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CLICCA QUIE’ abbastanza sorprendente che si continui a scrivere ricorsi per cassazione mediante l’inutile tecnica di assemblaggio di verbali, documenti, atti.
E’ quel che è accaduto nella vicenda decisa da Cass. 21524/2019, in cui si discuteva di una banale azione volta alla risoluzione per inadempimento di un contratto preliminare di vendita di un piccolo immobile.
Si legge nella ordinanza che il ricorso constava di oltre cento pagine. Nella mia esperienza, pur rispettando fedelmente il principio dell’autosufficienza, raramente si superano le 40 pagine. Personalmente preferisco non essere troppo sintetico nella esposizione sommaria del fatto, alla quale dedico solitamente 8/10 pagine, vista l’esistenza di un orientamento particolarmente rigoroso. Ma questa in genere include anche tutta la motivazione della sentenza impugnata (oltre che quella di primo grado nelle parti rilevanti) scomposta in proposizioni precedute dalla congiunzione “che”.
Nel caso di specie, invece, “i fatti di causa non vengono sommariamente esposti dal ricorrente, ma sono ricostruiti attraverso l’allegazione nel corpo del ricorso di copie di atti e documenti del giudizio di merito”.
Il principio di sinteticità fa ormai parte dell’ordinamento giuridico; la sua violazione comporta l’inammissibilità ogni qual volta non sia possibile ricostruire la vicenda processuale oppure comprendere il senso dei motivi di impugnazione.
1. – Preliminarmente, va rilevata l’inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 366 comma 1 n. 3 cod. proc. civ., in quanto il medesimo manca di una esposizione dei fatti della causa che consenta alla Corte di comprendere l’oggetto della pretesa e il tenore della sentenza impugnata in coordinamento con i motivi di censura (Cass., Sez. Un., n. 16628 del 17/07/2009; cfr. anche, Sez. Un., n. 5698 del 11/04/2012; Sez. 6 – 3, n. 22860 del 28/10/2014).
Com’è noto, l’art. 366 cod. proc. civ., nel dettare le condizioni formali del ricorso, ossia i requisiti di “forma-contenuto” dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, configura un vero e proprio “modello legale” del ricorso per cassazione, la cui mancata osservanza è sanzionata con l’inammissibilità del ricorso stesso. 1.2 Con particolare riferimento al requisito della «esposizione sommaria dei fatti della causa» (art. 366 n. 3 cod. proc. civ.), che deve avere ad oggetto sia i fatti sostanziali che i fatti processuali necessari alla comprensione dei motivi, va osservato che tale requisito è posto, nell’ambito del modello legale del ricorso, non tanto nell’interesse della controparte, quanto in funzione del sindacato che la Corte di cassazione è chiamata ad esercitare e, quindi, della verifica della fondatezza delle censure proposte.
Esiste pertanto un rapporto di complementarità tra il requisito della «esposizione sommaria dei fatti della causa» di cui n. 3 dell’art. 366 cod. proc. civ. e quello – che lo segue nel modello legale del ricorso – della «esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione» (n. 4 dell’art. 366 cod. proc. civ.), essendo l’esposizione sommaria dei fatti funzionale a rendere intellegibili, da parte della Corte, i motivi di ricorso di seguito formulati.
In altri termini, secondo il “modello legale” apprestato dall’art. 366 cod. proc. civ., la Corte di cassazione, prima di esaminare i motivi, dev’essere posta in grado, attraverso una riassuntiva esposizione dei fatti, di avere contezza sia del rapporto giuridico sostanziale originario da cui è scaturita la controversia, sia dello sviluppo della vicenda processuale nei vari gradi di giudizio di merito, in modo da poter procedere poi allo scrutinio dei motivi di ricorso munita delle conoscenze necessarie per valutare se essi siano deducibili e pertinenti; valutazione – questa – che è possibile solo se chi esamina i motivi sia stato previamente posto a conoscenza della vicenda sostanziale e processuale in modo complessivo e sommario, mediante una “sintesi” dei fatti che si fondi sulla selezione dei dati rilevanti e sullo scarto di quelli inutili.
Perciò, il difensore chiamato a redigere il ricorso per cassazione – che, per legge, dev’essere un professionista munito di quella particolare specializzazione attestata dalla sua iscrizione nell’albo speciale dei patrocinanti in Cassazione – deve procedere ad elaborare autonomamente “una sintesi della vicenda fattuale e processuale”, selezionando i dati di fatto sostanziali e processuali rilevanti (domande, eccezioni, statuizioni delle sentenze di merito, motivi di gravame, questioni riproposte in appello, etc.) in funzione dei motivi di ricorso che intende formulare, in modo da consentire alla Corte di procedere poi allo scrutinio di tali motivi disponendo di un quadro chiaro e sintetico della vicenda processuale, che le consenta di cogliere agevolmente il significato delle censure, la loro ammissibilità e la loro pertinenza rispetto alle rationes decidendi della sentenza impugnata.
1.3 L’esposizione sommaria dei fatti della causa, per essere funzionale alla comprensione dei motivi, dev’essere “sintetica”, come si evince dal richiamo al suo carattere “sommario”, già preteso dal codificatore del 1940.
La “sintesi” degli atti processuali costituisce oggi un vero e proprio “valore”, che va assumendo importanza crescente nell’ordinamento italiano. Basti pensare a quanto previsto dall’art. 3, n. 2, del codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 4 Ric. 2015 n. 18989 sez. S2 – 2010, n. 104), con riferimento all’obbligo di redigere gli atti «in maniera chiara e sintetica»; basti pensare al ruolo sempre maggiore assegnato – con riguardo ai provvedimenti del giudice – all’ordinanza decisoria, motivata in modo «succinto» e «conciso» (artt. 134 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ.), rispetto alla sentenza.
1.4 Nel caso di specie la parte del ricorso intitolata “ANTEFATTO PROCESSUALE” e “FATTO PROCESSUALE” si risolve nella mera allegazione di atti del processo, verbali di udienza e documenti senza assolvere l’onere di offrire una chiara e sintetica esposizione dei fatti della causa.
Il ricorso, infatti, consta di più di cento pagine di cui, come si è detto, la maggior parte rappresentati dalla alluvionale riproposizione di stralci di atti processuali e documenti, mediante i quali, in sostanza, il ricorrente pretende di riversare in sede di legittimità il contenuto dei gradi di merito del presente giudizio.
Tale tecnica redazionale non è compatibile con i principi sopra esposti che definiscono le modalità di introduzione del giudizio di legittimità sulla base del disposto dell’articolo 366 c.p.c. come interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte.
1.5 Risulta pertanto palese la violazione dei principi di sinteticità e chiarezza del ricorso. In relazione a tali principi questa Corte ha già avuto modo di affermare, con la sentenza n. 17698/14, che il mancato rispetto del dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva espone il ricorrente per cassazione al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, in quanto esso collide con l’obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo, tendente ad una decisione di merito, al duplice fine di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, comma secondo, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU, 5 Ric. 2015 n. 18989 sez. 52 nonché di evitare di gravare sia lo Stato che le parti di oneri processuali superflui Detta violazione, infatti, rischia di pregiudicare la intelligibilità delle questioni sottoposte all’esame della Corte, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e quindi, in definitiva, ridondando nella violazione delle prescrizioni assistite dalla sanzione testuale di inammissibilità, di cui ai nn. 3 e 4 dell’articolo 366 c.p.c.
Ciò è quanto appunto si verifica nel caso in esame, nel quale i fatti di causa non vengono sommariamente esposti dal ricorrente, ma sono ricostruiti attraverso l’allegazione nel corpo del ricorso di copie di atti e documenti del giudizio di merito.
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