Quando si parla di consenso informato, la mente corre subito al rapporto medico-paziente.
Eppure la giurisprudenza ha iniziato ad estendere tale istituto anche al rapporto cliente-avvocato.
In particolare, si sostiene che l’avvocato abbia l’obbligo di informare debitamente il cliente sulle conseguenze probabili, o anche solo possibili, delle sue scelte o delle sue condotte.
Omissis.
“Infatti l’avvocato, come ripetutamente affermato da questo Tribunale, ha il preciso dovere, a mente dell’art. 1176, comma 2, c.c., di informare debitamente il cliente sulle conseguenze probabili, o anche solo possibili, delle sue scelte o delle sue condotte.
L’avvocato, detto altrimenti, non tiene una condotta diligente se non acquisisce dal cliente un valido consenso informato (ex multis, Trib. Roma 13.1.2007, Ediltes c. Ricci, inedita; Trib. Roma 5.6.2006, Giglio c. Gasperini, inedita; Trib. Roma 8.3.2006, Mariotti c. Montevidoni, inedita; Trib. Roma 12.5.2006, Rosolin c. Pizzuti, inedita; Trib. Roma 20.7.2005, Bertini c. Andreuzzi, inedita; Trib. Roma 2.6.2005, Cima c. Cammarota, inedita; Trib. Roma 21.3.2005, Macchia c. Ariè, inedita; Trib. Roma 29.3.2005, Austeri c. Affenita, inedita).
L’obbligo di acquisire il consenso informato è un obbligo contrattuale, e non già precontrattuale: l’adempimento di esso, pertanto, va valutato alla luce del combinato disposto dell’art. 1176, comma 2, c.c., che impone l’obbligo di diligenza, e dell’art. 1375 c.c., che impone l’obbligo di buona fede.
Dal combinato disposto di tali norme discende che il professionista, dinanzi ad un cliente che sia a digiuno delle norme di diritto, ha il preciso dovere di spiegargli compiutamente quali siano le conseguenze delle scelte processuali suggerite o pretese dal cliente stesso. Solo una volta che il cliente abbia ricevuto tali informazioni può ritenersi davvero libera ed informata la sua scelta di assumere decisioni in merito alla strategia processuale: nel che propriamente si sostanzia l’attività del cavere, tradizionale e risalente appannaggio dell’avvocato.
Sul piano processuale, l’onere di provare di avere assolto l’obbligo di corretta informazione del cliente grava sul professionista (ex permultis, Cass., sez. III, 23-05-2001, n. 7027, in Danno e resp., 2001, 1165; Cass., sez. III, 06-10-1997, n. 9705, in Giust. civ., 1998, I, 424; nonché, per la giurisprudenza di questo Tribunale, ex multis, Trib. Roma 20.7.2005, Bertini c. Andreuzzi, inedita; Trib. Roma 30.6.2003, Felix ella c. Marcorelli, inedita; Trib. Roma 1.8.2003, Nardozi c. Diotallevi, inedita): ma nel caso di specie il convenuto non ha mai allegato, né chiesto di provare, di avere debitamente e compiutamente informato il cliente su quali potessero essere le conseguenze delle omissioni sin qui accertate. Di conseguenza, anche ad ammettere che effettivamente l’avv. M.R. abbia avuto così poca stima della propria professione da ridursi a nudus minister del cliente, tale circostanza non lo esonera da responsabilità, perché non vi è prova che il cliente abbia esercitato le proprie scelte dopo avere ricevuto un valido consenso informato”.
Mi pare giusto, ringrazio dell’utile osservazione.