Il tema dell’onere di contestazione è fatalmente legato a quello dei poteri del difensore e, in particolare, ai suoi poteri dispositivi.
Accade nel processo, o meglio nelle sue regole e nell’interpretazione di queste da parte della giursprudenza, qualcosa che davvero mi sfugge.
Prendiamo ad esempio la rinuncia agli atti e la rinuncia all’azione. La prima è una “mossa processuale” che non preclude la riproposizione della domanda, la seconda è invece una vera e propria rinuncia al diritto, con conseguente riconoscimento della fondatezza del diritto avversario. Ebbene, il difensore, secondo il diritto vivente, può rinunciare agli atti solo se munito di procura speciale, mentre può liberamente rinunciare alla domanda, essendo questa, si dice, espressione di discrezionalità tecnica.
“La rinuncia alla domanda o ai suoi singoli capi, qualora si atteggi come espressione della facoltà della parte di modificare ai sensi dell’art. 184 c.p.c. (e 420 c.p.c. per le controversie soggette al cosiddetto rito del lavoro), le domande e le conclusioni precedentemente formulate, rientra fra i poteri del difensore (che in tal guisa esercita la discrezionalità tecnica che gli compete nell’impostazione della lite e che lo abilita a scegliere, in relazione anche agli sviluppi della causa, la condotta processuale da lui ritenuta più rispondente agli interessi del proprio rappresentato), distinguendosi così dalla rinunzia agli atti del giudizio, che può essere fatta solo dalla parte personalmente o da un suo procuratore speciale, nelle forme rigorose previste dall’art. 306 c.p.c., e non produce effetto senza l’accettazione della controparte”.
Cassazione civile, sez. III, 04/02/2002, n. 1439
A me pare che ci sia un’aporia evidente: se il legislatore, a tutela della parte e quindi, diciamolo chiaramente, con piena sfiducia verso il difensore, ha imposto la procura speciale per una semplice rinuncia agli atti, per quale strana ragione avrebbe attribuito al difensore il potere di rinunciare definitivamente al diritto con effetti di giudicato? A me pare semplice follia, eppure è proprio così.
La stessa follia la ritroviamo nella giurisprudenza sull’onere di contestazione. Da sempre si dice che le ammissioni del difensore rappresentano meri indizi liberamente valutabili dal giudice, mentre la contestazione generica che, evidentemente, è qualcosa di decisamente meno dell’ammissione, espunge il fatto dal thema probandum.
“Le ammissioni del difensore della parte – che, pur non avendo valore di confessione, costituiscono tuttavia elementi indiziari che, da soli od in concorso con altri elementi processualmente acquisiti, possono essere liberamente valutati dal giudice al fine della formazione del suo convincimento – sono solo quelle contenute negli scritti difensivi e non anche quelle eventualmente contenute in atti stragiudiziali. (Nella specie: in una lettera del legale della parte, spedita alla controparte, anteriormente alla instaurazione del giudizio)”.
Cassazione civile, sez. lav., 13/04/1987, n. 3686
“La contestazione generica comporta che i fatti si intendono per ammessi da parte del lavoratore con la conseguenza che il datore di lavoro è esonerato dall’onere di provarli specificamente”.
Cassazione civile, sez. lav., 16/02/2010, n. 3604
Anche qui: come è possibile affermare che contestare genericamente ha effetti maggiori rispetto all’ammettere un fatto? Si tenga poi presente che le dichiarazioni rese dalla parte in sede di interrogatorio libero sono liberamente valutabili (art. 116 c.p.c.); insomma le ammissioni della parte in quella sede avrebbero una efficacia probatoria minore rispetto alla contestazione generica del difensore!!!
Io spero che prima o poi qualcuno si accorga che c’è qualcosa che non va e che riporti il sistema a razionalità. E mi auguro che cambi la giurisprudenza che oggi tende a considerare irreversibili le dichiarazioni del procuratore.
Uno straordinario studioso come Lodovico Mortara avvertiva la necessità di poter correggere in corso di causa le dichiarazioni fatte dal rappresentante contro la volontà del rappresentato. Scriveva l’insigne studioso nel suo Manuale della procedura civile (1926, vol 1, pag. 396), che “il procuratore che ha emesso una dichiarazione, ravvisata poi erronea o contraria al vero, può, nell’interesse del cliente, rettificarla in corso di giudizio, tanto più se offre prova contraria”.
Questo per una semplice ragione: pur con il rispetto delle forme e dei tempi stabiliti, il processo dovrebbe servire ad accertare diritti esistenti e a negare diritti inesistenti. Insomma, dovrebbe concludersi (almeno nelle aspirazioni) con una sentenza GIUSTA. Solo che a quei tempi nessuno dubitava sul fatto che la sentenza dovesse essere quanto più possibile giusta; oggi, invece, al tempo della velocità, la sentenza deve essere rapida. E’ insomma l’epoca non solo del Fast food ma anche del Fast judgment e se tanto mi da tanto …
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