Le prove atipiche e in particolare gli scritti provenienti da terzi

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Lexform pubblica una sentenza, per la verità non recente, ma che vale la pena di scaricare e mettere da parte. E’ scritta da quello che io ritengo uno dei migliori magistrati italiani, Mario Costanzo Cea, consigliere della Corte d’Appello di Bari, autore, peraltro, di numerosi ed interessantissimi articoli.

La sentenza affronta il tema delle prove atipiche e in particolare gli scritti provenienti da terzi. La Corte d’Appello giunge a queste conclusioni:

  • l’ammissibilità del ricorso alle prove atipiche, oltre a non essere ostacolata da espliciti divieti, appare imposta da norme di rango costituzionale, quali quella che garantisce il diritto di difesa (e, quindi, il diritto alla prova) e quella che assicura le garanzie del giusto processo (tra le quali, anche la garanzia di una decisione giusta, in quanto fondata su l’accertamento veritiero dei fatti);
  • il problema dell’autenticità, se non è risolvibile con il ricorso agli art. 214 e 216 c.p.c., non può neppure risolversi costringendo la parte, contro cui il documento è prodotto, ad esperire la querela di falso, ove ne metta in discussione l’autenticità;
  • una volta che sia stato prodotto in giudizio un documento proveniente da un terzo, la mancanza di contestazione circa l’autenticità dello stesso diventa criterio indispensabile per l’utilizzabilità dello stesso alla stregua di un altro documento di cui non si dubiti dell’autenticità (fermo restando che comunque tale mancanza di contestazione all’uso del documento non vincola il giudice, il quale, in presenza di elementi probatori che ne autorizzino un tale giudizio, può ritenere non autentico il documento); laddove la contestazione circa l’autenticità (sia pure in forma dubitativa) comporta che il documento in tanto possa essere utilizzato probatoriamente in quanto colui che lo produce abbia fornito la prova della sua autenticità;
  • alle prove atipiche (in particolare, agli scritti provenienti dai terzi) va attribuito il valore di indizio: purché sia chiaro che la prova atipica può fondare di per sé la decisione tutte le volte che sia in grado di dar vita ad un’inferenza presuntiva che abbia i requisiti previsti dall’art. 2729 c.c.;
  • qualora lo scritto proveniente da terzi consista in una dichiarazione testimoniale, l’altra parte avrà l’onere di contestare tempestivamente la violazione del principio del contraddittorio.

CORTE D’APPELLO DI BARI; sentenza, 15-04-2005; Pres. Belsito, Est. Cea; Soc. Percoco

L’appellante a tal proposito denuncia che la pronuncia sarebbe fondata su documenti (scritture provenienti da terzi estranei al processo) privi di qualsivoglia valenza probatoria, definiti, nella comparsa di replica in primo grado, “carta straccia” e, nell’atto di appello, utili “a far volume, ma giammai ad assurgere al valore di prova”.

La specifica contestazione del valore probatorio della documentazione utilizzata dal primo giudice pone all’attenzione di questa corte il delicato tema delle c.d. “prove atipiche”, posto che i documenti in questione provengono da terzi di cui non è stata chiesta la testimonianza in giudizio.

Innanzitutto, si pone il problema generale dell’ammissibilità nel processo civile delle c.d. prove atipiche. Problema che, per il vero, proprio con riferimento agli scritti provenienti da terzi, la giurisprudenza della S.C. dà per scontato (nel senso della loro incondizionata ammissibilità), preferendo soffermarsi esclusivamente su quello della loro efficacia probatoria e, talvolta, su quello della loro autenticità (tra le tante, tra le ultime, v. Cass. 14122/2004, 11652/2002, 2149/2002, 11105/2001, 8063/2001, 10041/2000, 4503/2000, 852/1999).

Il problema si pone perché nel vigente codice di rito manca una norma espressa quale quella prevista dall’art. 189 c.p.p. del 1988, secondo cui il giudice può assumere prove non disciplinate dalla legge tutte le volte che esse si rivelino idonee ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudichino la libertà morale della persona.

Ciò nondimeno, la mancanza di una esplicita previsione quale quella prevista dal codice di rito penale non può assurgere al rango di elemento decisivo per escludere dal processo civile le prove atipiche, dal momento che, rivoltando l’argomento, si può constatare che nel processo civile non esistono norme che escludano il ricorso alle prove atipiche.

Sicché, se si considera che il diritto alla prova (in quanto momento essenziale del diritto di difesa) è dotato di sicura garanzia costituzionale (art. 24 Cost.), la mancanza di divieti espliciti diventa elemento indiziario a favore dell’ammissibilità delle prove atipiche: e ciò perché in tal modo si darebbe pienezza al diritto alla prova consacrato dalla nostra carta costituzionale.

Peraltro, proprio l’art. 189 c.p.p. fornisce spunti preziosi per un’indagine tesa a dimostrare l’ammissibilità delle prove atipiche anche nel processo civile. Infatti, il presupposto indefettibile dell’ammissibilità delle prove atipiche nel processo penale è la loro idoneità ad assicurare l’accertamento dei fatti; sicché, ove si dovesse dimostrare che anche il processo civile ha come obiettivo, sia pure tendenziale, la ricerca della verità materiale, sarebbe inevitabile concludere per l’ammissibilità delle prove atipiche, in quanto strumento idoneo al raggiungimento di tale fine.

A tal riguardo si consideri che la nostra carta costituzionale riconosce la garanzia del giusto processo (art. 111, 1 comma, Cost).
Come da più parti notato, la previsione dettata dal primo comma dell’art. 111 Cost. si atteggia come clausola aperta, che non si risolve soltanto nelle garanzie previste dal secondo comma (tutela del contraddittorio, parità delle parti, terzietà del giudice, ragionevole durata del processo.).
Se così non fosse, il 1 comma dell’art. 111 Cost. sarebbe del tutto inutile, essendo sufficiente la previsione di cui al secondo comma per l’individuazione della nozione di giusto processo. Il che vuol dire che giusto processo è sicuramente quello in cui è tutelato il contraddittorio, la parità delle parti nonché quello in cui è assicurata la terzietà del giudice e la ragionevole durata del processo.

Ma giusto processo non è soltanto questo, ma è qualcosa di più; sicuramente, come osservato da parte cospicua della dottrina, giusto processo è quello che tende anche a garantire la giustizia della decisione; e decisione giusta è quella raggiunta in un processo fondato (anche) sull’accertamento veritiero dei fatti .
Se si condividono tali presupposti, inevitabilmente deve concludersi che la ricerca tendenziale della verità materiale è uno scopo non estraneo al giudizio civile e trova copertura costituzionale nella garanzia del giusto processo prevista dall’art. 111, 1 comma, Cost.

Ne deriva che l’ammissibilità del ricorso alle prove atipiche, oltre a non essere ostacolata da espliciti divieti, appare imposta da norme di rango costituzionale, quali quella che garantisce il diritto di difesa (e, quindi, il diritto alla prova) e quella che assicura le garanzie del giusto processo (tra le quali, anche la garanzia di una decisione giusta, in quanto fondata su l’accertamento veritiero dei fatti).


Peraltro, un ulteriore sostegno alla tesi dell’ammissibilità delle prove atipiche nel giudizio civile deriva dal fatto che l’ordinamento consente che l’accertamento dei fatti possa fondarsi su presunzioni semplici (sempre che si rivelino gravi, precise e concordanti: art. 2729 c.c.).
Orbene, se ci si riflette su, ci si accorgerà che la legge si preoccupa soltanto di prevedere le modalità del ragionamento inferenziale idoneo a fondare l’accertamento dei fatti, mentre non tipizza le fonti (vale a dire, gli indizi) dell’inferenza presuntiva.

Sicché proprio l’atipicità delle fonti dell’inferenza presuntiva diventa un solido riscontro positivo a favore dell’ammissibilità del ricorso alle c.d. prove atipiche nel processo civile.
Aver risolto su un piano generale il problema dell’ammissibilità del ricorso alle prove atipiche, non esaurisce l’indagine, posto che, data l’estrema eterogeneità delle stesse, occorre chiedersi se il problema dell’ammissibilità si atteggi sempre allo stesso modo (quale che sia la prova atipica) o sia suscettibile di differenziazioni fondate sulla tipologia della prova atipica che si intende utilizzare.

Il problema si pone in particolare proprio per gli scritti provenienti da terzi (vale a dire da soggetti estranei al giudizio nel quale i documenti sono destinati ad esplicare la loro efficacia probatoria).
Si è già anticipato in precedenza come la maggiore preoccupazione del giudice di legittimità sia quella di individuarne l’efficacia probatoria.
Ma c’è un problema preliminare che talvolta sembra avvertito, anche se ad esso non viene riservata l’attenzione che merita: ed è quello della verifica della provenienza del documento (il che equivale a dire autenticità dello scritto).

Talvolta la S.C. sembra che dia per scontato che il documento proveniente dai terzi in tanto possa esplicare la sua efficacia probatoria in quanto non sia in discussione la sua autenticità (per tutte, tra le ultime, Cass. 14122/2004, cit.).
Come tale risultato possa raggiungersi, non appare del tutto chiaro.
Sicuramente appare impraticabile il ricorso alla procedura di disconoscimento e di verificazione della scrittura privata (artt. 214 e 216 c.p.c.), posto che tali rimedi sono esperibili soltanto nei confronti delle scritture intercorse inter partes (per tutte, v. Cass. 16362/2003, 8063/2001, 2668/2000, 6258/1996).

Sennonché, sulla scorta di tale condivisibile abbrivio, si arriva però ad una conseguenza assolutamente ingiustificata, quale quella di ritenere che la contestazione dell’autenticità degli scritti provenienti dai terzi debba essere promossa esclusivamente nelle forme della querela di falso ex art. 221 ss. c.p.c. (tra le tante, Cass. 16362/2003, cit., 12598/2001).

In realtà, così opinando, non ci si rende conto che l’efficacia di piena prova superabile a querela di falso è riconosciuta dal nostro ordinamento a documenti (quali l’atto pubblico e la scrittura privata riconosciuta) tra i quali non sono contemplati le mere scritture provenienti da terzi.
Peraltro, la parte che avanza dubbi sull’autenticità della scrittura proveniente da un terzo è una parte che non dice necessariamente che tale documento è falso (perché spesso trattasi di circostanza che le è ignota), ma, molto più semplicemente, dice che non è in grado di sapere se il documento è autentico.

Questi brevi rilievi sono sufficiente per concludere che il problema dell’autenticità, se non è risolvibile con il ricorso agli artt. 214 e 216 c.p.c., non può neppure risolversi costringendo la parte, contro cui il documento è prodotto, ad esperire la querela di falso, ove ne metta in discussione l’autenticità.

In realtà, come documentano le norme su tali argomenti, il problema dell’autenticità di un documento si pone nel processo ove ci sia la contestazione della parte che lo subisce (alla quale va equiparata anche l’iniziativa nella proposizione della querela di falso).
Sicché, se così è, si può ritenere che, una volta che sia stato prodotto in giudizio un documento proveniente da un terzo, la mancanza di contestazione circa l’autenticità dello stesso diventa criterio indispensabile per l’utilizzabilità dello stesso alla stregua di un altro documento di cui non si dubiti dell’autenticità1; laddove la contestazione circa l’autenticità (sia pure in forma dubitativa) comporta che il documento in tanto possa essere utilizzato probatoriamente in quanto colui che lo produce abbia fornito la prova della sua autenticità.

In tal senso sembra peraltro muoversi, sia pure intuitivamente, la S.C., allorché pare subordinare l’efficacia probatoria di tale documento alla mancanza di contestazione circa la veridicità formale (v. Cass. 14122/2004, cit., cui adde Cass. 5974/1988, 4719/1987, 3440/1984, che subordinano l’efficacia probatoria del documento alla raggiunta prova della sua autenticità, prova che ovviamente incombe su colui che produce il documento).
Una volta risolto il problema della verifica della provenienza, non per questo l’indagine può ritenersi conclusa, dal momento che sorgono ulteriori questioni tutte le volte che gli scritti provenienti dai terzi si configurino sostitutivi di una prova tipica (ipotesi della c.d, testimonianza stragiudiziale).
Pur ritenendosi di non aderire incondizionatamente all’opinione di coloro che ritengono inammissibile il ricorso alle prove atipiche in tali ipotesi, ciò nondimeno occorre innanzitutto porsi il problema dei limiti alla prova testimoniale: si pensi all’ipotesi dello scritto proveniente dal terzo incapace a testimoniare ex ar. 246 c.p.c, ovvero del documento diretto a provare circostanze su cui la prova testimoniale non sia ammissibile ex artt. 2721 ss. c.c.

In questi casi, ove si ritenga che tali limiti non poggino su ragioni di ordine pubblico (e, quindi, non sia consentito al giudice di farli valere ex officio), l’impossibilità di utilizzare il documento è conseguente alla contestazione tempestiva della parte contro cui il documento è prodotto (arg. ex art. 157 c.p.c.); se invece si è in presenza di limiti fondati su ragioni di ordine pubblico, sarà consentito anche al giudice farli valere di ufficio (si pensi all’ipotesi in cui il documento proveniente dal terzo sia destinato a provare l’esistenza di un contratto per il quale è richiesta la prova scritta ad substantiam).

Ulteriore problema è quello che deriva dal fatto che il documento (che si configura sostitutivo di una prova testimoniale) si è formato fuori dal processo e, quindi, al di là della percezione del giudice e senza che la parte, nei cui confronti è prodotto, sia stata messa in grado di interloquire.
Passi per la violazione del canone di immediatezza, in quanto trattasi di principio tendenziale, come dimostrano le ipotesi di prova delegata, o di prova assunta in tema di istruzione preventiva (ma trattasi pur sempre di ipotesi in cui l’assunzione della prova è avvenuta sotto la percezione di un giudice)2.
Ma c’è soprattutto il mancato rispetto del principio del contraddittorio, nonché del diritto di difesa della parte nei cui confronti il documento è prodotto.
A tal riguardo, se non vuol rinunciarsi a priori alla possibilità di utilizzazione del documento proveniente da terzi3, si potrebbe argomentare traendo spunti dagli orientamenti giurisprudenziali che consentono sanata l’irrituale produzione documentale4, tutte le volte che la parte che abbia subito la produzione documentale non abbia reagito opponendosi tempestivamente (tra le tante, v. Cass. 527/2002, 9077/2001, 4822/1997, 4333/1995, 896/1987).
Anche in questo caso, quindi, la contestazione tempestiva diventa il criterio guida che esclude l’utilizzabilità del documento in questione.
A questo punto resta soltanto il problema dell’individuazione del valore probatorio del documento proveniente dai terzi.

A riguardo la S.C. parla costantemente di valore indiziario (per tutte, v. Cass. 14122/2004, 11652/2002, 2149/2002, 11105/2001, 8063/2001, 10041/2000, 4503/2000, 852/1999, già citate in precedenza), anche se il meccanismo di operatività di tale procedimento probatorio non è del tutto chiaro5.

E’ opportuna una considerazione preliminare: il richiamo all’art. 116, 2 comma, c.p.c., da taluni effettuato per attribuire un minor valore probatorio alle prove atipiche, non appare del tutto illuminante.
Invero, non è affatto detto che con l’art. 116, 2 comma, il legislatore abbia codificato un’ipotesi di diverso ed inferiore valore probatorio rispetto a quello normalmente riconosciuto agli indizi.
Infatti, dalla lettera della legge, sembra che possa evincersi soltanto che l’art. 116, 2° comma, sia una norma ampliativa del catalogo dei mezzi probatori, nel senso che consente di attribuire rilevanza probatoria a fatti (i comportamenti processuali) che, senza quella norma, probabilmente non potrebbero essere presi in considerazione a tal fine.

D’altronde, dire che il giudice trae argomenti di prova da un fatto significa inequivocabilmente che quel fatto è utilizzabile a fini probatori.
Soltanto questo dice l’art. 116, 2 comma, c.p.c.
Ora, che i comportamenti processuali siano normalmente destinati ad operare come criterio di valutazione delle altre prove raccolte, è un fatto; ma non è certo detto che questa sia la loro unica utilizzazione probatoria.
Invero, data l’atipicità dei fatti posti a fondamento dell’inferenza presuntiva, nulla esclude che anche un comportamento processuale possa essere utilizzato a tal fine.
Che poi di per sé solo esso non sia sufficiente, non è certo perché lo dice l’art. 116, 2 comma, ma soltanto perché non è in grado di fondare un’inferenza presuntiva che abbia i crismi previsti dall’art. 2729 c.c. (gravità, precisione e concordanza degli indizi6).

Se si conviene su tali rilievi, può concordarsi con il costante orientamento della S.C., quando attribuisce alle prove atipiche (in particolare, agli scritti provenienti dai terzi) il valore di indizio: purché sia chiaro che la prova atipica può fondare di per sé la decisione tutte le volte che sia in grado di dar vita ad un’inferenza presuntiva che abbia i requisiti previsti dall’art. 2729 c.c.

Una volta individuate le coordinate giuridiche del problema in esame, è possibile passare all’esame della fattispecie dedotta in giudizio.
Il primo giudice ha ritenuto esistente il danno lamentato dalle appellate esclusivamente sulla base di documenti provenienti da terzi (fatture e conferma d’ordine).
Tale documentazione è stata immediatamente contestata dall’appellante in primo grado all’udienza del 13.12.1996 (vale a dire la seconda udienza, la prima si è tenuta il 15.3.1996); peraltro, la contestazione è stata sempre mantenuta ferma (v. comparsa conclusionale e di replica) e ribadita con l’atto di appello.
A fronte di tale esplicita contestazione, deve pertanto ritenersi che non ci sia stato consenso all’utilizzazione di documenti, di cui non era certa neppure l’autenticità; la parte che chiedeva il risarcimento dei danni doveva pertanto considerarsi onerata di fornire la prova richiesta, chiedendo per esempio la prova testimoniale a mezzo dei soggetti da cui provenivano i documenti.
Infatti, con la contestazione, l’appellante non solo mette in discussione l’autenticità dei documenti, ma soprattutto fa valere la palese violazione del diritto ad interloquire sulla prova, alla cui formazione è rimasta completamente estranea.
Conseguentemente, non avendo le appellate ottemperato all’onere della prova circa l’esistenza del danno, la sentenza impugnata va riformata su tale punto con rigetto della domanda rirsarcitoria.
In definitiva, l’unica condanna che resta in vita è quella concernente il pagamento del residuo prezzo relativo ai tubi ritirati dall’appellante: lire 3.526.741, pari ad euro 1.821,41.
Trattasi, come è evidente, di obbligazione di valuta (in quanto non derivante da obbligo risarcitorio, ma conseguente all’adempimento dell’obbligo di pagare il prezzo); sicché sicuramente errata è la decisione del primo giudice di applicare anche a tale condanna la tecnica di liquidazione prevista per le obbligazioni di valore (rivalutazione ed interessi legali sulla somma annualmente rivalutata).
Sennonché, a riguardo l’appellante non ha proposto uno specifico motivo di impugnazione, precludendo pertanto l’intervento del giudice di appello.
Tenuto conto dell’esito della lite (rigetto di tutte le domande dell’appellante, parziale accoglimento di quelle delle appellate), vanno compensate per metà le spese del doppio grado di giudizio, mentre la residua parte va posta a carico dell’appellante nella misura indicata in dispositivo.


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Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.

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