MIRCO MINARDI. Il processo sommario di cognizione

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Ripropongo anche per i lettori di Lexform l’articolo sul processo sommario di cognizione che ho scritto dopo circa due settimane dall’entrata in vigore della legge n. 69/2009, gentilmente pubblicato da Altalex.

Il processo sommario di cognizione
Seconda lettura
di Mirco Minardi

«Niente aggrava di più i problemi,
come le tentate soluzioni»
Paul Watzlawick

Sommario. 1. Premessa.- 2. Natura del procedimento.- 3. I presupposti processuali tipici.- 4. L’introduzione del giudizio.- 4.1. Il ricorso e il decreto.- 4.2. La costituzione del convenuto.- 4.3 Gli interventi e la chiamata in causa di terzi.- 5. L’udienza.- 5.1 Le verifiche preliminari.- 5.2 La separazione della riconvenzionale.- 5.3. La fase di trattazione in senso stretto.- 5.4 La connessione di cause.- 5.4.1. Cause connesse nello stesso ufficio giudiziario.- 5.4.2. Cause connesse in diversi uffici giudiziari.- 5.5. La fase di trattazione in senso stretto.- 5.6 La valutazione della sommarietà.- 5.7. La fase istruttoria.- 5.7. La fase decisoria.- 6. Il giudizio d’appello.- 7. Il giudicato.- 8. Conclusioni.-

1. PREMESSA
La legge n. 69/2009, come ormai a tutti noto, ha inserito nel libro IV, Titolo I, del codice di procedura civile, il Capo III-bis intitolato “Del procedimento sommario di cognizione”. Tre gli articoli introdotti:

  • il 702 bis intitolato Forma della domanda. Costituzione delle parti.
  • il 702 ter intitolato Procedimento.
  • il 702 quater intitolato Appello.

Sono trascorse due settimane dall’entrata in vigore della legge. Fatta la prima lettura, osserviamo un po’ più da vicino questo nuovo procedimento, aiutati dai pregevoli, anche se ancora pochi, contributi che la dottrina ha già messo a disposizione di noi pratici.

2. LA NATURA DEL PROCEDIMENTO
Il procedimento sommario di cognizione (d’ora in avanti PSC) ha natura dichiarativa e costituisce un rito speciale di cognizione che si aggiunge (e non si sostituisce) al rito ordinario, anche se, più che di specialità, potrebbe parlarsi di un modello di trattazione della causa semplificato all’interno del processo ordinario (Caponi).
La scelta del rito è integralmente rimessa nelle mani dell’attore; il convenuto nulla può fare se non, come tra poco vedremo, contestare la non sommarietà dell’istruzione (art. 702 ter III comma), ovvero la necessaria composizione collegiale dell’organo decidente (art. 702 bis, I comma).
Il legislatore lo ha chiamato «processo sommario di cognizione»; l’elemento caratterizzante è dunque la sommarietà, anche se la dottrina non ha mancato di evidenziare che la cognizione è in realtà piena.
Analizzando la disciplina ci si avvede che la sommarietà è riferita alla sola fase procedimentale ed istruttoria e non anche alla fase introduttiva. Difatti, le parti hanno l’onere di predisporre gli atti introduttivi in modo completo (cfr. art. 702 bis I e IV comma), al pari del giudizio ordinario (salva l’adozione della forma del ricorso). Il che è naturale se si pensa che il rito può essere convertito in ordinario laddove il giudice ritenga che l’istruzione non possa essere esperita sommariamente.
Altra caratteristica è l’atipicità, nel senso che il procedimento de quo, fatto salvo il limite della trattazione monocratica e della sommarietà dell’istruzione, può essere utilizzato per (a) qualsiasi tipo di diritto e con (b) riguardo a qualsiasi domanda. Pertanto, la parte utilizzare detto strumento per ottenere una pronuncia di condanna, di mero accertamento e costitutiva.
Non occorre poi fornire una particolare prova, come per esempio nel procedimento per decreto ingiuntivo.
Altra caratteristica è il contraddittorio anticipato; il giudice, in questo procedimento, non emette provvedimenti inaudita altera parte, ma fissa l’udienza di comparizione delle parti.
Infine, last but not the least, si segnala l’idoneità a passare in giudicato del provvedimento conclusivo che assume la forma dell’ordinanza.
Ricapitolando, le caratteristiche del procedimento sommario di cognizione sono le seguenti:

  • natura dichiarativa;
  • alternatività al rito ordinario;
  • sommarietà dell’istruzione;
  • atipicità;
  • libertà di prova;
  • contraddittorio anticipato;
  • idoneità al giudicato del provvedimento conclusivo.

3. I PRESUPPOSTI PROCESSUALI TIPICI
I presupposti processuali del PSC sono, oltre quelli classici:
a) la devoluzione della causa al tribunale monocratico;
b) la sommarietà della cognizione. Per la verità, il presupposto de quo non è un vero e proprio presupposto processuale in quanto potrebbe mancare ab origine (si pensi ad un ricorso in cui vengono esposte numerose questioni ed articolate numerose prove), ma sopraggiungere in corso di causa per effetto, ad esempio, della mancata contestazione del convenuto.
I casi in cui il tribunale giudica in composizione collegiale sono elencati nell’art. 50 bis c.p.c.. Come ha avuto modo di precisare la Suprema Corte trattasi di elencazione tassativa (Cass. 19892/2005). Peraltro, le disposizioni di cui agli artt. 50 bis e ter non si considerano attinenti alla costituzione del giudizio, pertanto le nullità derivanti dalla loro inosservanza debbono essere fatte valere nei limiti e con le regole del mezzo di impugnazione (cfr. artt. 161, I comma e 50 quater).
La dottrina (Luiso; Menchini) ritiene inoltre che il procedimento de quo non possa essere utilizzato:

  • nelle cause davanti al Giudice di pace;
  • nelle cause attribuite in unico grado alla Corte d’Appello;
  • nelle cause attribuite in grado di appello al Tribunale in composizione monocratica.

Si discute, invece, se il PSC possa applicarsi:

  • alle cause di lavoro;
  • alle cause (non di lavoro ma) sottoposte al rito del lavoro;
  • alle cause di opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi;
  • alle cause instaurate dopo l’emissione di un provvedimento cautelare.

Secondo Luiso e Menchini la risposta è negativa in quanto si tratta di procedimenti già sottoposti a rito speciale. Di diverso avviso Olivieri, secondo cui il procedimento de quo ben può applicarsi anche ai casi sopra elencati, nonché al giudizio di merito collegato a un provvedimento cautelare, anticipatorio o conservativo: in questa ipotesi, secondo l’autore, la fase a cognizione piena è posticipata all’eventuale appello.
Ritengo preferibile la prima opinione, tenuto conto che l’istituto nasce come alternativo al rito ordinario, non ai riti speciali i quali, appunto, sono già «speciali» rispetto al primo.

4. L’INTRODUZIONE DEL GIUDIZIO

4.1 Il ricorso e il decreto
La domanda introduttiva si propone con ricorso al tribunale monocratico competente (art. 702 bis, 1° comma). Per competente si intende anche dotato di giurisdizione ordinaria (De Gioia – Tedeschi). Dal momento del deposito si verifica la litispendenza, ex art. 39, II comma, c.p.c.. La norma non chiarisce, però, se il giudice possa rigettare de plano la domanda laddove ritenga che il processo sia devoluto al collegio. A mio avviso, non v’è ragione di fissare l’udienza, potendo la parte promuovere il giudizio ordinario e non essendo razionale instaurare un procedimento che si chiuderà con una ordinanza di inammissibilità. Contrari invece De Gioia – Tedeschi, secondo cui in questa fase il giudice non può effettuare alcuna valutazione circa i possibili vizi del ricorso, essendo necessario instaurare il contraddittorio.
Il ricorso, sottoscritto dal difensore, deve contenere le indicazioni di cui ai numeri 1), 2), 3), 4), 5) e 6) e l’avvertimento di cui al numero 7) del terzo comma dell’articolo 163.:
1) l’indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta;
2) le generalità delle parti;
3) la determinazione della cosa oggetto della domanda (petitum);
4) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda (causa petendi), con le relative conclusioni;
5) l’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione;
6) il nome e il cognome del procuratore e l’indicazione della procura, qualora questa sia stata già rilasciata. Secondo la Faggiotto si tratta di una svista posto che, trattandosi di ricorso, la costituzione è necessariamente contestuale e dunque la procura non può che essere coeva; sul punto v. Cass. 1899/2007. Secondo De Gioia e Tedeschi, invece, il disposto va coordinato con il nuovo art. 182 c.p.c. che attribuisce il potere al giudice di fissare un termine per il rilascio o la rinnovazione della procura;
7)l’invito al convenuto a costituirsi nel termine che verrà stabilito dal giudice e comunque non inferiore a dieci giorni prima dell’udienza indicata e a comparire dinanzi al giudice designato con l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui all’articolo 167 e 38. Secondo la Faggiotto il rinvio non può essere pedissequo stante la diversa struttura del procedimento; pertanto l’avvertimento, secondo l’Autrice, può essere qualcosa di simile a questo: …avverte il convenuto che deve costituirsi in giudizio entro il termine assegnato dal Giudice nel decreto di fissazione della udienza di comparizione delle parti che verrà notificato, unitamente al ricorso, almeno trenta giorni prima della data fissata per la sua costituzione, o, in difetto di assegnazione di detto termine, non oltre dieci giorni prima dell’udienza con l’avvertimento che la costituzione oltre il suddetto termine implicherà le decadenze di cui agli art. 38 e 702-bis c.p.c…….“.

Secondo il Menchini, in ogni caso, l’attore non incontra preclusioni, pertanto potrà integrare e completare il proprio apparato difensivo sia all’udienza del rito sommario di cui al V comma dell’art. 702 ter, sia all’eventuale udienza ex art. 183, fissata dopo l’accertamento negativo della sommarietà dell’istruzione.
A seguito della presentazione del ricorso il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio e lo presenta al presidente del tribunale, il quale designa il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento (art. 702 bis, II comma). Nelle sezioni distaccate tale designazione viene effettuata con provvedimento generale; dunque non è necessario depositare il ricorso nella sede centrale.
Il giudice designato fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti assegnando il termine per la costituzione del convenuto che deve avvenire «non oltre 10 giorni prima dell’udienza», il che significa dal decimo giorno in poi (art. 702 bis, III comma). Si tratta di un termine non libero, pertanto il giorno dell’udienza non va considerato, mentre si computa il giorno del deposito della memoria. Se il decimo giorno cade in un giorno festivo il termine è anticipato al primo giorno non lavorativo. Se cade di sabato il termine rimane fissato per il sabato, atteso che la nuova disciplina dell’art. 155, V comma, non si applica ai termini a ritroso (Cass. 11163/2008). Naturalmente, si deve tenere conto della sospensione feriale dei termini dal 1 agosto al 15 settembre incluso.
La norma, inspiegabilmente, non fissa un termine entro il quale il giudice dovrà fissare l’udienza, pertanto il legislatore sembra non aver voluto attribuire ai processi sommari una corsia preferenziale rispetto a quelli ordinari.
Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al convenuto almeno 30 giorni prima della data fissata per la sua costituzione (e non dell’udienza). Si tratta di un termine assoluto ed inderogabile. Non si specifica a cura di chi deve essere effettuata la notificazione, dunque è da ritenersi a cura del ricorrente posto che manca una previsione pari a quella di cui all’art. 420, IX comma c.p.c. e di cui all’art. 23 legge 681/1989; trattasi inoltre di un procedimento civile a carattere dispositivo con conseguente onere di impulso di parte sin dal suo sorgere (così De Gioia – Tedeschi). Sempre secondo questi ultimi Autori la cancelleria non è tenuta a comunicare l’emissione del decreto all’attore. Il ricorrente, alla luce della più recente giurisprudenza in tema di impugnazione e di notifica dell’opposizione a decreto ingiuntivo in materia di lavoro, ha l’onere di provvedere alla notifica del ricorso e del decreto nel termine stabilito. Qualora non provveda alla notifica, ovvero notifichi il ricorso e il decreto in luogo che non ha alcun collegamento con quello del destinatario, il giudice dovrà rigettare la domanda e non sarà tenuto a rifissare un nuovo termine (Cass. S.U. 20668/2008). Qualora invece la notificazione sia nulla, il ricorrente potrà richiedere un termine per la sua rinnovazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c. il quale stabilisce che se il convenuto non si costituisce e il giudice istruttore rileva un vizio che importi nullità nella notificazione della citazione, fissa all’attore un termine perentorio per rinnovarla. La rinnovazione impedisce ogni decadenza.
Sembra ovvio ritenere, pur in assenza di una espressa disposizione (in tal senso Olivieri), che anche per il ricorso de quo potranno verificarsi vizi attinenti alla vocatio in jus e alla edictio actionis che trovano disciplina nell’art. 164 c.p.c..

Laddove l’attore abbia la necessità di trascrivere il ricorso, dovrà chiedere non la copia, ma il secondo originale del ricorso, col decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti notificato al convenuto (così Olivieri).

4.2 La costituzione del convenuto
Ricevuto il ricorso e il decreto, scatta per il convenuto l’onere di costituirsi in cancelleria nel termine fissato dal giudice (art. 702 bis IV comma), mediante deposito della comparsa di risposta, nella quale avrà l’onere di:
a) proporre le sue difese;
b) prendere posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda;
c) indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione;
d) formulare le conclusioni;
e) proporre a pena di decadenza le eventuali domande riconvenzionali;
f) sollevare sempre a pena di decadenza le eccezioni processuali e di merito non sono rilevabili d’ufficio;
g) fare dichiarazione a pena di decadenza di voler chiamare un terzo in garanzia e chiedere al giudice designato lo spostamento dell’udienza. In tal caso il giudice, con decreto comunicato dal cancelliere alle parti costituite, provvede a fissare la data della nuova udienza assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo. La costituzione del terzo in giudizio avviene secondo le modalità del convenuto. La norma contempla la sola “chiamata in garanzia”, ma già autorevole dottrina (Luiso, Olivieri) ha osservato che sarebbe irragionevole escludere la chiamata per comunanza di causa. Di contrario avviso De Gioia – Tedeschi i quali ritengono che la scelta del legislatore di limitare alla sola chiamata in garanzia propria appare coerente con la sommarietà procedimentale che sarebbe compromessa laddove il contraddittorio fosse esteso (parzialmente contrari Sinisi – Troncone i quali ritengono che la chiamata possa essere non solo in garanzia propria ma anche impropria).
Esaminando il contenuto della norma possiamo notare che le attività che espressamente debbono essere esercitate a pena di decadenza sono:
a) la proposizione di domande riconvenzionali;
b) la proposizione di eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio;
c) la chiamata in causa del terzo.
Non sarebbe pertanto un onere sottoposto a decadenza l’indicazione delle prove di cui si chiede l’ammissione, né necessaria la produzione documentale (Sinisi – Troncone). Il che significa che le parti possono articolare i loro mezzi istruttori e produrre i documenti sino all’udienza di comparizione davanti al giudice. Ciò, peraltro rende assai improbabile la possibilità per il giudice di decidere già alla prima udienza, in quanto le parti vorranno articolare, quanto meno, i mezzi di prova contraria. Sono le stesse tenute a farlo direttamente in udienza, oppure possono ottenere un termine? A mio avviso la concessione del termine, tenuto conto della natura del procedimento, dovrebbe rappresentare l’ultima ratio, non certo la prassi (v. infra 5.7).
Qualora la domanda riconvenzionale del convenuto sia devoluta al tribunale collegiale, il Tribunale dovrà dichiararne l’inammissibilità e non la mera separazione (art. 702 ter, III comma).
Il legislatore non ha nemmeno previsto l’onere di contestare specificatamente i fatti allegati dall’attore; tuttavia, dobbiamo ricordare il principio di diritto vivente, oggi confermato dal disposto di cui all’art. 115 c.p.c., così come modificato dalla legge n. 69/2009, secondo cui l’onere di contestazione deve essere esercitato con il primo atto utile (Cass. 5191/2008) e dunque con la comparsa di costituzione e risposta.

4.3 Gli interventi e la chiamata in causa di terzi
L’unico riferimento ai terzi si trova nell’art. 702 bis, IV comma, allorquando si dice che il convenuto che intende chiamare in causa il terzo deve chiederne l’autorizzazione a pena di decadenza nella comparsa di costituzione e risposta e chiedere il differimento dell’udienza per permettere la citazione del terzo.
Non si dice quali termini vadano assegnati al terzo per costituirsi e per permettergli di approntare la difesa; sembra logico applicare per analogia i termini assegnati al convenuto.
Stesso dicasi nel caso in cui il terzo decida di chiamare in causa altro terzo.
Anche l’attore avrà l’onere di chiedere la chiamata in causa del terzo entro la prima udienza. Può però capitare che l’attore faccia la richiesta di chiamata in causa solo dopo la conversione del rito: in tal caso la chiamata è da ritenersi tempestiva? A mio avviso una volta disposta la conversione e fissata l’udienza ex art. 183 le parti potranno compiere tutte le attività ivi previste e cioè:

  • l’attore potrà chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa il terzo;
  • sempre l’attore potrà proporre le domande e le eccezioni nuove conseguenti alle domande e alle eccezioni del convenuto;
  • le parti potranno precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni;
  • le parti potranno chiedere la concessione del triplo termine ex art. 183, VI comma.

I terzi potranno certamente intervenire finché la causa non sia trattenuta in decisione. Naturalmente il regime di preclusione varierà a seconda del tipo di intervento1. Pertanto:
il litisconsorte pretermesso non subisce preclusioni;
gli interventori principali e adesivi (autonomi e dipendenti) possono intervenire sino a quando la causa non venga trattenuta in decisione, ma non possono compiere attività istruttoria se già preclusa alle altre parti;
il chiamato per ordine del giudice non subisce preclusioni.
Ovviamente anche i terzi (principali e adesivo autonomi) corrono gli stessi rischi del convenuto:
a)se propongono una domanda che richiede attività istruttoria non sommaria possono vedersi dichiarare la separazione della loro domanda;
b)se propongono una domanda devoluta al tribunale collegiale si vedranno dichiarare l’inammissibilità della stessa.
In caso di intervento principale ad excludendum pare comunque difficile ipotizzare una separazione, pena il rischio di contrasto di giudicati.

5. L’UDIENZA

5.1 Le verifiche preliminari
All’udienza così fissata il giudice compierà anzitutto delle verifiche preliminari:
a)accerterà la propria competenza (per materia, territorio e valore) e in difetto la dichiarerà con ordinanza (art. 702 ter, I comma);
b)verificherà che la domanda attorea sia di competenza del tribunale monocratico, pronunciando in caso contrario ordinanza non impugnabile di inammissibilità (art. 702 ter, II comma). Come osservato da Luiso la norma è solo apparentemente chiara poiché ferma la non revocabilità e modificabilità non chiarisce se detta ordinanza sia sottratta a qualsivoglia impugnazione, come per il decreto di cui all’art. 640 c.p.c., oppure se possa essere impugnata con appello o ricorso straordinario. Del pari, la norma nulla dice nel caso in cui il Tribunale si sia pronunciato in controversia soggetta a rito collegiale. In tal caso, sempre secondo Luiso, la Corte d’Appello dovrà pronunciare sentenza di mero rito, dichiarando la domanda inammissibile;
c)verificherà di avere competenza anche sulla riconvenzionale; in caso contrario pronuncerà ordinanza non impugnabile di inammissibilità (art. 702 ter, II comma);
d)valuterà se la causa richiede o meno una istruzione non sommaria (art. 702 ter, III comma). Nel primo caso fisserà con ordinanza non impugnabile l’udienza di trattazione e si applicheranno le norme previste dal libro II. In realtà, però, detta valutazione dovrà essere ripetuta all’esito della trattazione e cioè dopo che le parti abbiano precisato definitivamente i fatti, le domande, le eccezioni, le conclusioni e formulato le loro richieste di prova.
e)valuterà altresì che la riconvenzionale non richieda una attività ordinaria e dunque non sommaria; in tal caso, disporrà la separazione delle cause (art. 702 ter, IV comma).

In realtà queste non sono tutte le ipotesi che possono verificarsi nella pratica, in quanto:

f) il giudice potrebbe rilevare:

  • un difetto di giurisdizione; in tal caso è dubbio se debba pronunciare l’ordinanza o la sentenza;
  • la litispendenza;
  • l’esistenza di un giudicato;
  • la carenza dell’interesse ad agire;
  • un difetto di autorizzazione e/o rappresentanza e/o vizi del mandato difensivo;
  • che si tratta di una causa di appello avverso sentenza del giudice di pace, ovvero (qualora si opti per la non utilizzabilità del processo de quo) che si tratta di una causa di lavoro, di una casa sottoposta al rito del lavoro, di una causa di opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi o di una causa instaurata dopo l’emissione di un provvedimento cautelare;

g) nessuna delle parti compare alla prima udienza ovvero l’attore costituito non compare senza che il convenuto chieda che si proceda in assenza di lui (art. 181, commi 1 e 2, c.p.c.). In questa eventualità il giudice deve fissare una successiva udienza, nella quale – persistendo la mancata comparizione di entrambe le parti, ovvero del ricorrente senza che il convenuto chieda che si proceda – potrà addivenirsi alla cancellazione della causa con immediata estinzione del processo;
(h) non sono state osservate le disposizioni di ordinamento giudiziario relative alla ripartizione tra sede principale e sezioni distaccate, o tra diverse sezioni distaccate. In tal caso, a norma dell’art. 83-ter disp. att. c.p.c., l’inosservanza è rilevata non oltre l’udienza di prima comparizione e il giudice, se ravvisa l’inosservanza o ritiene comunque non manifestamente infondata la relativa questione, dispone la trasmissione del fascicolo d’ufficio al presidente del tribunale, che provvede con decreto non impugnabile.
Nel caso in cui il giudice pronunci ordinanza di inammissibilità, tanto della domanda principale, quanto della domanda riconvenzionale, si verifica l’estinzione del procedimento, pertanto, secondo De Gioia – Tedeschi sarà possibile il reclamo al collegio ai sensi dell’art. 308 c.p.c..

5.2 La separazione della domanda riconvenzionale
Il potere del giudice di disporre la separazione della domanda riconvenzionale che necessita di una istruzione non sommaria (art. 702 ter, IV comma) desta non poche perplessità, alla luce del fatto che l’ordinanza che conclude il procedimento è idonea a passare in giudicato.
Nulla di male se la connessione tra le cause è di tipo debole, in tal caso non si pone un problema di contrasto di giudicati. Diverso è il caso di connessione forte. Si pensi alla domanda di pagamento di una somma e alla riconvenzionale volta ad ottenere la risoluzione del contratto su cui si fonda la domanda attorea. In queste ipotesi, sembra preferibile la tesi secondo cui il giudice dovrà sempre disporre la trasformazione del rito sommario in rito ordinario (Luiso, Menchini).
Anche secondo Olivieri al giudice deve sempre essere riconosciuta la possibilità di disporre la trattazione unitaria col rito ordinario tutte le volte in cui la domanda riconvenzionale porti con sé la necessità di un’istruzione non sommaria per entrambe le cause. A conferma di ciò, aggiunge l’Autore, “può osservarsi che la soluzione contraria (con l’obbligo, per così dire, assoluto della separazione) potrebbe condurre alla sospensione proprio del processo che l’attore – utilizzando il rito sommario – avrebbe voluto accelerare. Se non si volesse condividere siffatta conclusione, bisognerebbe concludere per l’introduzione nel sistema processuale di un’altra ipotesi di condanna con riserva (dell’esame delle domande riconvenzionali)”. Difficile non dargli ragione; il ricorrente, in caso di sospensione, potrebbe vedersi allungare i tempi a dismisura, a dispetto della scelta del rito deformalizzato.
In altre parole, quando il legislatore dice che il giudice dispone la separazione della domanda riconvenzionale che richiede una istruzione non sommaria, non intende dire che il giudice è obbligato sempre e comunque a disporre detta separazione, bensì che la separazione va tendenzialmente disposta, ferma la possibilità di valutare caso per caso l’opportunità di trattazione congiunta con rito ordinario.
Va nuovamente ricordato che se la domanda riconvenzionale deve essere decisa dal Tribunale collegiale il giudice dovrà dichiararla inammissibile, con conseguente inapplicabilità dell’art. 281 novies c.p.c. (art. 702 ter, II comma).
La norma, ancora una volta, è solo apparentemente chiara, in quanto non specifica se il giudice debba dichiararla sempre e comunque inammissibile, anche allorquando ritenga la domanda attorea non istruibile con il procedimento de quo. Va ricordato che ai sensi dell’art. 281 novies, qualora una causa devoluta al giudice monocratico sia connessa con una causa devoluta al collegio, il giudice istruttore dovrebbe riunirle, procedere all’istruzione e poi rimetterle al collegio per la decisione finale. Si ritiene, invece, che qualora il giudice monocratico dell’una sia un magistrato diverso dall’istruttore della causa collegiale, entrambi, appena saputo della connessione, dovrebbero segnalare la situazione al Presidente del Tribunale affinché disponga la riunione. Ovviamente, nel caso in cui è la riconvenzionale ad essere devoluta al collegio, non è necessaria la riunione, in quanto il G.I. dovrà istruire la causa per poi rimetterla al collegio per la decisione.
Nel procedimento de quo possono verificarsi i seguenti casi:
a)il giudice dichiara l’inammissibilità della domanda riconvenzionale e procede con l’istruzione sommaria della principale;
b)il giudice dichiara l’inammissibilità della domanda riconvenzionale, procede con l’istruzione sommaria ma nel prosieguo si ravvede e fissa l’udienza ex art. 183 c.p.c.;
c)il giudice, vista la natura della domanda riconvenzionale e vista la necessità di istruzione ordinaria della causa principale, dispone la fissazione dell’udienza ex art. 183 c.p.c. senza pronunciare l’inammissibilità della riconvenzionale, che potrà essere istruita assieme alla principale.
Nulla questio sul caso a): è la disciplina prevista dal codice.
Nel caso b), invece, il convenuto rischia di vedersi dichiarare l’inammissibilità della domanda nonostante il giudice ritenga successivamente che il giudizio richieda una istruzione non sommaria. A mio avviso, disposta la conversione, il convenuto potrebbe richiedere la rimessione in termini per riproporre la domanda riconvenzionale, ma all’accoglimento osta il fatto che essendo l’ordinanza non impugnabile al giudice ne è impedita la modificazione (cfr. art. 177 c.p.c.).
Sono invece favorevole alla possibilità (ipotesi c) che il giudice proceda alla conversione del rito e “salvi” la riconvenzionale devoluta al collegio. Forse non è una soluzione tecnicamente ineccepibile, trattandosi della violazione di un presupposto processuale, ma sicuramente di buon senso, specie se l’attore ha utilizzato in mala fede il procedimento de quo.

5.4 La connessione di cause
In tema di connessione occorre affrontare la questione se il legislatore abbia inteso derogare alla disciplina prevista dal codice ogni qual volta sia stata introdotta una causa con rito sommario. Potrebbe far propendere per questa interpretazione la disciplina della domanda riconvenzionale che richieda una istruzione non sommaria e quella devoluta al collegio. Abbiamo infatti detto poc’anzi che nel primo caso, stando alla lettera del codice, il giudice dovrebbe separare la riconvenzionale dalla domanda attorea, mentre nel secondo caso dovrebbe dichiararla inammissibile.
Ritengo che il legislatore non abbia affatto voluto derogare sempre e comunque la disciplina codicistica in tema di connessione. Si tratterà di verificare caso per caso il tipo di connessione al fine di accertare se la trattazione disgiunta dei procedimenti possa arrecare o meno un pregiudizio sotto il profilo della coerenza delle decisioni, del contrasto di giudicati, dell’economica processuale.

5.4.1. Cause connesse nello stesso ufficio giudiziario
E’ certamente possibile il verificarsi di casi in cui una causa contenente, contenuta o connessa penda davanti al medesimo tribunale nelle forme del rito ordinario. Secondo Olivieri nulla impedisce che le due cause vengano chiamate avanti allo stesso giudice, il quale dovrà poi stabilire – secondo la sua valutazione discrezionale – se le cause possano essere riunite nel rito ordinario (art. 702 ter, 3° comma, c.p.c.: soluzione preferibile quante volte il mancato simultaneus processus comporterebbe la sospensione di uno dei due processi), ovvero se debbano proseguire separatamente. Naturalmente, se si tratta di magistrati diversi o di sezioni diverse, bisognerà riferirne al Presidente che, sentite le parti, indicherà il giudice o la sezione davanti alla quale le cause verranno chiamate; lì, il giudice deciderà se riunire i procedimenti, ovvero se debbano continuare separatamente.
Se invece si tratta della stessa causa il giudice dovrà riunirle, se si tratta dello stesso magistrato persona fisica, oppure, laddove si tratti di un magistrato diverso o di altra sezione, dovrà riferirne al Presidente del Tribunale affinché, sentite le parti, disponga la riunione, determinando la sezione o designando il giudice davanti al quale il procedimento deve proseguire (art. 273 c.p.c.). Una volta riunite, il giudice deciderà quale rito seguire.

5.4.2. Cause connesse in diversi uffici giudiziari
Nel caso in cui la stessa causa (litispendenza) penda davanti a uffici giudiziari diversi e con riti diversi, il giudice successivamente adito dovrà pronunciare ordinanza. Il giudice preventivamente adito deciderà quindi se continuare la trattazione con il rito sommario o con il rito ordinario.
Se entrambi i giudizi sono stati introdotti con riti sommari, il giudice preventivamente adito potrà decidere se continuare con il procedimento sommario oppure disporre la conversione.
Negli altri casi di connessione, ritengo si debba distinguere tra connessione forte e debole. Solo nel primo caso si applicherà il meccanismo delineato dall’art. 40. In caso di connessione debole ciascun procedimento proseguirà nella sede sua propria.

5.5 La fase di trattazione in senso stretto
L’unico riferimento che l’art. 702 ter fa alla trattazione in senso stretto è questo: “il giudice, sentite le parti, …..”.
Nel giudizio ordinario, invece, la prima udienza è più articolata in quanto:
a)il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari;
b)indica le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione;
c)può disporre il tentativo di conciliazione;
d)può anche interrogare liberamente le parti presenti;
e)l’attore può proporre le domande e le eccezioni nuove che siano conseguenza delle domande e delle eccezioni del convenuto;
f)sempre l’attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo, qualora ciò sia reso necessario dalle difese del convenuto;
g)le parti possono precisare, modificare le domande, eccezioni e conclusioni.
Credo sia difficilmente revocabile in dubbio che il giudice possa esercitare anche nel processo sommario di cognizione le attività di cui ai punti sopra elencati. Vediamo, invece, se anche le parti conservino tutti i loro poteri nel procedimento de quo.
(e) Le domande nuove dell’attore
Come è noto, l’art. 183 V comma prevede la possibilità per l’attore di proporre le domande e le eccezioni che siano conseguenza delle domande e delle eccezioni sollevate dal convenuto. Va qui ricordato che per diritto vivente allorquando la norma fa riferimento alle eccezioni intende riferirsi all’eccezione in senso stretto e non alle mere difese che importano la contestazione dei fatti costitutivi2.
Nessun dubbio che l’attore possa proporre le controeccezioni nuove in risposta alle eccezioni del convenuto, atteso che il potere di eccezione costituisce esercizio del diritto difesa che, laddove tempestivamente esercitato, non può essere limitato pena la violazione dell’art. 24 della Costituzione. Diverso è il discorso per le domande, in quanto il legislatore è libero di limitare il numero delle domande proponibili in giudizio, purché lasci la possibilità alla parte di instaurare un nuovo procedimento. Olivieri ritiene che anche in questo procedimento l’attore possa proporre le domande e le eccezioni conseguenti alle domande e alle eccezioni del convenuto. In tal caso si potranno verificare le seguenti ipotesi:
a) il giudice separa la riconvenzionale e la domanda nuova dell’attore dalla domanda originaria;
b) il giudice dispone che la trattazione di tutte le domande avvenga secondo il rito ordinario.
Qualora il giudice ritenga di dover fissare l’udienza ex art. 183 ci si deve chiedere se le attività compiute all’udienza ex art. 702 ter siano da ritenere efficaci anche nella successiva fase, ovvero se le parti siano tenute a riproporre le domande, le eccezioni e la richiesta di chiamata in causa del terzo. A mio avviso, una volta proposta la nuova domanda o la nuova eccezione o chiesta l’autorizzazione alla chiamata in causa del terzo non vi è necessità di una riproposizione specifica, bastando riportarsi alle richieste già verbalizzate alla precedente udienza, trattandosi dello stesso procedimento. Quid juris in caso di silenzio, ovvero di semplice richiesta di triplo termine o di assenza all’udienza? A mio parere il silenzio, l’assenza e la richiesta del triplo termine non fanno presumere l’abbandono delle domande e delle eccezioni. Per quanto riguarda invece la chiamata in causa del terzo, la richiesta del triplo termine svolta in udienza ex art. 183 fa presumere il suo abbandono, in quanto è incompatibile con la volontà di chiedere l’autorizzazione alla chiamata.
(f) La chiamata in causa del terzo ad opera dell’attore
Il V comma dell’art. 183 stabilisce che l’attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo comma, se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Anche in questo caso occorre stabilire se il ricorrente possa chiedere siffatta autorizzazione al giudice del procedimento sommario e la risposta mi pare debba essere positiva stante la stretta consequenzialità tra la chiamata in causa e le difese del convenuto. In caso positivo, il giudice fisserà una nuova udienza per dar la possibilità all’attore di effettuare la chiamata in causa. A questo punto, il giudice potrebbe anche decidere di fissare l’udienza del 183 e lì prendere la decisione se autorizzare la chiamata in causa del terzo. Naturalmente, laddove si acceda all’interpretazione restrittiva, secondo cui il convenuto può chiamare in causa il terzo solo in garanzia, come espressamente sancisce la norma, si dovrà concludere che anche l’attore possa chiamare il terzo in garanzia e non per comunanza di causa, non essendo certamente possibile una disparità di trattamento.
(h) la precisazione e la modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni.
Manca nell’art. 702 ter anche il riferimento all’attività di «precisazione e di modificazione delle domande». Nel rito del lavoro l’emendatio delle domande, eccezioni e conclusioni è subordinata ad un duplice requisito (cfr. art. 420 c.p.c.), id est la presenza di gravi motivi e l’autorizzazione del giudice. Dunque il nostro ordinamento conosce riti in cui dette attività non sono affatto automatiche. Tuttavia, in assenza di un espresso divieto non sembra ragionevole limitare la possibilità dello jus poenitendi.

5.6 La valutazione sulla sommarietà
Una volta sentite le parti e ascoltate le loro difese, domande, eccezioni e richieste istruttorie il giudice dovrà decidere se mantenere il rito sommario oppure se disporre la conversione in rito ordinario. L’elemento dirimente, come osservato da Menchini, è che la controversia sia semplice, id est:
che non presenta una pluralità di questioni da risolvere;
che non richiede accertamenti complessi;
che non necessita di attività di lunga indagine o numerose.
Irrilevante è invece la prognosi sulla fondatezza della domanda (Menchini). Ovviamente, alla luce del nuovo art. 115 c.p.c. il giudice potrebbe ritenere non necessaria l’istruttoria per effetto della contestazione generica o addirittura dell’assenza di contestazione da parte del convenuto.

5.7. La fase istruttoria
Il V comma dell’art. 702 ter stabilisce che … omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande.
Alla prima udienza, pertanto, il giudice potrebbe già procedere con gli atti di istruzione. Tuttavia, le parti non hanno l’obbligo sancito a pena di decadenza di formulare i mezzi istruttori, dunque potrebbero anche decidere di articolarli in udienza. Non solo; le parti potrebbero anche avere la necessità di richiedere un termine per articolare una prova contraria.
Come può allora il giudice procedere all’immediata istruzione se le parti non hanno l’obbligo di articolare i mezzi istruttori con gli atti introduttivi? Vediamo le soluzioni possibili:
a) il giudice potrebbe invitare le parti a formulare seduta stante tutte le richieste istruttorie, a produrre i documenti e a richiedere la prova contraria. Se possibile decide immediatamente e procede con l’istruzione;
b) il giudice potrebbe invitare le parti a formulare seduta stante tutte le richieste istruttorie, a produrre i documenti. Se richiesto concede un termine per la sola prova contraria a seguito della quale scioglierà la riserva assunta in udienza;
c) il giudice potrebbe concede un doppio termine per formulare le richieste istruttorie, per produrre i documenti e per richiedere la prova contraria;
d) il giudice potrebbe fissare una nuova udienza con termine intermedio per l’articolazione dei mezzi di prova e per la prova contraria;
e) il giudice, preso atto che le parti non hanno articolato i mezzi istruttori, decide allo stato degli atti.
Secondo il Menchini, in questo processo non esistono preclusioni e decadenze, pertanto le parti hanno la possibilità, nel corso di tutto il processo, di allegare nuovi fatti, proporre eccezioni in senso lato, proporre nuove istanze istruttorie e nuovi documenti, con il solo limite del rispetto del contraddittorio.
A mio avviso, invece, tutte le preclusioni maturano alla prima udienza. Il legislatore ha introdotto questo speciale procedimento in un periodo storico in cui il processo ordinario consta di una udienza e (eventualmente) tre termini. Nel rito ordinario, già dalla seconda udienza il giudice può procedere all’assunzione delle prove. Si tratta dunque di un procedimento estremamente concentrato.
Il processo sommario di cognizione nasce per creare uno strumento di definizione delle controversie ancora più rapido e snello, dunque non può diventare la brutta copia del processo ordinario, visti sopratutto i ristretti tempi assegnati al convenuto.
Il principio di preclusione, più o meno stringente a seconda dei casi, riguarda tutti i procedimenti di cognizione disciplinati dal codice di rito. Anche nel procedimento davanti al giudice di pace, pur non essendo sancita una espressa barriera preclusiva, le parti hanno l’onere alla prima udienza di proporre le loro domande, le loro eccezioni e di svolgere le richieste istruttorie, salvo il rinvio ex art. 320 IV comma.
Il legislatore non ha inteso affatto abbandonare il sistema di preclusioni che peraltro sono funzionali alla ragionevole durata del processo stabilita dall’art. 111 della Costituzione.
Pertanto, come nel procedimento davanti al giudice di pace, a mio avviso, è all’udienza di trattazione che maturano tutte le preclusioni.
Il che significa quanto segue:
all’udienza di comparizione e trattazione le parti hanno l’onere di indicare tutti i mezzi di prova diretta e contraria;
solo qualora l’indicazione della prova diretta sia resa necessaria dall’attività di precisazione e modificazione delle domande ed eccezioni, le parti potranno richiedere un termine per indicare e produrre le prove necessitate dalla emendatio;
solo qualora la capitolazione della prova diretta avvenga in udienza, il giudice può concedere un termine per la prova contraria alla parte che ne abbia fatto richiesta.
Anche secondo Olivieri una volta ammessi o disposti gli atti d’istruzione rilevanti, sono precluse non solo nuove domande o eccezioni (qualora ciò fosse dipeso dalle difese del convenuto), ma anche qualsiasi modificazione di domande o eccezioni già proposte e l’inserimento di nuovi fatti (e perciò anche la contestazione).
Vediamo ora di dare un significato alla frase ”omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto”.
Si potrebbe anche stralciare la parte da «rilevanti» in poi, trattandosi di espressione pleonastica. Non si vede in quale processo il giudice possa procedere all’istruzione attraverso il compimento di atti «non rilevanti» in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto. Oltretutto è una espressione sbagliata, visto che i mezzi di prova «rilevanti» non sono solo quelli «rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto» ma, evidentemente, anche quelli volti a dimostrare i fatti estintivi, modificativi ed impeditivi, nonché quelli volti a sostenere una eccezione in senso lato.
La formula vuole richiamare ovviamente l’art. 669 sexies il quale recita: Il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto, e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto della domanda.
Nel processo cautelare uniforme la deformalizzazione degli “atti di istruzione”, desumibile dal riconoscimento al giudice del potere di procedere “nel modo che ritiene più opportuno”, che gli concede ampi spazi di discrezionalità nel governo dell’istruttoria, è necessitata dall’urgenza del provvedere, esigenza che talvolta sarebbe frustrata qualora si dovesse pedissequamente osservare le forme e le modalità di acquisizione del materiale probatorio valevoli nei giudizi a cognizione ordinaria.
Tuttavia, nel procedimento sommario di cognizione detta urgenza non esiste. Qui la sommarietà dell’istruzione si giustifica con la scelta fatta dall’attore di definire il procedimento con un rito più snello che sfocia con una ordinanza idonea a passare in giudicato. Dunque non appare legittimo, pur nella similitudine delle disposizioni, fare il “copia e incolla” dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale avvenuta sull’art. 669 sexies. In quei procedimenti alla fase sommaria segue o può seguire una fase di merito, nel corso della quale si potranno dare ingresso a tutti i mezzi di prova secondo il procedimento ordinario. Qui, l’unico contemperamento è dato dalla eventuale fase istruttoria a cognizione piena del giudizio di appello.
Chiediamoci dunque che cosa si intende per deformalizzazione dell’attività istruttoria. In particolare:
quali deroghe sono possibili al regime delle prove?
sono ammissibili mezzi di prova ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge?
quali modalità diverse possono essere assunte rispetto a quelle disciplinate dal codice di rito?
esistono mezzi di prova incompatibili a priori con un’istruttoria deformalizzata?
Come abbiamo detto, un buon punto di partenza potrebbe essere l’elaborazione compiuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riferimento all’art. 696 sexies; vediamo allora alcune conclusioni sulle quali esse sono approdate (in modo non unanime) in relazione all’art. 696 sexies.
La norma, adoperando la dizione “atti di istruzione”, ha inteso porre sullo stesso piano qualitativo l’attività di ammissione ed assunzione delle prove svolte nel rito cautelare con quella espletata nel processo a cognizione piena, mentre circoscrive la discrezionalità del giudice al “modo” degli atti di istruzione, rispetto al quale soltanto è consentita la sua valutazione di opportunità, e non anche al “tipo” degli atti stessi, sicché – in mancanza di un’espressa ed inequivoca indicazione in tal senso – non sembra corretto introdurre una deroga così vistosa ad un principio – cardine dell’ordinamento processuale.
Si sostiene, poi, – ma anche qui non vi è unanimità di vedute – che il giudice, anche nel procedimento cautelare, non abbia alcun potere inquisitorio, essendo comunque vincolato alle allegazioni e alle prove offerte dalle parti.
Un altro aspetto riguarda le prove atipiche che ormai la giurisprudenza ritiene legittime sia nell’istruttoria sommaria che nell’istruttoria ordinaria. Esse hanno valore indiziario, potendo essere poste a base di un processo di inferenze di tipo presuntivo.
Quanto alla testimonianza, si è detto che i testimoni possono essere sentiti anche senza la rituale dichiarazione di impegno, senza una preventiva capitolazione e anche su fatti diversi dalle circostanze eventualmente capitolate. In ogni caso, la discrezionalità del giudice non può spingersi fino a superare i limiti di legge (ad es. art. 2721; art. 246 c.p.c.).
In merito alla CTU, si è sostenuto che l’ausiliario possa riferire oralmente le sue conclusioni e che l’incarico possa essere dato senza previa fissazione dei quesiti.
Sono state ritenute incompatibili con i procedimenti cautelari la querela di falso e il giudizio di verificazione della scrittura privata.
Sempre con riferimento al procedimento cautelare si è da taluni sostenuto l’incompatibilità del giuramento decisorio e suppletorio.
Vediamo allora di confrontare queste conclusioni con il nuovo processo sommario di cognizione.
Il potere inquisitorio. In mancanza di un espresso riferimento sembra potersi affermare che il procedimento de quo non è diverso dal procedimento ordinario per quanto attiene ai poteri del giudice. Questi pertanto non ha il potere di ricercare la prova, dovendo rispettare il canone del principio dispositivo del processo. Le prove ammesse ed assunte saranno solo quelle ritualmente proposte dalle parti, salve le eccezioni previste dal codice. Di diverso avviso Sinisi e Troncone i quali sostengono che il giudice possa disporre d’ufficio tutti i mezzi di prova (pag. 161).
Naturalmente il giudice è libero di:

  • disporre l’interrogatorio libero delle parti (art. 117 c.p.c.);
  • disporre la ctu (art. 191 c.p.c.);
  • disporre l’ispezione di persone e cose (art. 118 c.p.c.)
  • richiedere informazioni alla p.a. (art. 213 c.p.c.);
  • disporre la prova testimoniale (art. 281 ter c.p.c.);
  • deferire il giuramento suppletorio (art. 240 c.p.c.).

Sono invece riservati alla parte:

  • la produzione documentale;
  • il deferimento dell’interrogatorio formale;
  • l’ordine di esibizione;
  • il giuramento decisorio.

Testimonianza. Ritengo che la testimonianza debba comunque essere assunta, a differenza della fase sommaria dei procedimenti cautelari, con la dichiarazione di impegno del testimone (per ammonire il teste dell’importanza delle sue dichiarazioni e delle conseguenze cui va incontro in caso di falsità delle dichiarazioni rese), con la previa formulazione dei capitoli in articoli separati (per permettere una compiuta attività difensiva della controparte). La prova non potrà essere assunta in contrasto con i limiti di legge.
Ctu. L’esigenza di disporre una CTU non esclude a priori la possibilità di ricorrere al procedimento, specie quando l’oggetto del contendere riguardi solo il quantum e non l’an (si pensi alla materia della responsabilità derivante dalla circolazione stradale in cui sia contestata solo l’entità dei postumi derivanti dal sinistro). Il giudice potrebbe autorizzare il ctu a rendere le proprie conclusioni oralmente, con obbligo però di verbalizzazione e della concessione di un termine per eventuali osservazioni critiche dei CTP.
Giuramento. Nessun motivo impedisce di assumere questo mezzo di prova, fermo l’obbligo di rispettare i requisiti formali di legge.
Prove atipiche. Nessuna differenza rispetto a quanto già previsto nel rito ordinario. Le prove atipiche potranno essere utilizzate dal giudice come argomento di prova o come indizi. Ricordiamo tra le prove atipiche:

  • gli scritti provenienti dal terzo;
  • i verbali di prova di altro procedimento;
  • le certificazioni amministrative;
  • i verbali di p.g.;
  • gli atti di notorietà;
  • le sentenze penali non passate in giudicato;
  • tutte le sentenze che non fanno stato nel procedimento;
  • le prove raccolte in cause riunite.

5.7. La fase decisoria
L’art. 702 ter non descrive in nessun modo come si arriva alla fase decisoria, stabilendo soltanto che il provvedimento conclusivo è un’ordinanza avente queste caratteristiche:
è provvisoriamente esecutiva;
costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione;
è idonea a passare in giudicato;
contiene la pronuncia sulle spese ai sensi degli articoli 91 e seguenti.
Nonostante l’omissione non sembra dubitabile la necessità di dar modo alle parti di precisare le loro conclusioni, anche per evitare al giudice di doversi pronunciare su domande ed eccezioni che le parti intendono abbandonare. Naturalmente ciò non significa che il giudice sia tenuto a fissare una udienza ad hoc, potendo benissimo far precisare le conclusioni subito dopo l’istruttoria.
Del pari non è previsto lo scambio delle comparse conclusionali e delle repliche, ma nulla impedisce al giudice di concedere, ex art. 170 c.p.c., un termine per detti adempimenti ma solo se strettamente necessario. Pertanto, il giudice ha il potere di decidere sia l’an che il quomodo (De Gioia – Tedeschi). Detta conclusione è avvalorata dalla considerazione che non è prevista nemmeno la discussione; di certo nulla impedisce al giudice di avvalersi anche dei poteri di cui all’art. 281 sexies, disponendo la discussione orale della causa dopo la precisazione delle conclusioni.

6. IL GIUDIZIO DI APPELLO
L’appello è disciplinato dall’art. 702-quater il quale stabilisce che l’ordinanza de qua produce gli effetti di cui all’articolo 2909 del codice civile se non è appellata entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione.
Il termine decorre dalla notificazione o dalla comunicazione, secondo il principio del prior in tempore. Secondo Olivieri, mancando l’una o l’altra si applicherà il termine lungo di sei mesi. Secondo De Gioia – Tedeschi, invece, il decorso del termine breve avverrà sempre in quanto il cancelliere, ai sensi dell’art. 133 c.p.c. dovrà comunicare alle parti il dispositivo dell’ordinanza.
L’articolo non specifica se la forma dell’atto introduttivo sia il ricorso, per il principio di ultrattività del rito, ovvero la citazione (in tal senso Sinisi – Troncone, pag. 171 e Olivieri). Propendo anch’io per la seconda ipotesi, visto che la citazione è la forma dell’atto introduttivo del processo di secondo grado e che in questo grado il procedimento perde la sua specialità.
Il problema è però serio tenuto conto della brevità del termine per impugnare. Qualora infatti si ritenga che la forma dell’atto impugnatorio sia la citazione, in caso di erronea predisposizione del ricorso si dovrà procedere al deposito talmente tempestivamente da essere in grado di notificare il ricorso e il decreto entro il termine di legge. Lo stesso dicasi nell’ipotesi inversa: l’appellante dovrà notificare e poi depositare la citazione entro il termine di 30 giorni.
Nonostante la norma non ne faccia menzione, deve ritenersi che la parte convenuta possa dolersi della sommarietà esperita davanti al tribunale, ma deve escludersi che, in caso di accoglimento, la Corte debba rimettere la causa al giudice di primo grado, essendosi fuori dalle ipotesi di cui all’art. 354 c.p.c.
Nella fase di appello, secondo il tenore della norma, nuovi mezzi di prova e nuovi documenti saranno ammessi in due casi:
a)qualora il collegio li ritenga rilevanti ai fini della decisione,
b)oppure qualora la parte dimostri di non aver potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile.
Nel giudizio di appello avverso le sentenze emesse a seguito di rito ordinario, invece, il regime delle prove è assai rigido, potendo le parti chiedere l’ammissione di quelle sole indispensabili ai fini della decisione della causa, salvo che la parte dimostri di non averle potute proporre nel giudizio di primo grado.
Secondo il Menchini, la norma deve essere interpretata nel senso che in appello le parti hanno il diritto a che le prove acquisite nella prima fase siano rinnovate e replicate, con potere altresì di introdurre nuove prove e nuovi documenti (così anche Luiso, Sinisi e Troncone, pag. 171). Non sono invece ammesse nuove eccezioni, nuove domande, mentre è possibile l’emendatio. In caso di ammissione di prove costituende, il presidente del collegio potrà delegare uno dei componenti del collegio per l’assunzione.
La rinnovazione e la replica delle prove, tuttavia, potrà essere disposta solo nel caso in cui in primo grado siano state assunte in modo deformalizzato; si pensi, ad esempio, al caso in cui il giudice si sia accontentato delle dichiarazioni rese da «informatori», ovvero abbia deciso sulla base delle conclusioni orali del ctu. Solo in questi casi sembra logico ritenere possibile una rinnovazione, non certo allorquando l’istruttoria abbia seguito i soliti canoni. Questa interpretazione sembra essere avvalorata dall’uso dell’aggettivo «nuovi» che precede il sintagma «mezzi di prova e documenti».
La scelta, comunque, è a dir poco infelice. Tutti sanno che oggi è proprio il giudizio innanzi alle Corti d’Appello il collo di bottiglia della giustizia civile. Tutto sommato i giudizi di primo grado sono abbastanza veloci, specie in alcune isole felici. Aver posticipato al giudizio d’appello la fase istruttoria completa – sempre che questa interpretazione si faccia strada – comporterà, oltre all’aggravio del lavoro per la Corte d’Appello, che i testimoni saranno chiamati a deporre a distanza di molti anni dai fatti, con tutto ciò che ne consegue in termini di affidabilità.
Naturalmente il collegio pronuncia sentenza avverso la quale sarà esperibile il ricorso in Cassazione.

7. IL GIUDICATO
Sorprendentemente il provvedimento conclusivo, che assume la veste di ordinanza, come già detto, è idoneo a passare in giudicato, nonostante:
(a) la sommarietà della cognizione; e
(b) la preferenza per la separazione dei giudizi.
Ciò significa (Menchini) che il contenuto non può più essere contestato in successivi giudizi aventi ad oggetto:
la medesima situazione sostanziale;
diritti soggettivi dipendenti o incompatibili;
l’accertamento del rapporto giuridico dal quale trova origine la pretesa sostanziale fatta valere.
Tenuto conto della mutilazione della sentenza avvenuta con la legge n. 69/2009 che ha eliminato la necessità di riportare lo svolgimento del processo e dell’idoneità a passare in giudicato, era certamente da preferire la sentenza. Ma tant’è.
Alla luce dell’idoneità al passaggio in giudicato, come già detto nel corso dell’articolo, sembra opportuno che il giudice eviti la separazione della riconvenzionale e disponga la riunione di procedimenti connessi ogni qual volta si possa profilare un contrasto di giudicati.

8. CONCLUSIONI
Ancora una volta il legislatore mette sul piatto degli operatori uno strumento che si presta a diverse interpretazioni, stante le poche disposizioni disciplinatrici. Con l’ovvia conseguenza che si formeranno orientamenti diversi che stimoleranno l’attività impugnatoria delle parti e quindi l’aumento di quel contenzioso che, nelle intenzioni, si vorrebbe combattere. Paradossalmente, anche il favor per la separazione comporterà un aumento del carico di lavoro per i giudici.
Si va poi a gravare la Corte d’Appello che è l’organo giudiziario che attualmente registra più ritardi nell’emanazione delle sentenze.
Irragionevole, infine, il termine di trenta giorni per l’impugnazione dell’ordinanza, tenuto conto dell’incertezza sulla forma dell’atto introduttivo.
I principali nodi da sciogliere mi sembrano comunque questi:
il PSC si applica ai riti speciali?
Nel colmare le lacune, ed in mancanza di una norma di chiusura, il giudice deve necessariamente applicare le regole del rito ordinario?
Qual è il regime di connessione?
La separazione della riconvenzionale non sommaria è sempre dovuta, oppure il giudice può scegliere di convertire il rito per tutte le domande?
Che cosa si intende per istruzione non sommaria?
Fino a dove può spingersi il giudice nell’istruire il processo in maniera deformalizzata?
Quando maturano le preclusioni?
La chiamata del terzo da parte del convenuto può avvenire solo per garanzia? Ed in tal caso, garanzia propria o anche impropria?
L’attore conserva i poteri previsti dall’art. 183 V comma?
Qual è la forma dell’atto impugnatorio avverso l’ordinanza?

Insomma, il nostro chef, anche questa volta, non si è smentito, servendoci il solito pasticcio all’italiana.

BIBLIOGRAFIA:

CAPONI R., Relazione tenuta al Convegno “Come cambia il codice di procedura civile”, Firenze, 25/06/09, www.fondazioneforensefirenze.it.
DE GIOIA V. – TEDESCHI C., Il nuovo procedimento sommario di cognizione, Experta.
LUISO F.P., Il procedimento sommario di cognizione, in www.judicium.it,
MANOLA FABBOTTO, Prime osservazioni sul procedimento sommario di cognizione introdotto dalla legge n. 69/2009, www.lexform.it.
MENCHINI S., L’ultima “idea” del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, www.judicium.it.
OLIVIERI G. Il procedimento sommario di cognizione (primissime brevi note), www. judicium.it.
SINISI – TRONCONE, La riforma del processo civile, Simone.
VALERINI F., Il nuovo procedimento sommario di cognizione: funzionamento, vantaggi e limiti all’estensione come “modello” uniforme, www.dirittoegiustizia.it.


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Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.

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4 commenti:

  1. Federico

    Complimenti per l’articolo, Mirco, é molto esauriente. Ma non nascondo il mio senso di disagio quando il legislatore lascia così ampia discrezionalità all’interprete. Io mi ritrovo a dover scegliere tra rito ordinario o sommario. Come istruzione, chiederei l’assunzione di due testi (che confermino la dinamica del sinistro per l’attribuzione della responsabilità alla controparte) e una CTU medico-legale che confermi i postumi invalidanti documentati dalla perizia del medico fiduciario del mio assistito.
    Bene, se proporrò ricorso ex art 702 bis, dovrò affidare all’umore (recte: all’esegesi) del Giudice la decisione sul rito: non ho certezze in merito. Non credi anche tu?
    Avremmo bisogno di un legislatore più competente.
    Ciao,
    Federico

  2. Mirco Minardi

    @Federico: cmq considera che nella peggiore della ipotesi avrai perso qualche mese, ma anche “guadagnato” la discovery del tuo avversario che è sempre utile

  3. Federico

    E’ proprio questo il punto: credo che il sommario si debba fare soprattutto per “guadagnare” qualche mese sui tempi (sconfortanti) della Giustizia. Se invece devo rischiare di “perdere” qualche mese (per la conversione del rito), meglio rimandare il mio debutto nel sommario a quando avrò una causa documentale, e per il momento notificare una citazione. Tanto più che, nel mio caso, la controparte è una Compagnia di assicurazioni che ci sta provando: non ha nulla, solo la sua assicurata (senza testimoni) che nega la nostra versione -non sarebbe quindi neanche utile una discovery…
    Ciao,
    Federico

  4. Giuseppina

    buonasera
    l’ordinanza pubblicata dall’avv. Minardi, mi torna molto utile per portare avanti il processo che ho erroneamente incardinato avanti il Tribunale piuttosto che avanti al Giudice di Pace. Solo qualche dubbio da sciogliere prima di procedere ed è per questo che chiede a Lei avvocato i Suoi preziosi consigli.
    Sciogliendo la riserva il Giudice in composizione monocratica ha rilevato d’ufficio la propria incompetenza concedendo un termine ex art. 101 c.p.c. per depositare memorie contenenti osservazioni sulla questione rilevata d’ufficio.
    All’esito di una prima interpretazione dell’ordinanza pubblicata e una tentata associazione al mio caso, è possibile chiedere con le memorie ordinate dal Giudice chiedere la trasformazione del rito da sommario ad ordinario con la sola richiesta di ctu, considerando che l’istruttoria è solo documentale?
    In subordine posso chiedere che d’ufficio sia disposta translatio iudicii, con provvedimento di riassunzione innanzi al GdP?
    Grazie



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