Onere di contestazione e ammissione di fatti: un paradosso ancora irrisolto

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Stiamo per concludere il nostro viaggio attorno al nuovo istituto della contestazione (art. 115, primo comma). Oggi parliamo di un fatto singolare.

Abbiamo visto che:

  • le parti hanno l’onere di contestare specificatamente i fatti allegati ex adverso;
  • la non contestazione o la contestazione generica rende il fatto pacifico e non più gravata la parte dall’onere della prova.

Ma quale soggetto processuale ha l’onere di contestare? E’ ovvio, il difensore, salvi i limitati casi in cui la parte non si avvale dell’assistenza tecnica dell’avvocato. Dunque è il difensore ad avere il compito di contestare specificatamente, circostanza questa che apre un nuovo fronte di possibili infrazioni contrattuali nel mandato cliente-avvocato e che impone una riflessione sul c.d. flusso di informazioni e onere della prova. Chiudiamo però la questione, per il momento almeno.

Dicevamo, dunque, che l’obbligo di contestazione grava, nella realtà, sul difensore. Formalmente, è lui e non la parte che prende posizione. Certo, quale rappresentante dell’attore o del convenuto, ma la firma sull’atto la mette lui non certo la parte.  Nè si può dire che l’atto che contiene la contestazione reca sempre la firma del cliente, visto che i fatti contestati con la I memoria del 183, ad esempio, vanno contestati con la II memoria-

Bene. Ma qual’è la disciplina attuale delle ammissioni, sia del difensore, sia della parte nell’interrogatorio libero? Cosa accade, in altre parole, se il difensore ammette in uno scritto un fatto allegato dall’avversario, oppure se la parte, nel corso dell’interrogatorio libero, dichiara vere certe circostanze allegate dalla controparte? Ebbene, secondo la giurisprudenza, siamo di fronte ad indizi o argomenti di prova. Leggiamo, ad esempio, queste due massime.

“Gli scritti difensivi sottoscritti solo dal difensore non hanno valore confessorio, ma costituiscono meri elementi indiziari, che possono essere motivatamente utilizzati dal giudice per la formazione del suo convincimento. Con la conseguenza che incorre nel vizio di violazione di legge solo la sentenza che attribuisce valore confessorio alla dichiarazione contenuta nell’atto difensivo senza specificare se lo stesso contenga o meno anche la firma della parte e prescindendo dall’esame della sussistenza o meno dell”animus confitendii, mentre è configurabile vizio di motivazione solo allorché, mancando la sottoscrizione della parte, il giudice si limiti a fondare il proprio convincimento sull’elemento indiziario costituito dall’ammissione del procuratore, tralasciando del tutto le ulteriori risultanze probatorie”.
Cass. 16215/2009

“Le ammissioni fatte dalla parte in sede di interrogatorio libero ex art. 420 c.p.c. hanno valore meramente indiziario e non integrano una prova piena. Ne consegue che la mancata considerazione delle stesse in favore dell’altra parte ad opera del giudice di merito non è sindacabile in sede di legittimità”.
Cass. 4667/2009

Queste pronunce sono recentissime e in particolare successive al consolidamento del principio di diritto vivente secondo cui la non contestazione rende il fatto pacifico. Ma allora: com’è possibile che non contestare o contestare genericamente un fatto ha conseguenze peggiori rispetto all’ammettere quegli stessi fatti?

Si tratta di un paradosso evidentemente sfuggito alla Suprema Corte, la quale non si è accorta che modificando il proprio orientamento in tema di non contestazione non poteva tenere fermo quello in tema di ammissioni del difensore e della parte, non essendo logico e ragionevole ritenere che un fatto possa dirsi provato qualora contestato genericamente e non provato qualora ammesso.

Facciamo un esempio. Solito sinistro stradale.
Ipotesi A. Il convenuto non prende posizione sulla dinamica descritta dall’attore; risultato: il fatto è provato.
Ipotesi B. Il convenuto ammette che i fatti si sono svolti realmente così; risultato: si tratta di un indizio.

E’ giunto forse il momento di un ripensamento? Credo di sì.

Mi pare allora che l’art. 116 debba oggi essere interpretato nel senso che le dichiarazioni rese dalla parte in sede di interrogatorio libero costituiscono argomenti di prova solo quando non contengono ammissioni, posto che in questo caso, al pari della non contestazione o della contestazione generica, dispensano l’altra parte dall’onere di provare il fatto. Lo stesso deve dirsi per le ammissioni del difensore.


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Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.

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3 commenti:

  1. Nicola

    Caro Mirco permettimi di congratularmi con te per questa tua ottima iniziativa.Ne ho parlato con alcuni giovani colleghi ivitandoli a verificare di personA.Continua così, magari proponendo anche collaborazioni
    Grazie

  2. Filippo filippo

    Quindi i fatti ammessi espressamente dal difensore nell’atto di costituzione, se disattesi, come possono essere censurati in Cassazione?
    Io avrei detto violazione del 115 co. 1 e del 416 cpc (è materia di lavoro) in relazione al n. 4…



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