire se la pretesa dell’attore sia fondata, non se il Tribunale abbia correttamente applicato la legge. Anzi, proprio la modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, e l’abrogazione della sindacabilità in sede di legittimità del vizio di motivazione, ha accentuato la delicatezza del compito affidato al giudice di secondo grado, i cui accertamenti di fatto ben difficilmente potranno essere ulteriormente censurati.
Tali principi sono stati ripetutamente affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte, sebbene – a quanto consta – con sentenze talora fraintese nella pratica.
1.4.2.1. Infatti sia Sez. U, Sentenza n. 3033 del 08/02/2013, sia Sez. U, Sentenza n. 28498 del 23/12/2005, là dove hanno affermato che l’appello ha natura di repisio prioris instantiae, non hanno affatto inteso sostenere che esso fosse un giudizio a critica vincolata, ma compirono quell’affermazione al limitato fine di stabilire come si ripartisse l’onere della prova in appello, e comunque ribadendo che la natura di revisio prioris instantiae del giudizio d’appello impedisce all’appellante di impugnare la sentenza di primo grado limitandosi ad una denuncia generica dell’ingiustizia della sentenza, ma non trasforma il sindacato sul rapporto in un sindacato sull’atto impugnato.
1.4.3. La terza ragione è di tipo letterale.
L’art. 342 c.p.c., nel testo novellato dal D.L. n. 83 del 2012, cit., non ha affatto comportato alcun mutamento nella natura del giudizio d’appello, come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 27199 del 16/11/2017), le quali hanno espressamente affermato che “ove le argomentazioni della sentenza impugnata dimostrino che le tesi della parte non sono state in getti vagliate, l’atto di appello potrà anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado”.
1.5. Da questi principi discende che l’appellante, vistosi affermare dal primo giudice l’esistenza d’un fatto che egli assume inesistente, o l’inesistenza d’un fatto che egli proclama esistente, quanto intenda lamentare una disattenta ponderazione delle prove da parte del primo giudice, ben può limitarsi a sottoporre al giudice di merito le stesse prove e gli stessi argomenti infruttuosamente impiegati per convincere il primo giudice.
In simili evenienze, infatti, il giudice d’appello è chiamato a valutare ex novo le prove e soppesare ex novo gli argomenti non considerati nel precedente grado, e non a stabilire se il giudice di primo grado abbia correttamente motivato la propria valutazione di quelle prove.
1.6. Resta da aggiungere che la Corte d’appello, dopo avere negato (p. 7) l’ammissibilità dell’appello sul presupposto che esso non fosse conforme ai precetti dell’art. 342 c.p.c., ha comunque dedicato ampio spazio ad esaminare e confutare alcuni degli argomenti spesi dagli appellanti (pp. 7-9).
Questa parte della motivazione, tuttavia, non vale a sanare l’errore di procedura già rilevato.
Infatti il giudice, pronunciando una statuizione di inammissibilità, si spoglia per ciò solo della potestas iudicandi in relazione al merito della controversia: con la conseguenza che se inserisca nella sentenza anche argomentazioni sul merito, queste debbono ritenersi tamquam non essent, nè la parte soccombente ha l’onere di impugnarle (Sez. U, Sentenza n. 3840 del 20/02/2007).
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