Un’altra interessante pronuncia del Tribunale di Vasto, stavolta in merito alla nuova sanzione prevista dall’art. 96, terzo comma, c.p.c., in un caso di revocatoria ordinaria.
Come è ormai noto, la legge n. 69/2009 ha aggiunto il seguente comma: “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.
Secondo il Tribunale di Vasto la norma in esame è preordinata alla tutela di interessi di diversa natura: da un lato, infatti, essa mira a salvaguardare (in funzione, per così dire, “generalpreventiva”) sia l’interesse pubblico ad una giustizia sana e funzionale, scoraggiando il contenzioso fine a sé stesso che, aggravando il lavoro del magistrato e concorrendo a rallentare i tempi di definizione dei processi, crea nocumento alle altre cause in trattazione mosse da ragioni serie e, spesso, da necessità impellenti o urgenti, sia gli interessi pubblici primari dello Stato che, in conseguenza dei ritardi, è sottoposto alle sanzioni previste dalla legge 89/2001 (giusta l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo); sotto distinto profilo, la norma persegue lo scopo di preservare (in funzione non solo “specialpreventiva”, ma anche lato sensu riparatoria) l’interesse privato della parte risultata vittoriosa a non essere coinvolta in iniziative o resistenze giudiziarie pretestuose o dilatorie e, quindi, abusive, perché intraprese per finalità contrarie a quelle cui è istituzionalmente preposto l’utilizzo dello strumento processuale.
In particolare, scrive il Giudice abruzzese, la norma può applicarsi in due diversi tipi di casi: in un primo, che si verifica quando l’attore, agendo con malafede o colpa grave ovvero senza fare uso della normale perizia, prudenza e diligenza, intraprende o coltiva un giudizio inesorabilmente destinato ad un esito sfavorevole, con la rivendicazione di pretese insussistenti o palesemente infondate, nella coscienza dell’infondatezza della domanda (o nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta coscienza); e in un secondo, che concerne l’eventualità in cui il convenuto, pur essendo consapevole (o prevedendo e, cionondimeno, accettando il rischio) della fondatezza delle avversarie pretese, si oppone in modo ostinato e irragionevole alla domanda di controparte, senza operare con la doverosa lealtà e correttezza, così ottenendo il risultato di ostacolare o impedire la tutela dell’altrui diritto; in entrambi i casi, il defatigante comportamento processuale del soccombente costringe la controparte ed il giudice allo svolgimento di attività processuali altrimenti evitabili, provocando dispendio di tempo, mezzi e risorse (anche economiche), con conseguente produzione di un danno, sia alla collettività che alla parte privata, che deve essere riconosciuto in re ipsa, senza necessità di allegazioni o prove in ordine alla sua sussistenza.
Per quanto concerne i criteri da utilizzare per la liquidazione, in assenza di parametri normativi essi devono essere ricavati secondo il giudice vastese:
a) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa della parte soccombente;
b) dalle modalità attraverso le quali si realizza la condotta di abuso del processo;
c) dalla gravità delle conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate, sia in termini di aggravio del lavoro complessivo del magistrato, che di incidenza sulla durata del singolo processo, sia in relazione alle ripercussioni negative che tale condotta ha prodotto sulla parte risultata vittoriosa.
Nel caso in esame, il Tribunale abruzzese ha condannato i convenuti al pagamento in favore dell’attore di una somma di euro 3.000,00.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI VASTO
in composizione monocratica, nella persona del dott. Fabrizio Pasquale, alla pubblica udienza del 17.10.2011, al termine della discussione orale disposta ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., ha pronunciato la seguente
SENTENZA
dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, nel procedimento civile iscritto al n. 713/10 del Ruolo Generale Affari Civili, avente ad oggetto: AZIONE REVOCATORIA, e promosso da B. Gino Alberto, nei confronti di L. R. MA. e L. E. SA., entrambi rappresentati e difesi come in atti.
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LETTI gli atti e la documentazione di causa;
ASCOLTATE le conclusioni rassegnate dai difensori delle parti;
PREMESSO IN FATTO CHE
1. B. Gino Alberto ha convenuto in giudizio L. R. MA. e L. E. SA. al fine di conseguire la declaratoria di inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., dell’atto di donazione, stipulato in data 14/03/2008, con il quale L. R. MA., debitore dell’attore da epoca anteriore alla stipula dell’atto, ha donato in favore della figlia L. E. SA. i beni immobili di sua proprietà, analiticamente richiamati in citazione.
A sostegno della domanda parte attrice deduce che: a) con sentenza del 20/11/2007, il Tribunale di Vasto condannava L. R. MA. a pagare in favore dell’odierno attore la somma di € 5.221,44 oltre interessi legali e spese di giudizio (a titolo di differenze stipendiali dal convenuto non versate in occasione del rapporto di lavoro subordinato intercorso tra le parti); b) in data 05/12/2007, l’attore provvedeva a notificare la sentenza e il relativo atto di precetto; c) decorso inutilmente il termine di legge, in data 28/02/2008, B. Gino Alberto notificava al L. atto di pignoramento immobiliare avente ad oggetto le unità immobiliari site in San Buono (CH), alla Via Monte, rispettivamente al piano terra e al piano secondo; d) tuttavia, in data 14/03/2008 (dopo la notifica dell’atto di pignoramento) L. R. MA. stipulava, innanzi al notar Camillo Litterio, atto di donazione, in favore della figlia L. E. SA., degli immobili oggetto della suddetta procedura.
Sulla base delle circostanze di fatto appena riferite, l’attore ha chiesto all’adito Tribunale di dichiarare inefficace e revocare l’atto di donazione stipulato da L. R. MA., in data 14/03/2008, in favore di L. E. SA. e di condannare il convenuto al pagamento delle spese e delle competenze di lite.
L. R. MA., nel costituirsi in giudizio, ha contestato le circostanze allegate dall’attore, deducendo di non essere consapevole di arrecare pregiudizio, con il proprio atto, alle ragioni del creditore e, in ogni caso, che l’attore, avendo determinato con la propria inerzia l’estinzione della procedura esecutiva immobiliare instaurata sui cespiti donati, avrebbe rinunciato a far valere la propria pretesa creditoria; ha concluso, quindi, per il rigetto della domanda, a motivo della sua infondatezza, con vittoria di spese, diritti ed onorari.
La controversia non ha necessitato di attività istruttoria, potendo essere decisa sulla base degli atti e dei documenti prodotti dalle parti.
RITENUTO IN DIRITTO CHE
1. Deve preliminarmente dichiararsi la contumacia della convenuta L. E. SA., la quale, pur essendo stata ritualmente citata in giudizio, non si è costituita, né è comparsa personalmente in udienza.
2. Nel merito, la domanda è fondata e merita integrale accoglimento.
Giova in premessa ricordare che, in tema di azione revocatoria ordinaria, ai fini dell’esperibilità dell’azione, occorre che siano contestualmente sussistenti plurimi presupposti, oggettivi e soggettivi; in particolare, quanto a questi ultimi, essi sono diversamente disciplinati dall’art. 2901 c.c. a seconda che l’atto dispositivo compiuto dal debitore sia anteriore o posteriore all’insorgenza del credito ovvero a titolo gratuito o oneroso.
a) Sul piano oggettivo, il presupposto dell’azione revocatoria è rappresentato, oltre che dalla qualità di creditore in capo a colui che agisce in giudizio, dal cd. eventus damni, ossia dal pregiudizio che gli atti di disposizione patrimoniale del debitore possono arrecare alle ragioni del creditore: deve trattarsi di una lesione, effettiva ed attuale, dell’interesse del creditore alla conservazione della garanzia patrimoniale, pur se il danno non è attuale, ma si profila soltanto un pericolo di danno come conseguenza del comportamento del debitore.
Alla stregua di costante e condivisibile giurisprudenza di legittimità, per integrare il presupposto del pregiudizio delle ragioni creditorie, non è indispensabile che l’atto abbia arrecato un effettivo e completo azzeramento del patrimonio del debitore, ma è sufficiente che l’atto di disposizione renda la realizzazione del diritto del creditore incerta o soltanto difficoltosa, creando il pericolo che l’azione esecutiva possa rivelarsi infruttuosa. È, in altre parole, sufficiente che l’atto abbia reso meno capiente il patrimonio su cui il creditore può soddisfarsi, rendendogli così più impervia la via del recupero coattivo del credito (cfr. Cass., 26.2.2002, n. 2792; Cass., 01.06.2000, n. 7262; così esplicitamente Cass., 29.3.1999, n. 2971: “condizione essenziale della tutela revocatoria in favore del creditore e’ il pregiudizio alle ragioni dello stesso, per la cui configurabilità, peraltro, non e’ necessario che sussista un danno concreto ed effettivo, essendo, invece, sufficiente un pericolo di danno derivante dall’atto di disposizione, il quale abbia comportato una modifica della situazione patrimoniale del debitore tale da rendere incerta la esecuzione coattiva del debito o da comprometterne la fruttuosità”).
b) Sul piano soggettivo, allorché (come nella specie è accaduto) l’atto di disposizione sia compiuto a titolo gratuito e successivamente al sorgere del credito, è necessaria e sufficiente la consapevolezza del debitore di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore (la cd. scientia damni), essendo l’elemento soggettivo integrato dalla semplice conoscenza – cui va equiparata la agevole conoscibilità – nel debitore di tale pregiudizio, a prescindere dalla specifica conoscenza del credito per la cui tutela viene esperita l’azione (cfr. Cass., 01/06/2000, n. 7262); in particolare, questa consapevolezza si realizza quando il debitore si rappresenta, al momento dell’atto, la riduzione della propria consistenza patrimoniale in danno del ceto creditorio complessivamente considerato.
In questa ipotesi non assume rilevanza l’intenzione del debitore di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore (il cd. consilium fraudis), nè tantomeno la partecipazione o la conoscenza da parte del terzo in ordine alla intenzione fraudolenta del debitore (cd. partecipatio o scientia fraudis).
L’azione revocatoria ordinaria di atti a titolo gratuito non postula che il pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore sia conosciuto, oltre che dal debitore, anche dal terzo beneficiario (trattandosi di requisito richiesto solo per la diversa ipotesi di revocatoria degli atti a titolo oneroso), poiché costui ha comunque acquisito un vantaggio senza un corrispondente sacrificio e, quindi, ben può vedere il proprio interesse posposto a quello del creditore (cfr., Cass, 17/05/2010, n. 12045).
3. Orbene, facendo applicazione dei principi appena esposti al caso di specie, non sussistono dubbi in ordine alla sussistenza del credito in capo a B. Gino Alberto, come giudizialmente accertato dalla sentenza di condanna del Tribunale di Vasto versata in atti; parimenti, è pacifica la posteriorità – sul piano temporale – della donazione compiuta dal L. rispetto all’insorgenza del credito.
a) Quanto al presupposto oggettivo dell’eventus damni, va rimarcato che – come risulta dalla visura catastale versata in atti – i cespiti donati alla figlia costituivano le uniche proprietà immobiliari di cui era titolare il L. R. MA.; ciò posto, è evidente che, non residuando in capo al debitore ulteriori beni immobili dopo l’atto dispositivo, con la donazione il L. ha fortemente indebolito la propria garanzia patrimoniale, di certo rendendo assai più difficile (se non addirittura impedendo del tutto) a B. Gino Alberto di recuperare il suo credito coattivamente. Né, a fronte di tale oggettivo depauperamento, il convenuto ha allegato o provato – come era suo onere fare (“è onere del debitore, per sottrarsi agli effetti dell’azione revocatoria, provare che il proprio patrimonio residuo sia tate da soddisfare ampiamente le ragioni del creditore” – cfr. Cass., 06.05.1998, n. 4578) di poter offrire garanzie patrimoniali diverse e/o ulteriori, in guisa da evitare il pericolo di un pregiudizio delle ragioni creditorie. Non può, dunque, che concludersi per il carattere pregiudizievole della donazione in questione.
b) Sotto il distinto profilo soggettivo, ritiene questo giudice che la prova della consapevolezza del L., circa il pregiudizio che la donazione poteva arrecare alle ragioni dei suoi creditori, sia lampante e conclamata, posto che egli sapeva di non disporre di altri beni immobili e di provocare, in tal modo, una riduzione della propria consistenza patrimoniale in danno dei suoi creditori, i quali non avrebbero più potuto contare sui cespiti immobiliari donati. Anche dal punto di vista soggettivo deve, quindi, ritenersi verificata la condizione per il positivo esercizio dell’azione revocatoria.
A fronte di tale quadro probatorio, risibili e palesemente infondati sono gli assunti difensivi con i quali il convenuto ha tentato di contrastare la domanda di controparte.
Quanto alla deduzione secondo la quale l’attore avrebbe manifestato una mancanza di interesse alla prosecuzione della procedura esecutiva immobiliare intrapresa proprio sui cespiti donati, premesso che l’estinzione dell’esecuzione, per mancato deposito della documentazione richiesta ex art. 567 c.p.c., certamente non implica rinuncia, neppure tacita, a far valere il proprio credito nei confronti del debitore, deve ricordarsi – ove ve ne fosse bisogno – che la cessazione degli effetti del pignoramento giammai determina l’estinzione del credito per il quale si agisce e, in questo senso, non può di certo far venir meno la qualità di creditore, che – come si è visto – costituisce una delle condizioni indispensabili per la proposizione dell’azione revocatoria.
Anche la seconda eccezione sollevata dal L., nella misura in cui pretende di desumere la mancanza della scientia damni dalla circostanza di non aver mai avuto conoscenza effettiva della sentenza di condanna e degli atti della procedura esecutiva, perché a lui notificati in un luogo in cui non risiederebbe più e per il tramite della moglie dalla quale sarebbe da tempo separato di fatto, è priva di pertinenza con il thema decidendum, oltreché smentita dalle evidenze istruttorie. Il convenuto, infatti, non solo confonde la conoscenza del credito, per la cui tutela viene esperita l’azione, con la consapevolezza del pregiudizio derivante dall’atto dispositivo, ma – affermando di non risiedere più nel luogo in cui sono avvenute le notifiche degli atti processuali pregressi – riferisce anche fatti non veri e confutati dalla documentazione in atti, giacchè – come correttamente osservato dall’attore – l’atto di citazione introduttivo del presente giudizio risulta essere stato notificato, questa volta personalmente, al L. R. MA., proprio nello stesso indirizzo indicato per la notifica dei precedenti atti, cioè in San Buono, Via Monte n.5 (cfr., avviso di ricevimento allegato all’atto di citazione).
4. Sulla scorta delle osservazioni finora esposte, ricorrendo tutte le condizioni prescritte dall’art. 2901, primo comma, n.1, c.c. per la revocatoria degli atti gratuiti posti in essere successivamente all’insorgenza del credito, deve concludersi che la donazione impugnata va sicuramente revocata e dichiarata inefficace nei confronti dell’odierno attore.
5. Il regime delle spese processuali è regolato dal principio della soccombenza; questo implica che all’accoglimento della domanda segue la condanna di parte convenuta al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano come in dispositivo. In particolare, tenuto conto della natura della controversia, nonché della importanza, della difficoltà e del numero delle questioni giuridiche affrontate, come pure dell’attività svolta dall’avvocato davanti al giudice, il calcolo dei diritti e degli onorari è stato effettuato sulla base dei valori tariffari medi applicabili allo scaglione di riferimento.
6. Ad avviso di questo giudicante, sussistono nel caso di specie i presupposti per condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, ai sensi della disposizione normativa (recentemente introdotta nel nostro ordinamento) di cui all’art. 96, III comma c.p.c., la quale prevede che il giudice possa pronunciarsi d’ufficio, anche in assenza di una domanda sul punto.
Giova, in premessa, precisare che la norma in esame è preordinata alla tutela di interessi di diversa natura: da un lato, infatti, essa mira a salvaguardare (in funzione, per così dire, “generalpreventiva”) sia l’interesse pubblico ad una giustizia sana e funzionale, scoraggiando il contenzioso fine a sé stesso che, aggravando il lavoro del magistrato e concorrendo a rallentare i tempi di definizione dei processi, crea nocumento alle altre cause in trattazione mosse da ragioni serie e, spesso, da necessità impellenti o urgenti, sia gli interessi pubblici primari dello Stato che, in conseguenza dei ritardi, è sottoposto alle sanzioni previste dalla legge 89/2001 (giusta l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo); sotto distinto profilo, la norma persegue lo scopo di preservare (in funzione non solo “specialpreventiva”, ma anche lato sensu riparatoria) l’interesse privato della parte risultata vittoriosa a non essere coinvolta in iniziative o resistenze giudiziarie pretestuose o dilatorie e, quindi, abusive, perchè intraprese per finalità contrarie a quelle cui è istituzionalmente preposto l’utilizzo dello strumento processuale.
Se ne deduce che l’istituto di nuovo conio normativo ha una funzione sia sanzionatoria che risarcitoria o, per meglio dire, si atteggia nei termini di una sanzione (e di qui il motivo per cui è applicabile su iniziativa ufficiosa del giudice, senza necessità di previa domanda di parte) con profili anche riparatori nei riguardi della parte lesa (questo spiega la previsione della devoluzione della somma in favore della controparte).
Fatta questa precisazione, va rimarcato che l’applicazione della norma deve essere circoscritta ai soli casi in cui dagli atti di causa emerga un comportamento processuale della parte soccombente volutamente preordinato (o anche solo negligentemente destinato) ad ottenere dalla controparte un beneficio indebito attraverso il deterrente del ricorso all’azione giudiziaria o a determinare un ingiustificato allungamento dei tempi processuali, per ritardare l’intervento della risposta giudiziaria.
In particolare, la norma può applicarsi in due diversi tipi di casi: in un primo, che si verifica quando l’attore, agendo con malafede o colpa grave ovvero senza fare uso della normale perizia, prudenza e diligenza, intraprende o coltiva un giudizio inesorabilmente destinato ad un esito sfavorevole, con la rivendicazione di pretese insussistenti o palesemente infondate, nella coscienza dell’infondatezza della domanda (o nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta coscienza); e in un secondo, che concerne l’eventualità in cui il convenuto, pur essendo consapevole (o prevedendo e, cionondimeno, accettando il rischio) della fondatezza delle avversarie pretese, si oppone in modo ostinato e irragionevole alla domanda di controparte, senza operare con la doverosa lealtà e correttezza, così ottenendo il risultato di ostacolare o impedire la tutela dell’altrui diritto; in entrambi i casi, il defatigante comportamento processuale del soccombente costringe la controparte ed il giudice allo svolgimento di attività processuali altrimenti evitabili, provocando dispendio di tempo, mezzi e risorse (anche economiche), con conseguente produzione di un danno, sia alla collettività che alla parte privata, che deve essere riconosciuto in re ipsa, senza necessità di allegazioni o prove in ordine alla sua sussistenza.
In virtù della affermata funzione plurima (sanzionatoria e risarcitoria) della norma in commento e in considerazione dei diversi interessi da essa tutelati, i criteri di determinazione della somma da liquidare, in assenza di parametri normativi, devono essere ricavati: a) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa della parte soccombente; b) dalle modalità attraverso le quali si realizza la condotta di abuso del processo; c) dalla gravità delle conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate, sia in termini di aggravio del lavoro complessivo del magistrato, che di incidenza sulla durata del singolo processo, sia in relazione alle ripercussioni negative che tale condotta ha prodotto sulla parte risultata vittoriosa.
Facendo applicazione al caso in esame dei principi finora esposti, è apparso in modo evidente che, per la completa inconsistenza delle argomentazioni difensive del convenuto, per la totale assenza di elementi probatori a sostegno delle eccezioni sollevate, nonché per il complessivo atteggiamento processuale della parte (che ha rifiutato, senza alcun giustificato motivo, sia la ragionevole proposta conciliativa formulata da controparte, sia la proposta formulata d’ufficio dal giudice), l’unico scopo perseguito dal L. R. MA., con la sua dilatoria e pretestuosa difesa, è stato quello di allungare i tempi di definizione del giudizio, per ritardare la pronuncia di un provvedimento giudiziale che già sapeva essere a sé sfavorevole.
Ne consegue la doverosa condanna del convenuto al pagamento, in favore di B. Gino Alberto, di una somma che deve equitativamente determinata tenuto conto, in base ai parametri sopra indicati, che: a) il L. non ha inteso onorare i propri debiti nei confronti dell’odierno attore, ma ha addirittura tentato di sottrarsi al pagamento degli stessi spogliandosi degli unici beni immobili di cui era proprietario; b) si è, altresì, opposto all’accoglimento dell’azione revocatoria, cercando di sostenere inverosimilmente di non essere a conoscenza, né del suo debito nei confronti del B., né del pregiudizio che poteva arrecargli con la donazione; b) ha impedito per diversi anni al creditore di soddisfare le proprie ragioni, tanto che ad oggi il B. non ha ancora percepito quanto dovutogli; c) ha costretto il B. a contrastare una difesa strumentale e palesemente infondata; d) a causa di tale dilatoria condotta processuale, il giudizio è durato circa due anni, quando poteva al più essere definito con una ragionevole soluzione conciliativa tempestivamente propugnata dallo stesso creditore; e) l’iniziativa giudiziaria dell’attore ha avuto comunque l’effetto indiretto di sottrarre tempo e risorse alla trattazione di altri giudizi.
Sulla scorta di tali parametri, si reputa equo liquidare la somma dovuta al B. in € 3.000,00.
Per Questi Motivi
Il Tribunale di Vasto, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da B. Gino Alberto contro L. R. MA. e L. E. SA., disattesa ogni diversa richiesta, eccezione o conclusione, così provvede:
ACCOGLIE la domanda di cui in epigrafe;
DICHIARA, per l’effetto, l’inefficacia nei riguardi di B. Gino Alberto dell’atto di donazione stipulato in data 14/03/2008, per Notaio Camillo Litterio di Vasto, rep. n. …., registrato in Vasto il …., al n. …, tra L. R. MA., in qualità di donante, e L. E. SA., in qualità di donataria, relativamente a tutti i beni compiutamente indicati nell’atto di citazione;
ORDINA alla Conservatoria dei Registri Immobiliari di Chieti, che esonera da ogni responsabilità al riguardo, di annotare la presente sentenza in margine alla trascrizione dell’atto di donazione indicato al capo che precede;
CONDANNA L. R. MA. e L. E. SA., in solido tra loro, al pagamento, in favore di B. Gino Alberto, delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi € 3.712,50, (di cui € 1.944,00 per diritti, € 1.356,00 per onorari, € 412,50 per rimborso forfettario delle spese generali ex art. 14 D.M. 8 aprile 2004, n. 127), oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge;
CONDANNA, altresì, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., L. R. MA. al pagamento, in favore di B. Gino Alberto, della somma di € 3.000,00;
MANDA alla Cancelleria per gli adempimenti di competenza.
Così deciso in Vasto, 17/10/2011.
IL GIUDICE
dott. Fabrizio Pasquale
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