Può essere licenziato il dipendente, qualora il proprio figlio utilizzi il cellulare aziendale per inviare (molti) sms?

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La risposta è SI.

La Suprema Corte ha ritenuto congruamente motivata la sentenza di appello che aveva rigettato l’impugnativa del lavoratore.

Il giudice di appello aveva ricostruito la condotta del ricorrente in tutti i suoi profili (soggettivo ed oggettivo) evidenziandone l’illiceità e la gravità anche in relazione all’art. 2106 cod. civ., nonchè l’entità del danno, sicchè l’addebito mosso (utilizzo del telefono cellulare aziendale per fini personali) era tale da far venir meno la fiducia del datore di lavoro nell’operato del dipendente (in tal senso ex plurimis Cass. sentenza n. 14507 del 29 settembre 2003; Cass. sentenza n. 6609 del 28 aprile 2003).

Cassazione civile , sez. lav., 09 luglio 2007, n. 15334

 

Fatto

Con ricorso, depositato il 9.7.2001, G.A., esponeva:
– di essere dipendente della Telecom Italia dal 1972 con mansioni di operaio tecnico con inquadramento nel 4 livello;
– di essere stato licenziato dalla datrice di lavoro con lettera del 1.2.2001, per avere utilizzato il cellulare di dotazione aziendale a titolo personale (invio di notevole quantità di messaggi).
Ciò premesso, conveniva in giudizio l’anzidetta società per sentir dichiarare l’illegittimità del licenziamento, con le conseguenti statuizioni di carattere restitutorio e retributivo.
All’esito dell’istruzione il Tribunale del Lavoro di Lecce con sentenza n. 5042 del 2003 respingeva il ricorso.
Tale decisione, appellata dal G., è stata confermata dalla Corte di Appello di Lecce con sentenza n. 2260 del 2004.
La Corte, precisati i termini della vicenda, ha osservato che i comportamenti contestati, consistiti nell’indebita utilizzazione per fini personali del telefono cellulare di dotazione aziendale, configuravano una giusta causa di recesso.
La stessa Corte ha ritenuto che la contestazione fosse stata tempestiva, essendo decorso un lasso di tempo di poco superiore a due mesi dal perdurante comportamento sanzionatorio, e che il provvedimento espulsivo fosse ampiamente giustificato sia dalla gravità della sanzione sia dall’entità del danno.
Quanto infine alla censura fondata sulla richiesta di applicazione di sanzione di tipo conservativo, la Corte ha rilevato che la conformità della condotta contestata alla previsione prevista dal Codice Civile e legale di giusta causa di licenziamento comportava l’irrilevanza dell’indagine di quale dovesse essere la contrattazione collettiva applicabile alla fattispecie, non essendo tassativa l’elencazione delle ipotesi di giusta causa contenuta nei contratti collettivi.
Contro la sentenza di appello il G. propone ricorso per cassazione con due motivi.
La Telecom Italia resiste con controricorso, illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c..
Diritto
1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione del principio di immediatezza della contestazione, nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. e della L. n. 300 del 1970, art. 7 commi 1 e 2.
Il G. osserva in particolare che la contestazione disciplinare non poteva considerarsi tempestiva, essendo intervenuta a distanza di un anno dopo l’inizio dell’infrazione e di sei mesi dopo la sua cessazione.
Il ricorrente aggiunge che, trattandosi di addebiti rilevabili da fatturazioni notoriamente bimestrali, l’abnormità del numero degli SMS e dei relativi importi era riscontrabile con la normale diligenza.
Il G. osserva ancora che il ritardo nella contestazione era stato voluto dalla Telecom per sanzionare il comportamento di esso ricorrente e dei suoi colleghi secondo quanto previsto dal nuovo contratto collettivo nazionale, entrato in vigore solo nel mese di ottobre 2000, prevedendo il contratto del 1996/1999 soltanto una sanzione conservativa, graduata tra il rimprovero e la sospensione del servizio per l’utilizzo di prodotti software di proprietà aziendale per finalità personali (viene richiamata sul punto la decisione della Corte di Appello di Roma del 3.3.2005).
Gli esposti rilievi sono privi di pregio e vanno disattesi.
La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del principio di immediatezza della contestazione, che secondo il costante indirizzo di questa Corte va inteso in senso relativo, non trattandosi di termine previsto a pena di decadenza, giacchè, ricostruite le vicende, ha rilevato che la Telecom ebbe piena conoscenza dei fatti solo dopo le segnalazioni ricevute dalla TIM e procedette ad indagare sugli abusi, provvedendo alla contestazione degli addebiti a distanza di due soli mesi dal perdurante comportamento sanzionato.
Trattasi di valutazione congruamente motivata e fondata su ragionevoli argomentazioni, a cui il ricorrente oppone un diverso apprezzamento, non consentito in sede di legittimità.
Il profilo della proporzionalità della sanzione rispetto agli addebiti contestati è comune al secondo motivo e viene esaminato in prosieguo.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia omessa valutazione di circostanze determinanti, nonchè motivazione illogica e contraddittoria e violazione dell’art. 2106 cod. civ..
Il ricorrente censura la sentenza impugnata, per avere, da un lato, omesso di rilevare che la Telecom, presentando un esposto nei confronti di G.A., suo figlio, e costituendosi parte civile nei confronti di quest’ultimo aveva, per facta concludentia, ritenuto verosimili le giustificazioni dei proprio dipendente, e, dall’altro lato, per avere ritenuto in modo apodittico che l’omessa vigilanza sull’uso del cellulare, nei confronti di un figlio ventenne, comportasse una così grave violazione del dovere di custodia da legittimare il licenziamento di un dipendente con oltre trenta anni di servizio mai censurati.
Il G. considera inoltre erronea l’impugnata decisione, per avere ritenuto che la conformità della condotta contestata alla previsione codicistica e legale di giusta causa di licenziamento comportasse l’irrilevanza dell’indagine circa l’applicabilità alla fattispecie della contrattazione collettiva, in considerazione della non tassatività delle ipotesi di giusta causa contenute nei contratti collettivi.
Al contrario, aggiunge il G., nel caso di specie l’indagine, ritenuta irrilevante dal giudice di appello, non avrebbe potuto essere omessa, proprio perchè il contratto collettivo del 1996/1999 prevedeva al massimo la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni e non la sanzione espulsiva e soltanto il nuovo contratto collettivo sanzionava con il licenziamento il comportamento contestato al dipendente.
La valutazione obiettiva della proporzionalità tra infrazione e sanzione, conclude il ricorrente, s’imponeva anche in relazioneall’art. 2106 cod. civ., tenendosi conto, oltre che dell’esistenza di infrazioni disciplinari, anche dell’intensità di una condotta dolosa.
Anche il secondo motivo non è fondato.
Sul punto va precisato che, secondo costante orientamento di questa Corte, l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per altro grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, alla sola condizione che tale grave inadempimento o tale grave comportamento, con apprezzamento di fatto del giudice di merito non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venir meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (ex plurimis Cass. n. 2906 del 2005, Cass. n. 16260 del 2004; Cass. n. 5372 del 2004).
Orbene, nel caso di specie la Corte territoriale, nel recepire il richiamato orientamento giurisprudenziale, ha valutato la condotta contestata al lavoratore sulla base della nozione legale di giusta causa di licenziamento ex art. 2119 cod. civ. e non sulla base delle ipotesi elencate dalla contrattazione collettiva.
Il giudice di appello sulla base di tale indirizzo correttamente ha ricostruito la condotta la condotta del G. in tutti i suoi profili (soggettivo ed oggettivo) evidenziandone l’illiceità e la gravità anche in relazione all’art. 2106 cod. civ., nonchè l’entità del danno, sicchè l’addebito mosso (utilizzo del telefono cellulare aziendale per fini personali) era tale da far venir meno la fiducia del datore di lavoro nell’operato del dipendente (in tal senso ex plurimis Cass. sentenza n. 14507 del 29 settembre 2003; Cass. sentenza n. 6609 del 28 aprile 2003).
Corretta e logica è anche la motivazione della sentenza impugnata circa la proporzionalità ed adeguatezza della misura del licenziamento, in relazione ai profili evidenziati in ordine alla condotta del dipendente, protrattasi nel tempo, e agli indebiti vantaggi conseguiti dal dipendente in danno della datrice di lavoro.
3. In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 29,00, oltre Euro 2000,00 per onorari, IVA, CPA e spese generali.
Così deciso in Roma, il 9 maggio 2007.
Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2007


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Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.




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