Estratto dalla rassegna 2021 dell’Ufficio del Massimario – Cons. dott. Salvatore Saija. Clicca qui per la prima parte.
In questo quadro interpretativo, sono intervenute le tre coeve sentenze della Corte EDU, pubblicate il 28 ottobre 2021 (note come “Succi ed altri contro Italia”, nn. 55064/11, 37781/13 e 26049/14). Nel rinviare, per maggiori approfondimenti, alla Relazione tematica di questo Ufficio n. 116/2021 (Red. D’Ovidio), può qui rilevarsi che i giudici di Strasburgo hanno ritenuto in linea di principio legittimo e del tutto coerente con l’art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo il principio di autosufficienza, come elaborato dalla giurisprudenza, mirando esso a semplificare l’attività della Corte di cassazione e a garantire, al contempo, la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia.
Tuttavia, la stessa Corte EDU ha chiaramente affermato che detto principio, nella sua applicazione concreta, può mantenere la sua legittimità ove si attenga alla proporzionalità delle restrizioni, rispetto al suo scopo legittimo, occorrendo in particolare tenere presente due fattori: 1) che l’applicazione concreta del principio non riveli un eccessivo formalismo, non congruente rispetto allo scopo legittimo; 2) che la restrizione sia prevedibile.
A questa stregua, la Corte di Strasburgo, pur dando atto di un progressivo adeguamento a tali esigenze, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, a partire dal 2012, ha tuttavia ritenuto non coerente con i suddetti fattori, perché affetto da eccessivo formalismo, quell’orientamento che tutt’ora esige la trascrizione dei documenti o degli atti su cui si fonda il motivo, oltre alla loro indicazione e “localizzazione”, nei termini di cui all’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c.
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Al contempo, la stessa Corte EDU ha invece ritenuto compatibile con l’art. 6 della Convenzione una perimetrazione del principio di autosufficienza che ne comporti l’applicabilità, ai fini della declaratoria di inammissibilità, al ricorso privo di puntuali riferimenti ai documenti presenti nei fascicoli dei giudizi di merito.
Nello stesso tempo, la Corte EDU ha ritenuto del tutto compatibile con l’art. 6 della Convenzione quella giurisprudenza che, avuto riguardo alla esposizione dei fatti di causa (art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c.), richiede un’attività di sintesi e chiarezza, occorrendo selezionare i fatti alla luce delle censure che si intendono svolgere, riassumendo gli aspetti rilevanti del procedimento di merito.
Pare opportuno, a tal punto, trascrivere testualmente le conclusioni di cui alla citata Relazione tematica, perché senz’altro utili sia a fare il punto, sulle questioni già trattate, sia a costituire una base di riflessione avanzata per quanto ancora occorre esaminare.
“5.4. Sintesi delle rispondenze e dissonanze dell’attuale giurisprudenza della Corte di Cassazione con i principi affermati nella sentenza della CEDU del 28 ottobre 2021 (Succi ed altri contro Italia).
a) Viola l’art. 6 della Convenzione, in quanto affetto da eccessivo formalismo e non prevedibile, quell’orientamento di una parte della giurisprudenza di legittimità che impone l’onere della integrale trascrizione degli atti o documenti di causa su cui il motivo si fonda.
b) Non viola l’art. 6 della Convenzione l’interpretazione giurisprudenziale, univoca sul punto, che attribuisce al ricorrente l’onere di “localizzare” gli atti ed i documenti su cui il motivo si fonda, inteso come onere di allegazione e indicazione dei riferimenti utili al reperimento del documento originale nei fascicoli del processo di merito.
c) Non viola l’art. 6 della Convenzione l’interpretazione giurisprudenziale, univoca sul punto, che attribuisce al ricorrente l’onere della esposizione sommaria dei fatti, intesa come un’attività di sintesi e chiarezza, la quale implica uno sforzo da parte dell’avvocato di selezionare i fatti alla luce delle censure che intende svolgere.
d) Non viola l’art. 6 della Convenzione la giurisprudenza di legittimità sul cd. “assemblaggio”, in particolare nel suo orientamento più recente, il quale sembra essersi stabilizzato nel senso di dichiarare l’inammissibilità del ricorso in cui siano stati “assemblati” atti o documenti solo quando il motivo non possa essere ricondotto al canone di sinteticità, nel rispetto del principio di autosufficienza, inteso nel suo scopo legittimo.
e) Non violano l’art. 6 della Convenzione quelle interpretazioni giurisprudenziali delle regole redazionali dei ricorsi per cassazione che, prescindendo dal rigore formalistico, portano a ritenere ammissibile il motivo nei casi in cui esso sia comunque in grado di consentire il raggiungimento dello scopo suo proprio, consistente nell’identificazione della violazione che si assume viziare la sentenza e che fonda la richiesta di annullamento.
Meritano una riflessione alla luce della sentenza Succi e altri c/Italia, sotto il profilo della loro compatibilità con i criteri di prevedibilità e di proporzionalità rispetto alla inammissibilità che ne può conseguire, le disomogeneità della giurisprudenza interna, come sopra evidenziate, in tema di:
1) ammissibilità o meno della esposizione sommaria dei fatti insieme ai motivi;
2) necessità o meno della esplicita indicazione delle norme di legge violate;
3) ammissibilità o meno dei motivi cd. “misti”.
Ciò posto, dopo la pubblicazione delle tre sentenze della Corte di Strasburgo (che, è bene evidenziarlo, in un solo caso hanno statuito la condanna dello Stato italiano per violazione dell’art. 6 della Convenzione, peraltro in fattispecie in cui, come anche osservato da attenta dottrina, il ricorrente avrebbe ben potuto attingere all’impugnazione straordinaria della revocazione per errore di fatto), sono anche intervenute le Sezioni Unite (Sez. U, n. 37552/2021, Giusti, Rv. 662971-01), che – alle prese con un ricorso avverso una sentenza della Corte dei conti di quattordici pagine, fondato su un solo motivo ed articolato in oltre novanta pagine, con testo complessivo caratterizzato da una eccessiva e non necessaria lunghezza e da una certa farraginosità dell’esposizione – ha affermato che il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; tuttavia l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.
Nella specie, dunque, la S.C. ha respinto l’eccezione di inammissibilità del ricorso, in quanto esso, nonostante le riportate anomalie, consentiva di comprendere lo svolgimento della vicenda processuale e di individuare con chiarezza le censure rivolte alla sentenza impugnata.
Per quanto concerne la specificità dei motivi di ricorso, requisito prescritto dall’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., va anzitutto segnalata Sez. 5, n. 00342/2021, Galati, Rv. 660233-01, che ha affermato che l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, prescritto qualunque sia il tipo di errore (in procedendo o in iudicando) per cui è proposto, non può essere assolto per relationem con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata.
Ancora sul piano generale, Sez. 1, n. 00995/2021, Lamorgese, Rv. 660378-01, ha affermato che la censura svolta dal ricorrente che lamenti la mancata applicazione del criterio di interpretazione letterale, per non risultare inammissibile deve essere specifica, dovendo indicare quale sia l’elemento semantico del contratto che avrebbe precluso l’interpretazione letterale seguita dai giudici di merito e, al contrario, imposto una interpretazione in senso diverso; nel giudizio di legittimità, infatti, le censure relative all’interpretazione del contratto offerta dal giudice di merito possono essere prospettate solo in relazione al profilo della mancata osservanza dei criteri legali di ermeneutica contrattuale o della radicale inadeguatezza della motivazione, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, mentre la mera contrapposizione fra l’interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta dai giudici di merito non riveste alcuna utilità ai fini dell’annullamento della sentenza impugnata.
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