Il disegno di legge 1441 bis B in corso di approvazione alla Camera prevede l’inserimento del seguente periodo al primo comma dell’art. 115:
“Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”.
La modifica vuole porre fine ad una questione assai controversa in giurisprudenza e in dottrina.
A fronte di sentenze che anche di recente hanno affermato che non sussiste nel vigente ordinamento processuale un onere per la parte di contestazione specifica di ogni fatto dedotto ex adverso, tanto che la mera mancata contestazione in quanto tale non può avere automaticamente l’effetto di prova (Cass. civ. n. 13958/2006), si registra un orientamento per così dire intermedio e un orientamento estremo.
L’orientamento intermedio è quello espresso, ad esempio, da Cass. civ. n. 2273/2005, in cui si dà la possibilità al giudice di valutare tale comportamento, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., non semplicemente di per se (e quindi solo in quanto omessa contestazione), ma come espressione significativa del comportamento processuale della parte, da inquadrare nell’ambito di quest’ultimo e valutata in relazione all’intero complesso di tesi difensive esposte.
L’orientamento estremo che si va sempre più affermando è efficacemente espresso dalla seguente sentenza del Tribunale di Ivrea (5 novembre 2003), che vale la pena di leggere per esteso:
“È noto come di tale principio la tradizionale e maggioritaria giurisprudenza ha sempre dato una lettura prudente, parlando di non contestazione, con conseguente non necessità di dar prova di fatti ritenuti pacifici, solo allorquando l’altra parte li ha esplicitamente ammessi; ovvero ha impostato la propria difesa su argomenti logicamente incompatibili con il disconoscimento; ovvero si è limitata a contestare esplicitamente e specificamente alcune circostanze, con ciò implicitamente riconoscendo le altre (da ultimo ed ex pluribus, Cass. n. 14880 / 2002, Cass. n. 13814 / 2002, Cass. n. 13904 / 2000, Cass. n. 10434 / 2000, Cass. n. 9424 / 2000, Cass. n. 11513 / 1999, Cass. n. 4687 / 1999, Cass. n. 1213 / 1999).
Secondo un diverso orientamento, tendente a valorizzare l’applicazione dell’istituto in parola, deve invece affermarsi l’esistenza in via generale nel processo civile, sia nell’ambito del rito ordinario che nell’ambito del rito del lavoro, del principio della non contestazione, di talché vanno ritenuti provati tutti i fatti storici non contestati da controparte. Il principio della non contestazione, già enunciato ed applicato in diverse ipotesi disciplinate dal codice di rito (cfr. artt. 14 comma 3, 35, 316 comma 3, 186 bis e 423, 512 comma 2, 597, 598, 541, 542, 785, 789, 548, 643 c. p. c.), è infatti fondato in via generale sugli artt. 167 comma 1 e 416 comma 3 c. p. c., che pongono al convenuto l’onere di prendere posizione sui fatti ex adverso dedotti a fondamento della domanda.
L’esistenza di tale generale principio si spiega, sotto un profilo logico, argomentando che la non contestazione rappresenta una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto, e sotto il profilo giuridico con la necessità di aumentare la concentrazione e l’efficienza processuale. Trattasi di un principio tendenzialmente stabile, in quanto le contestazioni tardive sono possibili sino a quando non si verificano le preclusioni processualcivilistiche in ordine alla emendatio libelli, che nel rito ordinario coincidono con le memorie ex art. 183 comma 5 c. p. c.. In tutta evidenza, poi, per essere rilevante la non contestazione deve riguardare fatti storici, non già la ricostruzione giuridica degli stessi o l’applicazione di norme giuridiche, che spettano sempre al Giudice.
Tale ricostruzione, che questo Giudice condivide, fino a qualche anno orsono è risultata certamente minoritaria (cfr. tuttavia Cass. n. 5536 / 2001, Cass. n. 6230 / 1998, Cass. n. 7758 / 1997, Cass. n. 1576 / 1995, Cass. n. 4834 / 1988, Cass. n. 6620 / 1982), ma è stata recentemente avallata dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 761 / 2002 e seguita dalla maggioritaria successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 1562 / 2003, Cass. n. 535 / 2003, Cass. n. 13972 / 2002, Cass. n. 8502 / 2002, Cass. n. 5526 / 2002, Cass. n. 1902 / 2002, tutte peraltro rese dalla sezione lavoro) e da parte della giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Foggia 7 / 5 / 2002), pur se non anche dalle recentissime Cass. n. 1672 / 2003 e Cass. n. 559 / 2003, che peraltro in motivazione non danno conto della precedente pronuncia a Sezioni Unite”.
L’argomento è stato ripreso di recente dalla Suprema Corte (sent. 5191/08) la quale ha stabilito che l’onere di contestazione tempestiva deriva da tutto il sistema processuale, come si evince:
(a) dal carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena;
(b) dal sistema di preclusioni, che comporta per entrambe le parti l’onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa;
(c) dai principi di lealtà e probità posti a carico delle parti e, soprattutto,
(d) dal generale principio di economia che deve informare il processo, così come previsto dall’art. 111 Cost..
Conseguentemente, ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o convenuto) un onere di allegazione (e prova), l’altra ha l’onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi tale fatto pacifico e la controparte non più gravata del relativo onere probatorio.
Pertanto, secondo il più recente orientamento della Suprema Corte la parte ha l’onere di contestare specificamente i fatti principali affermati dall’altra parte con la prima difesa utile, dovendosi altrimenti il fatto ritenere pacifico.
Il disegno di legge 1441 bis B intende mettere la parola fine sulla questione stabilendo, come sopra abbiamo visto, l’onere di contestare “specificatamente” i fatti allegati dall’altra parte, in difetto di che dovranno ritenersi provati senza necessità di istruzione.
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Perché escludere le controversie di lavoro? Sarebbe stato un ottimo strumento nei casi il cui il datore rifiuti di reintegrare o comunque riammettere in servizio il lavoratore vittorioso in giudizio!
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