L’impugnazione del licenziamento deve essere recapitata al datore di lavoro entro 60 giorni, o è sufficiente che sia spedita entro detto termine?

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La breccia aperta dalla Corte Costituzionale, con le sentenze 26 novembre 2002 n. 477, 23 gennaio 2004 n. 28, 12 marzo 2004 n. 97, inizia a riverberare i suoi effetti anche in ambito stragiudiziale.

Con quelle sentenze, lo ricordiamo, si è stabilito il principio secondo cui il momento di perfezionamento della notifica per il soggetto onerato dalla comminatoria di decadenza deve distinguersi da quello di perfezionamento per il destinatario, a sua volta onerato da termini o da adempimenti: per il primo la decadenza è impedita attraverso la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario oppure all’agente postale, poiché sarebbe irragionevole imporgli effetti sfavorevoli di ritardi nel compimento di attività riferibili a soggetti diversi.
Con la sentenza in esame, la Cassazione afferma che anche in materia di impugnazione del licenziamento a mezzo di lettera raccomandata, gli effetti sono salvi se la lettera è spedita entro il termine di legge, a nulla rilevando l’effettiva ricezione.
Così facendo, cassa la sentenza della Corte d’Appello che invece, partendo dalla natura recettizia dell’atto, aveva considerato tardiva l’impugnazione del lavoratore perché sì spedita entro il termine di legge, ma giunta dopo.
La Corte afferma che questo principio di rilievo costituzionale può operare non solo nel campo processuale ma anche in quello del diritto sostanziale e tanto più il principio deve operare nel diritto del lavoro, quando si tratti della tutela contro il licenziamento illegittimo, ossia contro un mezzo che può privare il lavoratore dei mezzi necessari ad assicurare al lavoratore ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.).
Resta da chiedersi se la suddetta pronuncia troverà adesione anche delle altre sezioni della cassazione civile ordinaria, in ordine a tutti gli atti recettivi.
In effetti, soprattutto in tema di prescrizione, appare illogico che l’atto interruttivo debba essere recapitato entro il termine di legge, e non possa bastare l’intenzione manifestata con l’invio dell’atto, anche perché si pongono sul soggetto tutti i rischi legati alla spedizione che, ovviamente, sfuggono dalla sua sfera di controllo.
Ottima sentenza, quindi.

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 4 settembre 2008, n. 22287
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso del 9 giugno 2003 al Tribunale di Torino G. L. chiedeva dichiararsi l’illegittimità del licenziamento intimatogli il 20 giugno 2000 per superamento del periodo di comporto dalla datrice di lavoro srl cooperativa “La rosa blu”, con la conseguente condanna patrimoniale, nonché condannarsi la medesima società al risarcimento del danno anche non patrimoniale derivatogli dall’assegnazione a mansioni non adatte al suo stato di salute, ossia mansioni di autista raccoglitore di sacchi di carta invece che di addetto all’officina di riparazione di automezzi.
Costituitasi la convenuta, il Tribunale rigettava le domande con decisione del 5 gennaio 2004, confermata con sentenza del 21 aprile 2005 dalla Corte d’appello, la quale riteneva la decadenza del lavoratore dal potere d’impugnare il licenziamento, per essere stata ricevuta dalla datrice di lavoro la lettera d’impugnazione dopo la scadenza dei sessanta giorni di cui all’art. 6 1. 15 luglio 1966 n. 604.
Quanto alla domanda di risarcimento del danno da violazione dell’art. 2087 cod. civ., l’ampia istruttoria espletata non aveva dimostrato che le mansioni assegnate al L. fossero diverse da quelle a lui appartenenti né che alla società fosse soggettivamente imputabile l’infermità da lui lamentata.
Contro questa sentenza ricorre per cassazione il L. mentre la s.r.l. cooperativa “La rosa blu” resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo il ricorrente lamenta la violazione di “norme di diritto” (in realtà dell’art. 6 I. 15 luglio 1966 n. 604) e vizi di motivazione, per avere la Corte d’appello ritenuto la decadenza dal diritto di impugnare il licenziamento pur avendo il lavoratore impugnante spedito la relativa lettera quindici giorni prima della scadenza del termine di sessanta giorni stabilito dall’art. 6 cit. Ad avviso del ricorrente la non imputabilità a lui del ritardo nel recapito comporterebbe la necessità di considerare l’atto di impugnazione come non ricettizio, vale a dire di connettere l’effetto impeditivo della decadenza all’emissione della dichiarazione di volontà invece che alla sua ricezione da parte del destinatario. La diversa interpretazione, adottata dalla Corte d’appello, configgerebbe col principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, capoverso, Cost.
Il motivo è fondato.
La questione della natura, ricettizia o no, dell’atto di impugnazione del licenziamento, assoggettato al termine di decadenza di sessanta giorni dall’art. 6 cit., venne risolta in tempo non recente dalle Sezioni unite di questa Corte, in sede di composizione di un contrasto giurisprudenziale, con la sentenza 18 ottobre 1982 n. 5395. Si trattava, più precisamente, di stabilire se l’impugnazione giudiziale impedisse la decadenza attraverso il deposito in cancelleria del ricorso o se questo dovesse anche essere notificato alla controparte entro i sessanta giorni.
Le Sezioni unite si espressero nel secondo senso onde “salvaguardare fondamentali esigenze di certezza” e per “evitare l’insorgere di controversie in epoca lontana dai fatti con le intuitive difficoltà che ne conseguono in materia di prova per l’una e per l’altra parte”. A queste rationes decidendi si poteva già allora obiettare che le esigenze di certezza erano salvaguardate piuttosto dalla brevità del termine che dal carattere ricettizio dell’atto e che nel rito del lavoro la controversia, e quindi la necessità di raccogliere le prove, sorge già nel momento del deposito dell’atto introduttivo. Nel caso di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, poi, la lite giudiziaria poteva, e può, essere iniziata entro il più lungo termine di prescrizione (così la stessa sent. n. 5395 del 1982).
Non è, in definitiva, il più o meno breve spazio intercorrente fra emissione e ricezione della dichiarazione di volontà a pregiudicare la raccolta delle prove. La sentenza delle Sezioni unite venne seguita dalle conformi Cass. 2 marzo 1987 n. 2179, 17 marzo 1990 n. 2257, 6 aprile 1993 n. 4127, 29 gennaio 1994 n. 899, 21 settembre 2000 n. 12507, 13 dicembre 2000 n. 15696, 13 luglio 2001 n. 9554,21 giugno 2001 n. 8765,21 aprile 2004 n. 7625, 15 maggio 2006 n. 11116.
E’ però sopravvenuta una dottrina che, nella materia della decadenza, segnala l’opportunità di attribuire rilevanza agli ostacoli non imputabili al soggetto onerato e propone rimedi, non soltanto de iure condendo, per le ipotesi in cui egli non abbia potuto, senza colpa, esercitare un potere nell’imminenza della scadenza del termine.
Questa dottrina ha verosimilmente influito sulla giurisprudenza costituzionale la quale, in materia di decadenza processuale da impedire attraverso la notificazione di un atto, ha espresso il principio generale, fondato sulla ragionevolezza e sul diritto di difesa (artt. 3 e 24 Cost.), secondo cui il momento di perfezionamento della notifica per il soggetto onerato dalla comminatoria di decadenza deve distinguersi da quello di perfezionamento per il destinatario, a sua volta onerato da termini o da adempimenti: per il primo la decadenza è impedita attraverso la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario oppure all’agente postale, poiché sarebbe irragionevole imporgli effetti sfavorevoli di ritardi nel compimento di attività riferibili a soggetti diversi (Corte cost. 26 novembre 2002 n. 477, 23 gennaio 2004 n. 28, 12 marzo 2004 n. 97).
Questo principio di rilievo costituzionale può operare non solo nel campo processuale ma anche in quello del diritto sostanziale e conduce a rimeditare la sopra riportata soluzione, a suo tempo adottata dalle Sezioni unite. Anzi tanto più il principio deve operare nel diritto del lavoro, quando si tratti della tutela contro il licenziamento illegittimo, ossia contro un mezzo che può privare il lavoratore dei mezzi necessari ad assicurare al lavoratore ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.).
Per queste ragioni l’art. 410, secondo comma, cod. proc. civ. – secondo cui la comunicazione della richiesta del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza – è stato interpretato dalla Corte nel senso che il termine di decadenza per l’impugnazione del licenziamento viene sospeso col deposito dell’istanza di tentativo di conciliazione, contenente la detta impugnativa, presso la commissione di conciliazione, mentre è irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio
provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (Cass. 19 giugno 2006 n. 14087).
Questa decisione può essere generalizzata e può così enunciarsi la massima secondo cui l’impugnazione del licenziamento individuale è tempestiva, ossia impedisce la decadenza di cui all’art. 6, l. n. 604 del 1966, qualora la lettera raccomandata sia, entro il termine di sessanta giorni ivi previsto, consegnata all’ufficio postale ed ancorché essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine.
L’accoglimento del motivo di ricorso porta alla cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla corte d’appello di Genova che si pronuncerà uniformandosi al principio di diritto testé enunciato.
Col secondo motivo il ricorrente lamenta che la Corte d’appello non abbia accertato il danno ingiusto da lui sopportato e cagionato dal comportamento della datrice di lavoro, la quale lo assegnò dapprima alla manutenzione di autoveicoli e solo dopo il rientro da un grave infortunio gli assegnò le mansioni di raccoglitore di carta, più faticose e nocive alla salute. Il motivo non è ammissibile. Il ricorrente non indica alcuna norma di diritto su cui fondare la censura, così mancando di osservare l’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. Egli inoltre si riferisce ad una molteplicità di fatti e di circostanze ma senza indicare una precisa lacuna oppure una contraddizione nella motivazione della sentenza impugnata bensì piuttosto “errata interpretazione delle risultanze istruttorie” (così a pag. 3 del ricorso) e sollecitandocela sostanza, da questa Corte una nuova, impossibile valutazione delle medesime risultanze.

Il giudice di rinvio provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara inammissibile il secondo; cassa in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di anche per le spese.
Cosi deciso in Roma il 4 luglio 2008.
Depositata in cancelleria il 4 settembre 2008.


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Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.

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