Il sindacato della Corte di Cassazione sulla valutazione imprudente della prova

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Di Mirco Minardi

Trascrizione della relazione tenuta l’11 ottobre 2019 a Bologna

 

Il titolo della mia relazione è “Il sindacato della Corte di Cassazione sulla valutazione imprudente della prova”. Ora, se noi accordassimo un fondamento a quel che afferma la Corte la mia relazione dovrebbe durare non dieci minuti, bensì dieci secondi, in quanto è noto a tutti il principio secondo cui la S.C., quale giudice di legittimità, non può sindacare il modo in cui il giudice di merito ha valutato la prova libera, trattandosi di accertamento di fatto insindacabile. Al limite è possibile controllare la logicità e razionalità della motivazione, come se fossero entità distinte. Un motivo che sfacciatamente si spingesse a chiedere questa indagine verrebbe dichiarato inammissibile prima ancora che infondato.

Chi vi parla, però, da circa tre anni trascorre mediamente una/due ore al giorno nella banca dati della Suprema Corte, leggendo ogni mese centinaia e centinaia di sentenze con un solo scopo: capire come si scrive un ricorso per cassazione. Questa frequentazione quotidiana mi ha insegnato una cosa: mai fidarsi ciecamente di quel che dice la Corte. Ogni principio va sempre sottoposto a verifica. In particolare, va verificata: (a) la coerenza tra il principio affermato e la prassi effettiva e (b) la natura assoluta o relativa del principio.

Ad esempio, è costantemente ripetuto che il giudizio sulla attendibilità di un testimone appartiene in via esclusiva al giudice di merito. Quindi, per riprendere l’esempio che faceva il BIGIAVI, se il giudice affermasse la buona fede di un testimone per il modo in cui teneva la penna al momento della firma del verbale, ciò sarebbe insindacabile dalla S.C.? No, perché la Corte direbbe che la motivazione è viziata e l’art. 116 c.p.c. non verrebbe comunque in gioco.

Cerchiamo di capire perché.

Il principio del libero convincimento

Un primo ostacolo è dato dal fardello del principio del libero convincimento che si troverebbe consacrato, per usare le parole del SATTA, nell’art. 116 c.p.c., anche se poi lo stesso SATTA scriveva che del 116 c.p.c. “si sentiva davvero ben poco il bisogno”.

In realtà, per quanti sforzi si possano fare, non è possibile trovare nell’art. 116 c.p.c. la dimostrazione che l’ordinamento processuale sia improntato sul libero convincimento del giudice, come invece ripetutamente affermato dalla Suprema Corte, forse ancora incantata dalla relazione che CALAMANDREI scrisse per il Ministro Grandi in cui in effetti si legge “romano è il principio che la prova è diretta a formare il libero convincimento del giudice”.

Anzitutto, come ha osservato PUNZI, se osserviamo il codice civile la libera valutazione rappresenta l’eccezione più che la regola, visto che davvero tante sono le norme che il giudice è tenuto ad osservare in materia di valutazione della prova.

In secondo luogo, l’art. 116 c.p.c. stabilisce che il giudice valuta la prova secondo il suo «prudente apprezzamento». Libertà e prudenza sono tutt’altro che sinonimi, non solo nell’esperienza giuridica, ma anche nell’esperienza di tutti i giorni: ad un figlio neopatentato non gli si dice “sentiti libero”, bensì “sii prudente”.

Nel 1974 MARIO NOBILI scriveva nella sua monografia dedicata al principio de quo che “a forza di vantare con dogmatica sicurezza il principio del libero convincimento come fondamento imprescindibile del sistema, da troppo tempo se ne trascura l’approfondimento critico, con la conseguenza di una grande varietà di significati e soprattutto di una immagine equivoca della libertà del giudice”.

MICHELE TARUFFO, da parte sua, ha affermato che libero convincimento è “una espressione vaga e nebulosa” e, aggiungo io, pericolosa, perché può davvero indurre il giudice a credere che sia libero di formarsi il proprio convincimento.

Il principio de quo, a meno di intenderlo in maniera del tutto diversa dal senso letterale, non solo non trova nell’art. 116 c.p.c. la sua base di riferimento, ma non la trova in nessuna norma del codice, per la semplice ragione che nel nostro ordinamento e sottolineo nostro, il giudice non è affatto libero di formarsi il convincimento:

  • può il giudice affermare che nonostante i testimoni abbiano totalmente confermato in maniera coerente i fatti allegati dall’attore, qualcosa dentro di lui gli dice che le cose siano andate diversamente?
  • può il giudice, nonostante il ctu abbia escluso che il farmaco sia stato somministrato in dosi eccessive e che abbia provocato la bradicardia e il successivo arresto cardiaco, dissentire in forza del suo intimo convincimento?
  • può il giudice, nonostante il DNA abbia escluso che Tizio sia il padre di Caio, affermare il contrario perché i nasi di Tizio e Caio sono straordinariamente simili?
  • può il giudice in forza della suo libero convincimento ritenere provato un fatto anche se gli elementi presuntivi non sono gravi precisi e concordanti?

Mi fermo qui, ma potrei andare avanti ancora per molto.

Il “sentimento della certezza morale della verità” di cui parlava il MATTIROLO appartiene ad un lontano passato ed ha osservato giustamente il consigliere MICHELE CANTILLO, nella monografia dedicata al giudizio di Cassazione, che più la società si evolverà in senso tecnologico meno spazio ci sarà per il libero convincimento. Ed era il 1998.

In realtà, il giudice civile italiano è tenuto ad adottare un vero e proprio metodo per la valutazione dei fatti giuridicamente rilevanti; ed in questo metodo si racchiude la prudenza di cui parla l’art. 116 c.p.c. che si sostanzia nell’uso di criteri logico razionali (che si basano sulle regole di completezza, coerenza, congruenza) e di massime di esperienza realmente esistenti e condivise in un certo momento storico.

In sintesi: il prudente apprezzamento è una clausola generale, come tante altre, richiamata da una norma giuridica. Violare quel canone, significa violare la norma giuridica che quel canone richiama.

Conserva il giudice una certa libertà? Certamente, ma anche i carcerati, pur nella restrizione, hanno una certa quantità di libertà, ma nessuno direbbe che il carcerato è un uomo libero.

Liberiamoci dunque del principio del libero convincimento e sposiamo quello positivo del prudente apprezzamento di cui parla l’art. 116 c.p.c. per tutte le prove libere, e l’art. 2729 c.c. per le prove indirette, critiche, indiziarie che dir si voglia.

 

Il prudente apprezzamento nella giurisprudenza della Suprema Corte

Si è però già accennato che il rapporto della Suprema Corte con la clausola generale del “prudente apprezzamento” è un pessimo rapporto.

Non pensiate di andare in Corte a denunciare la violazione dell’art. 116 perché il consigliere relatore non farà altro che cliccare su “inserisci macro” e scriverà una cosa di questo tipo: In tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione. Cassazione civile , sez. VI , 17/01/2019, n. 1229

Di sindacato sulla valutazione imprudente non si parla. Perché?

Poco fa ho parlato del condizionamento del principio del libero convincimento, ma c’è un altro fattore da tenere in considerazione. Per la verità ce ne sarebbero altri, purtroppo per motivi di tempo non possiamo esaminarli tutti.

Il secondo fattore consiste in un errore di fondo ed è quello di ritenere che la «valutazione della prova» sia altro rispetto alla «motivazione sulla questione di fatto».

GIOVANNI VERDE scriveva che «separare la questione di fatto da quella di diritto è come separare la carne dal sangue in modo indolore in un organismo vivente». Ispirandomi a lui, io dico che «separare la valutazione della prova dalla motivazione in fatto della sentenza è come cercare di separare i globuli rossi dai globuli bianchi con le mani». E’ impossibile separare la valutazione della prova dalla motivazione in fatto della sentenza.

Quando fino al 2012 si parlava di motivazione omessa, insufficiente, contraddittoria si parlava anche e soprattutto di valutazione della prova omessa, insufficiente e contraddittoria.

E il risultato cui perveniva la giurisprudenza della cassazione non era poi così diverso rispetto a quello della dottrina: valutazione prudente significava valutazione fatta secondo criteri logico razionali, facendo uso di massime di esperienza vere, accettate dalla comunità in un certo momento storico.

Di conseguenza costituiva valutazione imprudente quella illogica, contraddittoria, insufficiente, parziale, irragionevole, congetturale, apodittica, incomprensibile, insostenibile.

Facciamo qualche esempio di regole generali di prudenza ricavate dalla giurisprudenza:

  • il giudice non può tralasciare la valutazione di prove decisive (questa regola è oggi espressamente codificata nel n. 5 dell’art. 360 c.p.c.);
  • gli elementi di fatto di una presunzione si valutano in modo sintetico e non analitico;
  • il giudice non può considerare la presunzione una prova di rango inferiore;
  • l’inverosimiglianza di un fatto non rende di per sé inattendibile la testimonianza;
  • il giudice non può stravolgere arbitrariamente la dichiarazione del teste o della parte, attribuendo un significato completamente diverso da quello fatto proprio dalle parole;
  • il giudice non può ritenere aprioristicamente falsa una testimonianza solo perché resa da uno stretto congiunto, dal coniuge, da un amico o da un dipendente della parte;
  • il giudice non può dissentire dalle logiche conclusioni tecnico-scientifiche del CTU se non con contro-argomenti dello stesso tipo;
  • il giudice deve sincerarsi che il ctu abbia risposto alle osservazioni critiche, specifiche e potenzialmente decisive sollevate dai CTP;
  • le massime di esperienza devo essere condivise dalla società o da una più ristretta comunità in un determinato momento storico;
  • non sono massime di esperienza quelle che hanno carattere particolare;
  • le massime di esperienza non possono essere scambiate con le congetture;

e così via.

La modifica del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. avvenuta nel 2012 nella sostanza non ha cambiato nulla, come aveva previsto il Prof. BOVE.

Al di là delle proclamazioni delle Sezioni Unite e delle sezioni semplici, ad ascoltar le quali parrebbe essere valida una sentenza insufficiente, i vizi che si facevano valere prima si fanno valere oggi e le sentenze che venivano cassate prima, vengono cassate oggi e come non venivano cassate prima non vengono cassate oggi.

Non fatevi fuorviare dalle massime che affermano che è sparito il controllo sulla motivazione in fatto se non nel caso di omesso esame di un fatto decisivo. Semplicemente c’è stata una ridistribuzione dei vizi tra i motivi di cui ai numeri 3, 4 e 5 dell’art. 360 c.p.c. ed anche questo era stato anticipato dal Prof. BOVE; così:

  • il sindacato sulle presunzioni è stato diviso; una parte è andato sotto il n. 3 come violazione o falsa applicazione di diritto, una parte è rimasta nel 5 come omesso esame di un fatto;
  • tutto ciò che prima rientrava nella insufficienza, intesa come apparenza, illogicità, contraddizione della motivazione è andato sotto il n. 4 e oggisi fa valere come nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c.;
  • il rigetto della domanda per mancanza di prova, dopo aver ingiustamente rigettato la richiesta di prova, dopo le modifiche del 2012 è stata considerata una ipotesi di motivazione contraddittoria da far valere in relazione al n. 4;
  • l’omesso esame delle conclusioni del CTU è rimasto nel n. 5, come pure è rimasto nel n. 5, ovviamente, l’omesso esame di un fatto decisivo.

Ritorniamo però alla questione della motivazione in rapporto con la valutazione della prova.

Il fatto che la motivazione inglobi la valutazione sulla prova non significa che perda di significato l’art. 116 e ciò per due ragioni:

1) è tutto da dimostrare che l’art. 132 n. 4 c.p.c., là dove obbliga il giudice ad indicare le concise ragioni di fatto, intenda come requisito a pena di nullità anche la logicità, razionalità e ragionevolezza della motivazione in fatto;

2) in secondo luogo, il vizio di motivazione non copre tutto. Si supponga che il giudice di merito abbia accordato maggiore credibilità ad un teste per le fattezze del suo viso, e quindi per la dimensione e la proporzione del naso, della bocca, degli occhi. Il primo istinto è quello di pensare che una sentenza del genere sarebbe cassata per assenza di una valida motivazione. Si supponga però che il giudice giustifichi questa conclusione con quattro pagine di motivazione, ricche di riferimenti agli studi di fisiognomica, partendo da Aristotele e Ippocrate, passando per Pomponio Gaurico, Giambattista della Porta, Johan Kaspar Lavater, per arrivare alla morfopsicologia di Luis Cornan del secolo scorso. Qui non siamo di fronte ad una motivazione illogica o apparente, ma ad una motivazione che si fonda su quella che oggi viene definita una pseudo-scienza o quanto meno una disciplina non generalmente condivisa. Affermare la nullità di una sentenza di questo tipo, sul presupposto che l’art. 132 n. 4 implicherebbe il dovere per il giudice di rendere una motivazione basata su discipline accettate dalla collettività, mi pare francamente una manifesta forzatura.

Ecco dunque che in questi casi soccorre la clausola generale dell’art. 116 c.p.c., che invece, facendo riferimento alla prudenza, richiama criteri di valutazione generalmente condivisi.

Conclusione

Dopo il 2012 l’uso da parte degli avvocati dell’art. 116 c.p.c. nei motivi di ricorso è raddoppiato. Il che è abbastanza ovvio: quale norma migliore di questa per censurare gli errori sulla valutazione della prova? Purtroppo però, sono raddoppiate anche le pronunce di inammissibilità sotto tale profilo, perché i tempi non sono ancora maturi per un pieno riconoscimento dell’art. 116 c.p.c..

Non è un grosso problema; ogni cassazionista esperto sa che in questo caso, come non di rado accade, i motivi si dovranno far passare dalla finestra, non dalla porta principale di P.za Cavour.

 

 


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Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.

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