Abstract. In questo articolo affronto l’esame della pronuncia della S.C. n. 25816/2011 raffrontandola con l’art. 30 del codice deontologico forense. Difatti, mentre la Cassazione nella suddetta sentenza afferma che l’individuazione del soggetto tenuto al pagamento del domiciliatario (sia o non sia co-procuratore) incaricato dal dominus dipende in concreto da come si è concluso il contratto di mandato, al contrario l’art. 30 del codice deontologico afferma che primo soggetto tenuto al pagamento del domiciliatario (sia o non sia co-procuratore) incaricato dal collega sia il cliente, salva l’obbligazione sussidiaria del dominus, qualora il cliente sia inadempiente e comunque con esonero di responsabilità qualora il dominus si sia attivato verso il cliente per far conseguire quanto spettante al collega. In questo articolo giungerò alla conclusione che la norma deontologica in esame si applica solo ai casi in cui il dominus abbia agito in rappresentanza (originaria o successivamente ratificata) del cliente, mentre non si applica laddove nel caso concreto il cliente sia rimasto estraneo alla nomina, anche qualora abbia rilasciato la procura all’avvocato domiciliatario.
Molto spesso quando occorre compiere attività giudiziale al di fuori del circondario di appartenenza, il dominus si incarica di ricercare ed incaricare un collega domiciliatario. Talvolta, peraltro, l’incarico è più pregnante in quanto il domiciliatario viene inserito anche nella procura e dunque diviene co-procuratore a tutti gli effetti.
In questi casi, si tratta di stabilire chi sia tenuto a pagare il compenso del domiciliatario (sia o non sia co-procuratore), cioè se l’obbligo gravi sul dominus ovvero sul cliente.
La recente sentenza della Cassazione n. 25816/2011, di seguito allegata, fa il punto della situazione. Questo il caso.
Un avvocato co-procuratore e domiciliatario aveva chiesto ed ottenuto un decreto ingiuntivo nei confronti del collega dominus, il quale aveva indicato nel cliente l’unico debitore, stante il conferimento congiunto della procura. L’opposizione era stata accolta in primo grado, ma respinta in appello. La causa giunge dunque in Cassazione su ricorso del dominus soccombente in secondo grado, ma la sentenza di appello viene confermata. Il ragionamento del giudice del gravame, confermato dalla Corte di Cassazione, è questo.
Obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore per l’opera professionale richiesta, se ed in quanto la stessa sia stata svolta, non è necessariamente colui che ha rilasciato la procura alla lite, potendo anche essere colui che abbia affidato al legale il mandato di patrocinio, anche se questo sia stato richiesto e si sia svolto nell’interesse di un terzo. In tal caso, infatti, collateralmente al rapporto con la parte che ha rilasciato la procura ad “ad litem“, si instaura un altro distinto rapporto interno ed extraprocessuale regolato dalle norme di un ordinario mandato, in virtù del quale la posizione del cliente viene assunta non dal patrocinato ma da chi ha richiesto per lui l’opera professionale.
Occorre dunque stabilire, in concreto, se il mandato di patrocinio provenga dalla stessa parte rappresentata in giudizio, o invece da un altro soggetto (il dominus) che abbia perciò assunto a proprio carico l’obbligo del compenso.
Osserva la Corte che molto spesso il cliente intende mantenere il rapporto con il solo dominus, conferendo al legale dell’altro foro soltanto la procura tecnicamente necessaria all’espletamento della rappresentanza giudiziaria. In tali casi il mandato di patrocinio in favore di quest’ultimo non proviene dalla parte medesima, bensì dal primo professionista che ha individuato e contattato il legale del foro della causa e sul quale graverà perciò l’obbligo di corrispondere il relativo compenso.
Peraltro, può anche verificarsi che la parte abbia inteso direttamente conferire ad entrambi i legali il mandato di patrocinio (oltre che la procura ad litem), o che abbia comunque inteso conferirlo anche al legale del foro della causa, per il tramite del professionista della città di sua residenza, potendo ben accadere che quest’ultimo commissioni l’incarico professionale al collega non solo per conto, ma anche in nome della parte rappresentata.
In tale seconda ipotesi è la parte ad essere tenuta al pagamento del compenso professionale e non invece il dominus e ciò per il noto principio secondo cui gli effetti del negozio compiuto dal rappresentante in nome e per conto del rappresentato si producono unicamente nella sfera giuridica di quest’ultimo.
Pertanto, occorre accertare di volta in volta in quale situazione si verta.
Nel caso in esame, ad avviso della S.C. la sentenza di appello, partendo dalla corretta affermazione circa la astratta distinzione fra contratto di patrocinio e procura alle liti e della presunzione di coincidenza in assenza di elementi contrari, aveva analizzato compiutamente il complessivo materiale probatorio acquisito giungendo motivatamente alla conclusione che nella specie:
a) il mandato di patrocinio si era perfezionato esclusivamente fra l’opponente e l’opposto, scelto dal primo quale procuratore domiciliatario per il giudizio che il medesimo aveva intenzione di promuovere presso il Tribunale di quella città nell’interesse del cliente;
b) l’assunzione da parte dell’opposto della rappresentanza processuale era strumentale per l’espletamento dell’incarico di procuratore;
c) il contatto fra l’opposto e il cliente era avvenuto per la identificazione del terzo, essendo quest’ultima necessaria per la autentica della sottoscrizione.
I giudici d’appello avevano ritenuto concluso il contratto nel momento in cui il procuratore-domiciliatario aveva accettato l’incarico, una volta ricevuto l’atto di citazione con la procura già sottoscritta. La procura, dunque, non conteneva un mandato professionale ma era semplicemente funzionale alla difesa in giudizio.
Per tali motivi, il ricorso del dominus è stato rigettato, con conseguente conferma dell’obbligo di pagamento in favore del procuratore-domiciliatario.
Ciò significa che allorquando un dominus conferisce l’incarico ad un collega domiciliatario, occorre sempre specificare che egli agisce in nome e per conto del cliente, spendendo il relativo nome. In caso contrario, vi è il rischio che il mandato riguardi solo ed esclusivamente gli avvocati, essendo il cliente mero terzo beneficiario della prestazione del procuratore domiciliatario, quand’anche abbia poi rilasciato la procura ad litem.
Questo il diritto vivente. Ma cosa dice in proposito il codice deontologico? L’art. 30, intitolato “Obbligo di soddisfare le prestazioni affidate ad altro collega”, stabilisce che “l’avvocato che scelga e incarichi direttamente altro collega di esercitare le funzioni di rappresentanza o assistenza deve provvedere a retribuirlo, ove non adempia la parte assistita, tranne che dimostri di essersi inutilmente attivato, anche postergando il proprio credito, per ottenere l’adempimento”. La norma introduce dunque una responsabilità solidale e sussidiaria, alla quale il dominus può sottrarsi solo dimostrando di essersi attivato per ottenere l’adempimento, anche postergando il proprio credito.
Dunque, in base alla suddetta disposizione il procuratore-domiciliatario non può agire direttamente nei confronti del dominus, dovendo comunque preliminarmente chiedere l’adempimento al cliente e potendo rivolgersi al collega solo in caso di inadempimento del primo; e comunque il dominus può esentarsi dall’obbligo di pagamento qualora dimostri di essersi attivato per ottenere l’adempimento.
È evidente che questa disciplina parrebbe porsi in contrasto con quanto affermato dal diritto vivente. Si tratta allora di capire se debbano prevalere le regole sul mandato e sulla rappresentanza richiamate dalla Corte di Cassazione, ovvero se debba prevalere la norma deontologica.
La soluzione non può prescindere dalla corretta individuazione della natura giuridica della norma deontologica.
È noto che secondo un primo orientamento la norma deontologica doveva considerarsi meramente pattizia, essendo espressione di un potere di normazione secondaria spettante ad una autorità non statuale, non soggetta dunque al criterio interpretativo di cui all’art. 12 delle preleggi (ad esempio, Cass., sez. un., 10 luglio 2003, n. 10842, e Cass., sez. un., 3 maggio 2005, n. 9097).
In particolare, nella prima delle decisioni (Cass., sez. un., 10 luglio 2003, n. 10842, nella motivazione), la Corte ha affermato che “le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli ordini professionali, se non recepite direttamente da una norma di legge (ad esempio in materia di segreto professionale, tutelato anche nei confronti dell’autorità giudiziaria), non hanno né la natura né le caratteristiche di norme di legge, come tali assoggettabili al criterio interpretativo di cui all’art. 12 delle preleggi, ma sono espressione dei poteri di autorganizzazione degli ordini (o collegi) sì da ripetere la loro autorità – come evidenziato in dottrina – oltre che da consuetudini professionali anche da norme che i suddetti ordini (o collegi) emanano per fissare gli obblighi di correttezza cui i propri iscritti devono attenersi e per regolare la propria funzione disciplinare. Alla stregua di quanto ora detto, quindi, le suddette disposizioni vanno interpretate nel rispetto dei canoni ermeneutici fissati dagli artt. 1363 e ss. c.p.c.”.
Tuttavia, nel 2002 la S.C. ha stabilito che “le norme del codice deontologico approvate dal Consiglio nazionale forense il 17 aprile 1997 si qualificano come norme giuridiche vincolanti nell’ambito dell’ordinamento di categoria (Cass., sez. un., 6 giugno 2002, n. 8225), perché trovano appunto fondamento nei principi dettati dalla legge professionale forense”.
Questi argomenti sono stati successivamente ripresi in alcune decisioni del 2004, con le quali è stato affermato che questo è l’indirizzo “che si va delineando” nella giurisprudenza della Corte (così Cass., sez. un., 23 marzo 2004, n. 5776, secondo cui “nell’ambito della violazione di legge va compresa anche la violazione delle norme dei codici deontologici degli ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti agli albi, ma che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare”).
Così pure Cass. 14 luglio 2004, n. 13078 (con riferimento alla deontologia dei geometri), la quale ha affermato che la norma deontologica assume il rango di norma di diritto, “ne consegue che l’interpretazione della norma appartenente al codice deontologico costituisce una quaestio iuris, come tale prospettabile dinanzi al giudice di legittimità come violazione di legge, e non una quaestio facti, in ordine alla cui soluzione il sindacato della cassazione è limitato al controllo sull’esistenza e la legalità della motivazione”.
Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 20 dicembre 2007, n. 26810), le quali hanno ritenuto corretto l’orientamento non tradizionale per una serie dettagliata di ragioni: il Consiglio nazionale forense è un organo giurisdizionale; il giudizio avanti il Consiglio nazionale forense “si conclude con sentenza, pronunciata in nome del Popolo Italiano”; è la legge dello Stato che delega al Consiglio il potere normativo; le norme deontologiche sono la risultante di un processo di formazione legislativa e “assumono così, per volontà del legislatore, una funzione integrativa della norma legislativa in bianco”. Il principio affermato è dunque il seguente: “le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative di precetto legislativo, che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato, come tali interpretabili direttamente dalla corte di legittimità”.
Tuttavia, la natura giuridica di fonte normativa non elimina tutti i problemi, atteso che la norma deontologica non coinvolge solo i professionisti ma parrebbe riverberare i suoi effetti (sfavorevoli) anche sui clienti che, però, non sono soggetti alla sua applicazione. Come è possibile dunque ammettere che il cliente possa subire una conseguenza diversa e deteriore per effetto di una norma deontologica rispetto a quella prevista dalla legge? Difatti, l’art. 30 sembrerebbe rendere il cliente sempre e comunque primo soggetto obbligato del pagamento della parcella, anche quando l’iniziativa sia stata presa direttamente dal dominus.
A me pare evidente che per il cliente non può che prevalere la norma di legge e che quindi quella deontologica debba essere interpretata nel senso che in caso di nomina per rappresentanza, dunque con spendita del nome del rappresentato, ovvero in caso di successiva ratifica, l’obbligo del dominus di pagare la prestazione del domiciliatario (sia o non co-procuratore) sorge qualora il cliente non adempia e qualora il dominus non dimostri di essersi attivato per far ottenere il pagamento, anche posticipando il pagamento della la propria prestazione. Al contrario, laddove la nomina del domiciliatario (sia o non co-procuratore) sia avvenuta per iniziativa del dominus e dunque non vi sia stata né spendita del nome del rappresentato, né ratifica da parte del medesimo, deve ritenersi che unico soggetto obbligato del pagamento della prestazione svolta dal domiciliatario sia il dominus.
Questa conclusione ci pare l’unica compatibile con le norme in tema di mandato e di rappresentanza e, soprattutto, con la natura e l’efficacia giuridica della norma deontologica.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 5 ottobre – 2 dicembre 2011, n. 25816
Presidente Oddo – Relatore Migliucci
Svolgimento del processo
L’avv. G..T. di Aosta, premesso che in virtù di mandato ad negotia conferitogli dall’avv. A..M. di Monza, aveva svolto attività professionale nel giudizio – promosso ad istanza di M..B. e della Impresa 2BB s.r.l., in persona del medesimo B. , contro l’Impresa V. e P. con citazione redatta dal predetto avv. M. – chiedeva e otteneva decreto ingiuntivo nei confronti di quest’ultimo relativamente alla liquidazione delle competenze professionali dovute.
L’avv. M. proponeva opposizione avverso il decreto, sostenendo che il rapporto professionale era intercorso con il B. che aveva conferito la procura ad litem ad entrambi i professionisti ed era obbligato a pagare il relativo compenso; l’avv. T. non aveva svolto mera attività procuratoria e di semplice domiciliatario ma aveva sin dall’inizio rivestito la qualità di co-difensore del B. ; contestava sia l’an debeatur sia il quantum della pretesa azionata.
In via riconvenzionale chiedeva il risarcimento per il danno all’immagine cagionatogli dall’iniziativa giudiziaria intrapresa con la presentazione del ricorso per decreto ingiuntivo dal T. .
Con sentenza del 19 agosto 2004 il Tribunale di Aosta accoglieva l’opposizione al decreto che revocava ritenendo provato, alla stregua della procura rilasciata dal B. e della documentazione in atti, che l’incarico professionale era stato conferito all’avv. T. dal predetto B. ; respingeva la domanda riconvenzionale di danni, perché non provata.
Con sentenza dep. il 19 ottobre 2005 la Corte di appello di Torino, in riforma della decisione impugnata dall’avv. T. , rigettava l’opposizione al decreto ingiuntivo.
Dopo avere evidenziato la distinzione fra la procura alle liti e il mandato di patrocinio che peraltro di regola coincidono in assenza di elementi contrastanti, i Giudici di appello rilevavano che nella specie era risultato il conferimento dell’incarico da parte del M. all’avv. T. : dopo un primo contatto telefonico con lo studio di quest’ultimo e in assenza del medesimo, nel quale senza che fosse indicato il nominativo delle persone degli attori, era stata chiesta la sussistenza o meno di incompatibilità, il contratto di patrocinio si perfezionò quando – ricevuti gli atti e documenti necessari per l’inizio dell’azione fra cui l’atto di citazione redatto dal M. e da quest’ultimo tramessigli con la lettera 12-9-1990 – configurante proposta contrattuale – l’avv. T. , formulando con la lettera del 17-9-1990 riserve sul fondamento dell’azione proposta e dichiarando di sospendere la notificazione, mostrò la volontà di adempiere a quanto richiesto dal M. e, dunque di accettare la proposta: con la comunicazione di tale accettazione, si perfezionò fra le attuali parti il contratto di mandato stipulato, ex art. 1411 cod. civ., a favore del B. e della società 2B&B che in tal modo assumevano la qualità di terzi. E se tale ricostruzione non poteva essere inficiata dal conferimento da parte del B. della procura ad litem che era necessaria per l’espletamento dell’attività procuratoria – oggetto dell’obbligazione assunta con il contratto di patrocinio – così come in tal senso non potevano assumere rilievo i contatti intercorsi fra il B. e il T. , il conferimento dell’incarico direttamente da parte del M. era confermato dalle modalità in cui si svolse il rapporto e che escludevano l’esistenza di una parità di posizione fra i due legali, atteso che quest’ultimo – venuto a conoscenza dell’accettazione – impartì, proprio come nel caso del mandante, le direttive e le istruzioni necessarie, alle quali il T. si adeguò, avendo il M. – il quale solo condusse il processo – dimostrato di non accettare i rilievi mossi dal collega.
D’altra parte, fu il M. a inviare all’avv. T. personalmente un fondo spese, a ricevere da quest’ultimo e senza riserve la prima nota spese e a richiedergli la parcella, così dimostrando per fatti concludenti di ritenere che il pagamento gravasse su di sé. La parcella inviata dal T. al B. non poteva assumere rilevanza tenuto conto che nei confronti di questi la pretesa era inquadrabile nell’ipotesi di cui all’art. 2041 cod. civ., mentre contro il M. era esperibile l’azione contrattuale.
2. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione l’avv. M. sulla base di cinque motivi. Resiste con controricorso l’intimato.
Motivi della decisione
1.1. Con il primo motivo il ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1411 e 1362 e ss. cod. civ. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, censura la decisione gravata laddove aveva ritenuto l’esistenza di un contratto intercorso fra le parti e la sua qualificazione come contratto a favore del terzo; nell’interpretazione del contratto aveva omesso di considerare una serie di elementi in base ai quali si sarebbe dovuti pervenire a una diversa ricostruzione della volontà delle parti; erroneamente si era fatto riferimento all’ipotesi di cui all’art. 1411 cod. civ. non avendo le parti convenuto che fosse stato il terzo ad acquistare il diritto, mancavano l’interesse dello stipulante, così come la situazione di soli vantaggi a favore del terzo e la forma scritta ad substantiam prevista dall’art. 83 cod. proc. civ..
Nella specie, il M. si era limitato a spedire l’atto di citazione in rappresentanza del B. e, d’altra parte,la circostanza che il T. aveva invitato quest’ultimo a rivolgersi al M. confermava che non si versava nel contratto a favore del terzo che acquista il diritto contro il promittente il quale è la parte obbligata nei suoi confronti. Né il M. né il T. avevano mai inteso concludere un siffatto contratto.
1.2. Con il secondo motivo il ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt.1703 cod. civ. 83 cod.proc. civ. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, censura la sentenza che, senza suffragare l’affermazione del contratto intercorso fra le parti, non aveva precisato se tale contratto fosse l’unico ovvero se, come ritenuto dalla S.C., lo stesso sia affiancato al rapporto con la parte che abbia rilasciato la procura nella specie, in presenza della procura rilasciata dal B. al T. , fra questi ultimi era intervenuto un contratto relativo alle prestazioni per le quali il codice richiede il rilascio di un mandato nelle forme di cui all’art. 83 citato. La Corte avrebbe dovuto verificare l’esistenza e l’oggetto del rapporto B. – T. , accertando l’espletamento da parte del professionista di quelle attività per le quali era stata conferita la procura alle liti e per le quali il compenso era dovuto dalla parte rappresentata.
1.3. Con il terzo motivo il ricorrente, lamentando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, censura la sentenza laddove aveva ritenuto che fra le parti era intercorso un contratto di mandato quando, come affermato dal Tribunale, le attività espletate dall’avv. T. erano state poste in essere in esecuzione dell’unico mandato conferito dal B. ad entrambi i difensori con la procura alle liti; erroneamente era stata al riguardo data rilevanza al diverso ruolo che nella gestione della lite avrebbero avuto i due professionisti, ruolo che non poteva assumere rilievo per l’individuazione del soggetto che aveva conferito l’incarico.
La sentenza aveva ritenuto l’esistenza di un unico incarico senza esaminare gli atti trasmessi dal collega (atto di citazione e procura in atti) in modo da verificare se il mandato era stato conferito direttamente dal B. , come invece era emerso dalle altre risultanze processuali, tenuto conto che il B. sottoscrisse la procura e che tale sottoscrizione venne autenticata dall’avv. T. alla presenza del primo in data 14-9-1990, ovvero prima dell’invio di quella lettera che rappresenterebbe, secondo la Corte, l’accettazione della proposta che sarebbe stata dal M. formulata con la missiva del 12-9-1990;
Non era stata esaminata la documentazione dalla quale erano risultati gli incontri avuti dall’avv. T. con i B. , l’attività e la condotta del medesimo legale. L’esistenza del mandato conferito dal B. era dimostrata dalla corrispondenza intercorsa fra i due legali.
1.4. Il quarto motivo, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1387,1703 e ss. cod. civ. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia deduce che, anche ove si fosse ritenuta l’esistenza di un mandato intercorso fra i due difensori, la spedizione dell’atto di citazione sottoscritto dal B. e il rilascio della procura ivi apposta ai due legali comportava che il M. avesse agito quale mandatario con rappresentanza del predetto B. , tenuto conto che la spendita del nome del rappresentato può avvenire anche per facta concludentia.
1.5. Il primo, il secondo, il terzo e il quarto motivo che, per la stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente – sono infondati.
Occorre premettere che obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore per l’opera professionale richiesta, se ed in quanto la stessa sia stata svolta, non è necessariamente colui che ha rilasciato la procura alla lite, potendo anche essere colui che abbia affidato al legale il mandato di patrocinio, anche se questo sia stato richiesto e si sia svolto nell’interesse di un terzo, instaurandosi in tale ipotesi, collateralmente al rapporto con la parte che abbia rilasciato la procura ad “ad litem”, un altro distinto rapporto interno ed extraprocessuale regolato dalle norme di un ordinario mandato, in virtù del quale la posizione del cliente viene assunta non dal patrocinato ma da chi ha richiesto per lui l’opera professionale. Peraltro è da stabilire, in concreto, se il mandato di patrocinio provenga dalla stessa parte rappresentata in giudizio, o invece da un altro soggetto che abbia perciò assunto a proprio carico l’obbligo del compenso. Ed invero non è infrequente che una parte, la quale debba essere rappresentata e difesa in un giudizio destinato a svolgersi in una città diversa da quella della propria residenza, non conoscendo legali di quel foro, si rivolga ad un professionista della propria città, e che sia poi quest’ultimo a metterla in corrispondenza con un legale del foro ove deve aver luogo il processo, al quale (talvolta congiuntamente con il legale con cui ha rapporto diretto) la parte medesima conferisce il mandato ad litem. Nel qual caso è possibile che la parte abbia inteso intrattenere un rapporto di clientela unicamente con il professionista che già conosceva, ed abbia conferito al legale dell’altro foro soltanto la procura tecnicamente necessaria all’espletamento della rappresentanza giudiziaria: sicché il mandato di patrocinio in favore di quest’ultimo non proviene dalla parte medesima, bensì dal primo professionista, che ha individuato e contattato il legale del foro della causa e sul quale graverà perciò l’obbligo di corrispondere il relativo. Peraltro può anche verificarsi che la parte abbia inteso direttamente conferire ad entrambi i legali il mandato di patrocinio (oltre che la procura ad litem), o che abbia comunque inteso conferirlo anche al legale del foro della causa, per il tramite del professionista della città di sua residenza, potendo ben accadere che quest’ultimo commissioni l’incarico professionale al collega non solo per conto, ma anche in nome della parte rappresentata. Ed è evidente che, in siffatta ipotesi, è appunto la parte ad essere tenuta al pagamento del compenso professionale, e non invece il primo legale: per il noto principio secondo cui gli effetti del negozio compiuto dal rappresentante in nome e per conto del rappresentato si producono unicamente nella sfera giuridica di quest’ultimo. L’accertare, di volta in volta, in quale di tali diverse situazioni si verta integra dunque, con ogni evidenza, una questione di fatto, che come tale è rimessa alla valutazione del giudice di merito e, se decisa il base ad adeguata e logica motivazione, si sottrae ad ogni possibile vaglio in sede di legittimità.
Ciò posto, la sentenza, partendo dalla corretta affermazione circa la astratta distinzione fra contratto di patrocinio e procura alle liti e della presunzione di coincidenza in assenza di elementi contrari, ha analizzato compiutamente il complessivo materiale probatorio acquisito per giungere motivatamente alla conclusione che nella specie: a) il mandato di patrocinio si era perfezionato esclusivamente fra l’avv. M. di Monza e l’avv. T. di Aosta, scelto dal primo quale procuratore domiciliatario per il giudizio che il medesimo aveva intenzione di promuovere presso il Tribunale di quella città nell’interesse del B. ; b) l’assunzione da parte dell’avv. T. della rappresentanza processuale era strumentale per l’espletamento dell’incarico di procuratore; c) il contatto fra l’avv. T. e il B. era avvenuto per la identificazione del terzo, essendo quest’ultima necessaria per la autentica della sottoscrizione.
In particolare i Giudici, nell’evidenziare le modalità con le quali si pervenne alla conclusione del rapporto fra i due legali, hanno messo in evidenza che il primo contatto telefonico intercorso fra il M. e lo studio T. avvenne senza che il primo avesse fatto neppure il nome della parte da lui difesa (dep. To. ); successivamente il contratto di patrocinio ebbe a perfezionarsi quando la proposta avanzata con la lettera del 12-9-90, inviata M. unitamente all’atto di citazione con la procura già sottoscritta dalla parte e i necessari documenti, venne accettata con la lettera del 17-9-1990 con cui l’avv. T. dimostrò nei fatti la volontà di procedere agli adempimenti richiesti (notificazione trascrizione), sollevando obiezioni peraltro seccamente respinte dal M. il quale ebbe ad impartire le disposizioni del caso.
Ed invero il ruolo subalterno di mero esecutore delle direttive impartite svolto dal T. che è stato accertato dalla sentenza impugnata, è circostanza. che è stata valutata non isolatamente quale elemento decisivo per stabilire il soggetto che aveva conferito il mandato ma è stata considerata quale ulteriore conferma che il rapporto era intercorso con il M. , il quale aveva inteso appoggiarsi all’avv. T. per l’espletamento in loco dell’attività di procuratore e di domiciliazione. In proposito, la motivazione dei Giudici è immune da vizi denunciati, posto che la sentenza ha accertato: a) l’assenza di un alcun contatto fra il B. e l’avv. T. prima dell’autenticazione della procura apposta sulla citazione; b) la predisposizione unilaterale dell’atto di citazione da parte del M. che aveva in via esclusiva studiato e impostato la causa nell’interesse del cliente ancora prima di interpellare il collega, tant’è vero che, come accennato, il T. – nel leggere l’atto di citazione inviatogli per la notificazione e la trascrizione – sollevò perplessità, peraltro rimosse dall’avv. M. che insistette per procedere alla notificazione e alla trascrizione dell’atto, che poi il T. ebbe a eseguire.
Dunque, non è affatto vero che la sentenza non abbia esaminato la procura apposta in calce all’atto di citazione ma ha adeguatamente chiarito – alla luce della complessiva ricostruzione dei rapporti fra le parti di cui si è detto – che la stessa, essendo necessaria per lo svolgimento dell’attività conferita all’avv. T. dal M. , non poteva rappresentare la fonte del mandato di patrocinio conferito dal B. all’avv. T. così come ha ampiamente spiegato come i contatti (anche sgraditi) intercorsi fra il medesimo B. e l’avv. T. , imposti dall’iperattivismo del primo (al riguardo la sentenza si è diffusa sul comportamento tenuto dal B. ), non potessero avere alcun significato defensionale e professionale.
D’altre parte, è stato correttamente escluso alcun valore probatorio all’invio della parcella, posto che comunque il T. avrebbe in astratto potuto azionare nei confronti del B. la pretesa ex art. 2041 cod. civ. ed ha chiarito che tale azione non poté essere esercitata, stante l’azione contrattuale esperibile, mentre è stato pure evidenziato come la prima nota spese venne inviata dal T. al M. , che non sollevò opposizioni ma anzi richiese l’invio della parcella.
Ciò posto, alla stregua della interpretazione della volontà compiuta in base all’esame delle risultanze processuali, secondo i Giudici la presunzione di coincidenza del contratto di patrocinio con la procura alle liti doveva ritenersi superata, sicché il precedente di legittimità al riguardo citato dal ricorrente è inconferente nella specie.
Una volta accertata la esistenza di un contratto di patrocinio distinto dalla procura alle liti e considerato che la pretesa azionata si fondava sul primo il riferimento alla necessità del requisito della forma scritta, prescritto per la procura alle liti ma non per il primo, è del tutto fuori luogo.
Ciò posto, occorre precisare che, seppure appare erronea la qualificazione come contratto a favore del terzo del mandato stipulato fra le parti, tale qualificazione è del tutto irrilevante ai fini della presente controversia. Al riguardo, è appena il caso di accennare che, per la configurabilità di un contratto a favore di terzi, non è sufficiente che il terzo riceva un vantaggio economico indiretto dal contratto intervenuto tra altri soggetti, ma è necessario che questi ultimi abbiano inteso direttamente attribuirglielo, nel senso che i soggetti stessi, nella qualità di contraenti, abbiano previsto e voluto una prestazione a favore di un terzo estraneo al contratto, come elemento del sinallagma. Nella specie, in cui il B. era mero beneficiario dell’attività svolta dal T. in virtù del mandato che era conferito anche nell’interesse del terzo, il. contratto non rientrava nella previsione di cui all’art. 1411 cod. civ. Peraltro, avendo la sentenza accertato che nella specie fra le parti era. comunque intercorso un mandato e che il diritto del mandatario al compenso nei confronti del mandante in esso trovava fondamento, l’errore nella qualificazione giuridica del rapporto non può avere alcuna incidenza, posto che nella specie non si discute del diritto del terzo nei confronti del promittente.
In realtà, le doglianze, pur facendo riferimento a violazioni di legge e a vizi di motivazione, si risolvono nella censura della ricostruzione della volontà delle parti, che è riservata all’indagine di fatto del giudice di merito, formulando il ricorrente una interpretazione della stessa difforme da quella accolta in sentenza.
2.1. Il quinto motivo, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ. nonché omessa,insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, censura la decisione gravata laddove era stata respinta la domanda risarcitoria, non avendo la Corte considerato tutta una serie di illeciti posti in essere dalla controparte fonte di danno non soltanto patrimoniale.
2.2. Il motivo è infondato.
Respingendo l’appello incidentale proposto dal M. , la sentenza impugnato ha sostanzialmente ritenuto assorbita la questione circa la domanda risarcitoria formulata per il danno che sarebbe stato arrecato dall’iniziativa giudiziaria intrapresa, atteso che – una volta riconosciuto il diritto dell’avv. T. alle competenze professionali e il mancato adempimento da parte del M. (che ancora oggi contesta di esservi tenuto) nonostante l’invio della parcella – veniva meno il presupposto su cui si era basata la pretesa risarcitoria ovvero un comportamento ingiusto lesivo del diritto altrui: qui è appena il caso di osservare che l’esistenza del diritto maturato nei confronti del M. evidenzia l’assoluta irrilevanza della rinuncia nei confronti del B. ovvero della mancata attivazione nei confronti della 2BB anche per l’assorbente considerazione che l’avv. T. non poteva vantare alcuna azione nei confronti dei medesimi (la sentenza ha chiarito che non poteva trovare ingresso l’eventuale azione esperibile ex art. 2041 cod. civ., avendo a disposizione l’azione contrattuale nei confronti del M. ); il mancato adempimento degli doveri imposti dal codice deontologico non potrebbero assurgere a illecito, una volta accertato il diritto non adempiuto; certamente legittima era la richiesta del rimedio previsto a tutela del diritto dell’avvocato dall’art. 633 cod. proc. civ..
Il ricorso va rigettato.
Le spese della presente fase vanno poste a carico del ricorrente, risultato soccombente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 2.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2.500,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

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