Tra i magistrati abbiamo delle vere e proprie eccellenze. Uno di questi, non mi stancherò mai di ripeterlo, è il dottor Buffone del Tribunale di Varese. Ancora una volta Egli dimostra di sapere andare oltre il “copia incolla” delle massime della Cassazione, vizio che ormai accomuna tanto i magistrati quanto gli avvocati.
Il problema è quello del frazionamento del credito: cosa accade, processualmente, se il creditore fraziona il credito? La risposta della Cassazione in prima battuta è stata questa: entrambe le domande vanno dichiarate improponibili.
Soluzione poco coerente con il principio della ragionevole durata del processo visto che in questo modo il creditore deve iniziare di nuovo il processo.
La soluzione adottata dal Tribunale di Varese, che riprende Cass. 10634/2010 è questa: al riscontrato abuso non può conseguire la sanzione della inammissibilità delle domande, posto che non è l’accesso in sé allo strumento che è illegittimo ma le modalità con cui è avvenuto, cosicché l’esercizio deviato della situazione giuridica soggettiva o del processo impone al giudice di eliminare per quanto possibile gli effetti distorsivi dell’abuso ad esempio valutando le spese come se unico fosse stato il procedimento fin dall’origine.
Nel caso di specie il Tribunale di Varese dovendo emettere un decreto ingiuntivo ha rigettato la richiesta di pagamento delle spese processuali, delle spese notarili ed ha fatto decorrere gli interessi di mora solo dalla notifica della ingiunzione di pagamento.
Tribunale Varese, sez. I 02/09/2010
Il Tribunale di Varese, sezione prima civile, decreto 2 settembre
2010 – est. Buffone
Rileva che
La ricorrente e la destinataria dell’ingiunzione hanno intrattenuto rapporti obbligatori scaturiti da un contratto di fornitura conclusosi con esito patologico per le ritenute inadempienze (da parte della D. s.r.l.) della società C s.a.s.
La ricorrente ha già ottenuto un decreto ingiuntivo per talune fatture (diverse ed ulteriori rispetto a quelle oggetto del presente giudizio), confluite in una procedura esecutiva tutt’ora in corso (v. pagg. 1 e 2 del ricorso per decreto ingiuntivo).
Con l’istanza odierna, depositata in data 30 agosto 2010, la ricorrente deduce che “da un esame contabile delle partite aperte relative ai rapporti di fornitura di cui si tratta, è emersa una ulteriore posizione debitoria della società C. “: da qui la richiesta di una nuova ed ulteriore ingiunzione di pagamento.
A rapporto concluso, dunque, a fronte dell’unico credito complessivo globale, la ricorrente, dopo una prima ingiunzione, ne richiede un’altra, tenuto conto di una migliore visione contabile svolta nelle more.
Osserva che
Il credito, pari ad Euro 10.149,36 è giustificato dai titoli prodotti, dai documenti allegati e, soprattutto, dall’estratto notarile che attesta la regolare tenuta dei libri contabili. L’ingiunzione di pagamento va dunque emessa sussistendo anche gli altri requisiti di cui all’art. 633 c.p.c.
Ciò nondimeno deve rilevarsi d’Ufficio che il comportamento della creditrice, a prescindere dall’animus, è posto in aperta violazione del canone della buona fede e correttezza che deve orientare il rapporto obbligatorio anche nella fase di tutela giudiziale del credito: si registra, infatti, una disarticolazione del rapporto obbligatorio unico che, secondo l’indirizzo già espresso da questo Tribunale (v. Tribunale di Varese, sezione Prima civile, ordinanza 16 giugno 2010 in www.dirittoegiustizia.it/2010, 07) costituisce abuso del diritto non meritevole di tutela. È opportuno ricostruire lo stato della giurisprudenza sul punto e concludere in ordine alle sorti del decreto ingiuntivo qui richiesto.
Disarticolazione del rapporto obbligatorio
Mutando il suo precedente indirizzo, il Supremo Consesso di Giustizia ha in tempi recenti affermato che non è consentito al creditore chiedere giudizialmente l’adempimento frazionato di una prestazione originariamente unica, fondata sullo stesso rapporto (a partire da: Cass. civ., Sez. Un.,15 novembre 2007, n. 237262). In altri termini, la parcellizzazione del credito unitario costituisce un utilizzo abusivo del processo. Si tratta di una conclusione assunta sia in relazione ad una sempre più accentuata e pervasiva valorizzazione della regola di correttezza e buona fede – “siccome specificativa (nel contesto del rapporto obbligatorio) degli “inderogabili doveri di solidarietà”, il cui adempimento è richiesto dall’art. 2 della Costituzione” – sia in relazione al canone del “giusto processo”, di cui al novellato art. 111 della Costituzione. All’indirizzo delle Sezioni Unite, si sono conformate, poi, le sezioni semplici, le quali, in realtà, hanno allargato le maglie dei principi della Suprema Corte, rendendo più ampio il fascio operativo del divieto di abuso del processo: Cass. civ., sez. II, sentenza 1 febbraio 2010 n. 2314 ha, ad esempio, ritenuto (con le conclusioni rassegnate) che anche per il recupero degli onorari dei legali operi il divieto della parcellizzazione giudiziale dell’adempimento del credito;
Sicuramente di grande rilievo è, poi, la pronuncia Cass. civ., Sez. I, ord. 3 maggio 2010, n. 10634, dove, applicando per la prima volta il principio dell’abuso dello strumento processuale in tema di spese giudiziali, la Corte, decidendo su una pluralità di ricorsi, con identico patrocinio legale, contenenti domande connesse per l’oggetto e per il titolo, ha motivatamente ritenuto che “l’onere delle spese va valutato come se il procedimento sia stato unico sin dall’origine, dovendosi eliminare gli effetti distorsivi dell’abuso”.
Secondo la Corte, i principi enunciati dalle Sezioni Unite del 2007, in tema di rapporti negoziali, possono trovare applicazione anche in fattispecie diverse, a connotazione processuale, in cui manchi un interesse alla diversificazione delle posizioni e si instaurino diversi procedimenti in spregio all’esigenza oggettiva di evitare una proliferazione non necessaria di processi con incidenza negativa sull’organizzazione giudiziaria (oltre che sul debitore).
A chiusura della disamina sin qui condotta, va infine menzionata la sentenza Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2010, n. 13208, ricognitiva del generale tema dell’abuso del diritto. Chiarisce la Suprema Corte, che il principio della buona fede oggettiva, intesa come reciproca lealtà di condotta delle parti, deve accompagnare il contratto in tutte le sue fasi, da quella della formazione a quelle della interpretazione e della esecuzione (confr. Cass. civ. 11 giugno 2008, n. 15476; Cass. civ. 18 settembre 2009, n. 20106), comportando, quale ineludibile corollario, il divieto, per ciascun contraente, di esercitare verso l’altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati (confr. Cass. civ. 16 ottobre 2003, n. 15482) nonché, il dovere di agire, anche nella fase della patologia del rapporto, in modo da preservare, per quanto possibile, gli interessi della controparte.
Da qui la tendenziale “scorrettezza” di chi, mediante ricorso all’esercizio di pur legittimi diritti, richieda, come nel caso di specie, due diverse tutele giudiziali per il medesimo negozio, verso lo stesso soggetto, in tempi diversi, ma per lo stesso credito ed a fronte dello stesso rapporto obbligatorio (inoltre con il patrocinio dello stesso difensore). Ciò accade, in particolare, nelle ipotesi in cui, come in questo caso, la richiesta dell’ulteriore parte di credito tragga linfa da un interesse non meritevole di tutela come l’errore del creditore nella registrazione della contabilità che certo non può gravare in termini di costi sul debitore (sarebbe sufficiente, per ogni creditore, parcellizzare il credito sostenendo che, “da esami contabili nuovi” sono emerse altre poste creditorie).
Il tema dell’abuso dello strumento processuale ha ottenuto una importante conferma anche dal Legislatore: con la legge 6 agosto 2008 n. 133 (di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) il Legislatore è intervenuto direttamente sulla questione della frazionabilità del credito unitario, seppur con riguardo ad uno specifico contenzioso. All’art. 20 (commi 7, 8 e 9), la normativa prevede che, nei procedimenti relativi a controversie in materia di previdenza e assistenza sociale, a fronte di una pluralità di domande o di azioni esecutive che frazionano un credito relativo al medesimo rapporto, comprensivo delle somme eventualmente dovute per interessi, competenze e onorari e ogni altro accessorio, la riunificazione è disposta d’ufficio dal giudice ai sensi dell’articolo 151 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n.1368.
Effetti e provvedimenti del giudice
Le Sezioni Unite del 2007 non hanno illustrato le conseguenze pratico-applicative ricollegabili alla condotta del creditore che agisca a tutela del proprio credito unitario frazionando la domanda ovvero, comunque, con condotta distorsiva del diritto. Alcuni commentatori e talune pronunce di merito hanno concluso per la tesi della inammissibilità della domanda ma la tesi è stata disattesa dalla Suprema Corte che con la decisione n. 15476/2008 ha affermato come “dal complesso della motivazione della sentenza a Sezioni Unite 23276/07 (ed in particolare dalla sua ratio) si evince che la domanda è improponibile; e che detta improponibilità investe ciascuna delle singole domande (in ciascuna delle relative diverse cause) in cui è stata frazionata la domanda concernente l’intera somma in questione (e cioè la domanda come avrebbe dovuto essere proposta per essere ritenuta rituale ed dunque proponibile).
La tesi della improponibilità di tutte le domande non ha trovato seguito nello jus sperveniens: l’intervento normativo già citato ha, infatti, risolto la questione prevedendo, in primis, la riunificazione delle cause e solo in caso di mancata riunione, l’improcedibilità delle domande ma di quelle successiva alla prima.
Ed, invero, più di recente anche la Suprema Corte pare avere messo in dubbio la tesi “radicale” della improponibilità: nella sentenza già citata, n. 10634/2010, la Suprema Corte ha infatti affermato: “al riscontrato abuso non può tuttavia conseguire la sanzione della inammissibilità dei ricorsi, posto che non è l’accesso in sé allo strumento che è illegittimo ma le modalità con cui è avvenuto” cosicché l’esercizio deviato della situazione giuridica soggettiva o del processo impone al giudice di eliminare ” per quanto possibile gli effetti distorsivi dell’abuso” ad esempio “valutando le spese come se unico fosse stato il procedimento fin dall’origine”.
Reputa questo giudice che debba essere condiviso l’ultimo orientamento citato, con una interpretazione che segue la direttrice ermeneutica di recente confermata da Cass. civ., Sez. Unite, sentenza 27 aprile 2010 n. 9962 (Pres. Carbone, rel. Finocchiaro): in linea con la regola generale che ormai decisamente connota le decisioni della Suprema Corte in materia processuale, deve affermarsi che le norme di rito debbono essere interpretate in modo razionale in correlazione con il principio costituzionale del giusto processo (articolo 111 Cost.), in guisa da rapportare gli oneri di ogni parte alla tutela degli interessi della controparte. Ed, allora, la soluzione più razionale non è negare l’accesso alla tutela giurisdizionale, ma rimuovere gli effetti distorsivi ed illeciti che ha scaturito l’abuso. Nel caso di specie, pertanto, vanno rimossi solo gli effetti distorsivi che l’abuso ha provocato.
Conclusioni
In linea con la giurisprudenza più recente, tenuto conto della condotta scorretta della creditrice, nei sensi esposti, l’ingiunzione va emessa ed il ricorso accolto ma con integrale rigetto della richiesta di pagamento delle spese processuali, che dovranno essere sostenute integralmente e direttamente dalla D s.r.l., tenuto conto degli elementi di cui si è detto e dei Principi qui recepiti.
Ulteriori effetti distorsivi travolgono le spese notarili e gli interessi. Se la richiesta fosse stata fatta – come la creditrice doveva – in un’unica soluzione e con un’unica istanza, le spese notarile dell’autentica non sarebbero state duplici (qui raddoppiate) e del pari gli interessi non avrebbero avuto decorrenza sino all’attualità, essendo stata offerta alla debitrice facoltà di pagare.
La sanzione per l’abuso è, dunque, che può essere riconosciuto il solo credito, con interessi legali di mora ex artt. 4 e 5 d.lgs. 231/2002 solo dalla notifica della ingiunzione di pagamento.
P.Q.M.
letti ed applicati gli artt. 633, 641 c.p.c.
ingiunge al destinatario dell’ingiunzione: C. …., in persona del legale rappresentante protempore P. Iva omissis
di pagare alla parte ricorrente,
la somma di euro. 10.149,36 oltre interessi legali di mora ex artt. 4 e 5 d.lgs. 231/2002 con decorrenza dalla notifica della odierna ingiunzione di pagamento.
Il tutto entro quaranta giorni dalla notifica del presente decreto.
Rigetta
la richiesta di pagamento delle spese della procedura e dei costi di autentica notarile, che debbono rimanere a carico della creditrice, avendo disarticolato il rapporto obbligatorio unico.
Avverte
Il destinatario dell’ingiunzione che entro il termine di quaranta giorni (40 gg) può essere proposta opposizione al decreto ingiuntivo davanti a questo Ufficio giudiziario, ai sensi dell’art. 645 c.p.c. e che in caso di mancanza di opposizione si procederà ad esecuzione forzata (art. 641, comma I, c.p.c.).
Varese lì 2 settembre 2010
Il Giudice
dott. Giuseppe Buffone
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E che succede se tizio ottiene una sentenza favorevole per una parte del credito; poi, propone – 2008- un’altra causa per il residuo: controparte eccepisce la litispendenza. Nelle more la prima sentenza passa in giudicato e viene depositata agli atti tempestivamente copia con il passaggio in giudicato. Che deve decidere il Giudice? C’è un giudicato….
@Giunio: credo che il II secondo giudice dichiarerà inammissibile la II domanda, fermo il giudicato della prima.
Caro Marco, la tesi che tu proponi può darsi che sia quella che sarà adottata, ma non è giusta. Per quale motivo il creditore deve essere ‘costretto’ a perdere il residuo del credito? Tenuto conto che la domanda iniziale è stata proposta prima della decisione, per me sciagurata, delle Sez unite della Cassazione. Con quale diritto lo Stato cancella una parte del credito di fatto espropriando il diritto di proprietà a favore del debitore? Siamo lì col conto il vero re del diritto e’ il debitore e, prossimamente, chi commette reati sino a 5,anni….ogni tanto mi do’ un pizzicotto mentale e mi chiedo, mah in che societa’ si vive?