Non è raro che due parti addebitino l’una all’altra l’inadempimento e chiedano entrambe la risoluzione del contratto per fatto e colpa dell’altra parte.
In questi casi, secondo la S.C. non è possibile giungere ad una pronuncia di risoluzione per fatto e colpa di ambo le parti, in quanto “nei contratti con prestazioni corrispettive non è consentito al giudice del merito di pronunciare la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1453 cod. civ. o di ritenere la legittimità del rifiuto di adempiere a norma dell’art. 1460 c.c., in favore di entrambe le parti, perchè la valutazione della colpa nell’inadempimento ha carattere unitario e l’inadempimento deve essere addebitato esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento colpevole prevalente, abbia alterato il nesso di reciprocità che lega le obbligazioni assunte con il contratto, dando causa al giustificato inadempimento dell’altra parte” (sent. 27/02).
Dunque occorre accertare chi con il suo comportamento ha alterato maggiormente il nesso di reciprocità.
Non si tratta di una indagine soggettiva, ma oggettiva, nel senso che la parte potrebbe addirittura non conoscere l’inadempimento dell’altra parte nel momento in cui, a sua volta, risulti inadempiente. Si pensi al caso in cui il promissario acquirente ritardi la propria prestazione di pagamento del bene e poi scopra che il contratto sia nullo stante la falsa dichiarazione urbanistica contenuta nell’atto di provenienza. In tali casi il comportamento inadempiente del promissario compratore assume carattere di irrilevanza a fronte dalla impossibilità congenita del promittente venditore di dar corso all’obbligazione principale per nullità del suo atto di acquisto. E proprio in una considerazione unitaria dei comportamenti contrapposti si coglie la preponderanza causale di una condotta sull’altra, tale da rendere irrilevante la ricerca della conoscenza dell’inadempimento da parte del promissario acquirente.
L’alterazione dei rapporti che scaturisce dalla condizione di nullità dell’atto di provenienza in capo alla promittente venditrice è tale da far imputare alla stessa la lesione del programma negoziale di interessi, in modo così incisivo e assorbente, da rendere privo di rilievo il ritardo dell’altra parte. In ipotesi siffatte non si prospetta neppure una comparazione – nel senso di confronto tra diversi gradi di gravità della condotta – ma si registra una violazione così prevalente – per l’irrealizzabilità stessa del negozio – da far perdere ogni rilevanza alla condotta ritardataria o inadempiente dell’altra parte. In tal senso quindi risulta giustificato l’inadempimento dell’altra parte, ancorchè l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. sia sollevata solo dopo l’avvio del giudizio.
In conclusione:
il giudice, in caso di addebito reciproco, deve valutare il comportamento maggiormente colpevole, ovvero quello che altera maggiormente il sinallagma contrattuale.

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caro Mirco ti chiedo se hai riferimenti giurisprudenziali in merito alla incompatibilità funzionale di un domanda di declaratoria di nullità di una scrittura privata per firma apocrifa e contestuale domanda di risoluzione del contratto per inadempimento.
@Avv. Pugliese: la questione che poni è molto interessante. Mi fa ricordare un esempio della dottrina tedesca in tema di allegazione di fatti incompatibili. Chiesta la restituzione di una padella, il convenuto si costituisce dicendo: primo, non me l’hai mai data; secondo te l’ho restituita; terzo è perita. In questo caso si dice: il contratto non è stato sottoscritto da me e comunque tu non l’hai rispettato. Anche se la scrittura non è elemento di validità del contratto, direi che la domanda di risoluzione è incompatibile. Se la forma scritta è richiesta ai fini della prova, la richiesta di risoluzione rappresenta una domanda incompatibile con la volontà di negarne l’esistenza. Se il contratto non richiede la forma scritta, nè ai fini della sostanza, nè ai fini della prova, la contestazione dell’autenticità della firma mira semplicemente a caducare le clausole contrattuali sottoscritte con l’effetto che la domanda di risoluzione va formulata in aggiunta e non in via subordinata. Così, su due piedi.
Caro Mirco la vicenda nasce da una produzione in giudizio di una scrittura privata prodotta dal ricorrente in ricorso e contestualmente non riconosciuta la firma del suo dante causa (coniuge deceduto) perché secondo il ricorrente apocrifa. Quindi chiede in via principale la risoluzione del contratto per inadempimento – per stravolgimento della colture dl fondo in affitto- e in subordine chiede la declaratorio di nullità della scrittura privata Il giudice di prime cure rigetta la domanda principale perché il ricorrente non ha provato l’inadempimento e rigetta altresì la domanda subordinata di declaratorio di nullità del rapporto contrattuale (scrittura privata) perché incompatibile con la domanda principale e perché essendo essendo stato il documento prodotto in giudizio dal ricorrente lo stesso è da ritenersi riconosciuto.
Avverso tale sentenza è stato prodotto appello ed è stato sostenuto che nessuna importanza è da attribuire alla gradazione delle domande (principale e subordinata) in quanto tale facoltà è nel diritto della parte richiedente.
In merito alla declaratoria di nullità della scrittura prodotta (si sottolinea da parte del ricorrente) parte appellante sostiene che essendo stata la scrittura prodotta non riconosciuta per apocrifia della firma, era compito del resistente chiederne la verificazione. Lo scrivente ha motivo di ritenere che il ricorrente essendo la parte processuale che ha prodotto il documento, lo stesso è da considerarsi valido ed efficace e conseguentemente nessuna istanza di verificazione incombeva alla parte resistente. Gradirei sapere il tuo parere in merito ed eventuali riferimenti giurisprudenziali. Approfitto della tua gentilezza e disponibilità e Ti chiedo sollecito riscontro dovendomi costituire in giudizio a breve. Cordiali Saluti Avv. Gennaro PUGLIESE