Pubblichiamo una sentenza del Tribunale di Roma che ha notevoli ricadute sul piano pratico.
Con la pronuncia in esame, il giudice di merito ha affermato che a seguito dell’introduzione ex lege n. 102/2006 del rito del lavoro nelle cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali, i testimoni vanno citati direttamente per l’udienza di discussione, a pena di decadenza.
La sentenza si discosta volutamente dal principio affermato da Cass. civ. 3275/1997, la quale aveva stabilito che “Nei giudizi che si svolgono secondo il rito speciale delle controversie di lavoro, il giudice che, nell’udienza fissata per la discussione, ammette la prova per testimoni, ne dispone l’immediata assunzione in quanto ciò sia reso possibile dalla presenza delle persone da interrogare; diversamente, fissa altra udienza a norma dell’art. 420, comma 6, c.p.c., per la quale la parte ha l’onere, sanzionato dalla decadenza prevista dall’art. 104, comma 1, disp. att. c.p.c., di chiedere l’intimazione dei testimoni ammessi secondo la disposizione dettata dall’art. 250 c.p.c.”.
In particolare, il Tribunale di Roma dichiara espressamente di non poter condividere il suddetto principio, per due ragioni:
- La prima ragione è che il procedimento speciale disciplinato dagli art. 420 e ss. c.p.c. è caratterizzato da concentrazione, immediatezza ed oralità. Funzionale a tale impostazione è la concentrazione di tutte le attività istruttorie in una sola udienza. La possibilità che l’istruzione non si concluda in una sola udienza è, nell’intento del legislatore, del tutto eccezionale: ed infatti le modificazioni delle domande o le integrazioni istruttorie debbono essere autorizzate dal giudice; la discussione della causa è orale, il differimento per a precisazione delle conclusioni non è concesso, è inibito al giudice riservarsi di provvedere. Pertanto, se fosse consentito alle parti omettere di intimare i testimoni per l’udienza di discussione il sistema voluto dal legislatore naufragherebbe del tutto, posto che il giudice non potrebbe mai decidere la causa nella prima (e tendenzialmente unica) udienza di discussione, ma dovrebbe sempre rinviare per l’assunzione della prova.L’intimazione dei testimoni per la prima udienza di trattazione non è dunque un “formalismo”, come sbrigativamente affermato dal precedente appena ricordato (e cioè Cass. 3275/97, cit.), ma la consequenziale ed imprescindibile attuazione di un precetto normativo.
- La seconda ragione è che, tra i due orientamenti in contrasto, ambedue formatisi anteriormente alla riforma dell’art. 111 cost., solo il primo appare conforme al nuovo testo di tale ultima norma, in quanto solo esso appare in grado di garantire maggiore celerità al processo.
Si tratta di un orientamento molto rigoroso; la motivazione è giuridicamente ineccepibile, ma le ricadute sul piano pratico sono “aberranti”. Il testimone potrebbe essere citato (e dunque tenuto a presentarsi dinanzi al giudice) per due-tre volte, laddove per un problema di notifica o per una chiamata in causa, oppure ancora per ragioni di ufficio, il giudice ritenga di dover differire l’udienza di assunzione della prova. D’altra parte, chi potrebbe ora rischiare di omettere la notifica, viste le pesanti conseguenze?
Confidiamo che la Cassazione, quando sarà (inevitabilmente) chiamata a pronunciarsi nuovamente sulla questione, voglia ribadire l’orientamento fatto proprio nel suo precedente.
Tribunale Roma, 29 marzo 2007, sez. XIII
REPUBBLICA ITALIANA
In Nome Del Popolo Italiano
IL TRIBUNALE DI ROMA
– Sez. XIII Civile –
in persona del giudice unico, dott. Marco Rossetti, ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nella causa civile in primo grado iscritta al n° 60068/06 del
R.G.A.C., decisa mediante lettura del dispositivo all’udienza del
29.3.2007, vertente
tra
– Poste Italiane s.p.a., in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliato in Roma, v.le E. 175, presso
l’Avv. Antonio Sebastiano Campisi che lo rappresenta e difende per
procura conferita con atto pubblico;
– ricorrente -;
e
-) S.Q., contumace;
– resistente -;
nonché
-) Aurora Assicurazioni s.p.a., in persona del legale rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, v. P. 18, presso
l’Avv. Emilio Ricci che lo rappresenta e difende per procura apposta
in margine alla comparsa di risposta;
– resistente -;
OGGETTO: risarcimento danni;
CONCLUSIONI DELLE PARTI: all’udienza del 29.3.2007 le parti
concludevano come da verbale in par
i data;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione regolarmente notificato, Poste Italiane s.p.a. conveniva dinanzi a questo Tribunale S.Q. e la Aurora s.p.a..
La società attrice esponeva che:
-) il proprio dipendente M.C. il 29.5.2003 rimaneva vittima di un sinistro stradale, causato da S.Q. (conducente di un veicolo assicurato per la r.c.a. dalla Aurora);
-) in conseguenza di tale sinistro, il suddetto M. C. restava assente dal lavoro per oltre un anno, durante il quale aveva continuato a percepire la retribuzione, a carico del datore di lavoro.
Concludeva pertanto chiedendo la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dei fatti sopra descritti.
Si costituiva la sola Aurora, contestando sia l’an che il quantum debeatur.
Nel corso dell’istruzione venivano acquisiti documenti.
Esaurita l’istruzione e precisate le conclusioni, la causa è stata trattenuta in decisione all’udienza del 29.3.2007.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Vanno preliminarmente esaminate le istanze istruttorie formulate dalle parti, da queste reiterate nel precisare le conclusioni.
Esse non possono essere accolte.
Le parti del presente giudizio hanno sì tempestivamente domandato di provare per testi la dinamica del sinistro di cui è causa, ma hanno omesso di intimare i testi per l’udienza di discussione (29.3.2007).
Ciò, ad avviso di questo Tribunale, ne ha comportato la decadenza dal diritto alla prova testimoniale, ai sensi dell’art. 104, comma 1, disp. att. c.p.c..
Tale conclusione è conforme al prevalente orientamento della S.C., secondo cui nel rito del lavoro la decadenza per difetto di intimazione del teste per l’udienza di trattazione, pur non essendo espressamente prevista, discende dal potere-dovere del giudice di procedere all’immediata assunzione dei mezzi di prova proposti dalle parti, salvo che ciò non sia possibile per fatto non imputabile alle parti, mentre il difetto di intimazione è di per sé ad esse imputabile (Cass., sez. III, 07-06-1995, n. 6368, in Foro it. Rep. 1995, Lavoro e previdenza (controversie), n. 172; Cass., sez. III, 29-04-1994, n. 4161, in Foro it. Rep. 1994, Lavoro e previdenza (controversie), n. 168; Cass. 8 gennaio 1988 n. 3; Cass., 13-04-1987, n. 3681, in Foro it. Rep. 1987, Lavoro e previdenza (controversie), n. 193; Cass. 14 febbraio 1984 n. 1133).
1.1. E’ ben vero che tale orientamento risulta essere stato disatteso in un caso dalla stessa S.C., che ha in tal modo aperto un contrasto nel proprio seno (Cass., sez. III, 16-04-1997, n. 3275, in Foro it., 1997, I, 2504).
Nondimeno, non essendo stato a tutt’oggi tale contrasto risolto dall’intervento delle Sezioni Unite, ritiene questo Tribunale che tra i due orientamenti debba preferirsi il primo, per due ragioni.
1.2. La prima ragione è che il procedimento speciale disciplinato dagli art. 420 e ss. c.p.c. è caratterizzato da concentrazione, immediatezza ed oralità. Funzionale a tale impostazione è la concentrazione di tutte le attività istruttorie in una sola udienza. La possibilità che l’istruzione non si concluda in una sola udienza è, nell’intento del legislatore, del tutto eccezionale: ed infatti le modificazioni delle domande o le integrazioni istruttorie debbono essere autorizzate dal giudice; la discussione della causa è orale, il differimento per a precisazione delle conclusioni non è concesso, è inibito al giudice riservarsi di provvedere.
Or bene, se fosse consentito alle parti omettere di intimare i testimoni per l’udienza di discussione il sistema voluto dal legislatore naufragherebbe del tutto, posto che il giudice non potrebbe mai decidere la causa nella prima (e tendenzialmente unica) udienza di discussione, ma dovrebbe sempre rinviare per l’assunzione della prova.
L’intimazione dei testimoni per la prima udienza di trattazione non è dunque un “formalismo”, come sbrigativamente affermato dal precedente appena ricordato (e cioè Cass. 3275/97, cit.), ma la consequenziale ed imprescindibile attuazione di un precetto normativo.
1.3. La seconda ragione è che, tra i due orientamenti in contrasto, ambedue formatisi anteriormente alla riforma dell’art. 111 cost., solo il primo appare conforme al nuovo testo di tale ultima norma, in quanto solo esso appare in grado di garantire maggiore celerità al processo.
Di conseguenza va confermata la dichiarazione di decadenza, già pronunciata con l’ordinanza istruttoria del 29.3.2007.
1.4. Né potrebbe questo Tribunale fare ricorso, per sanare la decadenza del ricorrente, ai poteri conferitigli dall’art. 421 c.p.c., disponendo ex officio la stessa prova dalla quale le parti sono state dichiarate decadute.
Ciò per varie ragioni:
– perché il principio costituzionale del giudice terzo ed imparziale (art. 111 cost.) resterebbe vulnerato se fosse consentito al giudice sanare, attraverso l’esercizio dei propri poteri officiosi, le carenze o lacune dell’attività difensiva di alcuno tra i litiganti;
– perché le decadenze e le preclusioni, dettate al fine di accelerare i processi, perderebbero ogni ragione di essere ove fosse consentito alle parti aggirarle invocando i poteri officiosi del giudice per raccogliere quelle stesse prove dalle quali sono decadute.
Tali conclusioni non sono infirmate dai quei precedenti giurisprudenziali secondo cui “nel rito del lavoro il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti”. Tale principio, infatti, è stato dalla S.C. affermato con precipuo riferimento alle controversie di lavoro, in quanto aventi ad oggetto diritti indisponibili, mentre tale non è il diritto al risarcimento del danno scaturente da un illecito aquiliano, oggetto del presente giudizio.
2. L’unica prova raccolta nel corso dell’istruzione è il rapporto redatto dalla polizia municipale, nel quale è stata verbalizzata la dichiarazione di persona dichiaratasi presente ai fatti. Tale persona ha dichiarato alla polizia municipale che S.Q., ala guida del proprio motociclo, a causa della velocità elevata e dell’andatura zigzagante ha urtato a tergo il mezzo condotto dal dipendente della società attrice, M.C..
E’ ben vero che le suddette dichiarazioni non sono state rese nell’immediatezza del fatto, ma solo successivamente, allorché il dichiarante si recò sua sponte dalla polizia municipale. Tuttavia è altresì vero che, non avendo i convenuti assolto in modo alcuno l’onere della prova su essi incombente, questo Tribunale non dispone di alcun elemento, nemmeno indiziario, per negare veridicità a quelle dichiarazioni.
Ne consegue che al responsabilità nella causazione del sinistro va ascritta a S.Q..
I convenuti vanno perciò condannati in solido, ciascuno per il rispettivo titolo, al risarcimento dei danni subìti dall’attrice.
2. In merito al quantum debeatur, si osserva quanto segue.
Non è in contestazione che M.C. fosse dipendente della società attrice.
Nemmeno è in contestazione che quest’ultima abbia continuato a corrispondergli la retribuzione durante il periodo di assenza.
E’ invece contestata la durata dell’assenza dal lavoro, e soprattutto la sua derivazione causale dal sinistro del quale è causa.
Era pertanto onere della società attrice dimostrare che le lesioni patite dal proprio dipendente avessero effettivamente ed irrimediabilmente costretto quest’ultimo ad un anno di assenza dal posto di lavoro.
Tale prova è del tutto mancata. Non solo infatti la ricorrente non ha mai prodotto alcuna seria documentazione comprovante la storia clinica dell’infortunato, ma al contrario esiste un evidente iato tra la diagnosi del pronto soccorso (frattura del piatto tibiale, giudicata guaribile in 90 giorni), e la durata dell’assenza dal lavoro (oltre un anno).
L’unico danno risarcibile è dunque pari alla retribuzione mensile percepita dalla vittima al momento del sinistro, attualizzata in base all’indice FOI relativo all’epoca del sinistro (euro 933,42) moltiplicata per tre mesi, vale a dire il periodo massimo di invalidità che appare giustificato in base agli atti di causa (pari ad euro 2.976).
2.1. Alla danneggiata va inoltre attribuita la somma di euro 332 a titolo di risarcimento del danno da lucro cessante consistito nel mancato godimento della somma liquidata a titolo di risarcimento, somma che – ove posseduta ex tunc – sarebbe stata presumibilmente investita per ricavarne un lucro finanziario.
Tale importo è stato determinato equitativamente ex art. 2056 co. I c.c., secondo l’insegnamento della S.C. (cfr. Cass. Sez. Un. 17 febbraio 1995, n. 1712), col metodo seguente:
– a base di calcolo si è assunta non la somma sopra liquidata (cioè espressa in moneta attuale), ma una somma pari alla media tra l’ammontare del risarcimento devalutato all’epoca in cui è sorto il credito (in base all’indice FOI elaborato dall’Istat), e l’ammontare del risarcimento espresso in moneta attuale;
– su tale importo si è applicato un saggio di rendimento ricavato – equitativamente – dalla media ponderata del rendimento dei titoli di stato e dal tasso degli interessi legali (2%), in base alla considerazione che parte attrice, se fosse tempestivamente entrata in possesso della somma a lei spettante a titolo di risarcimento, l’avrebbe verosimilmente impiegata (arg. ex art. 2727 c.c.) nelle più comuni forme di investimento accessibili al piccolo risparmiatore (BOT, CCT, obbligazioni);
– il periodo di temporanea indisponibilità della somma liquidata a titolo di risarcimento è stato computato con decorrenza dalla data dell’illecito.
Sull’intera somma liquidata a titolo di risarcimento, pari a euro 3.309, decorrono gli interessi legali dal giorno della pubblicazione della sentenza.
3. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
il Tribunale, definitivamente pronunciando, così provvede:
-) condanna S.Q. e la Aurora s.p.a. in solido al pagamento in favore di Poste Italiane s.p.a. della somma di euro 3.309, oltre interessi come in motivazione;
-) condanna S.Q. e la Aurora s.p.a. alla rifusione in favore di Poste Italiane s.p.a. delle spese del presente giudizio, che si liquidano in euro 440 per spese; euro 1.000 per diritti di procuratore; euro 1.300 per onorari di avvocato, per complessivi euro 2740, oltre spese generali ex art. 14 d.m. 8.4.2004 n. 127, I.V.A. e C.N.A..
Così deciso in Roma, nella tredicesima sezione civile del Tribunale, addì 29.3.2007.
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