Cass. 27379/2022 affronta correttamente la distinzione tra copia informatica e duplicato informatico.
I ricorrenti avevano dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 326 c.p.c., in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 5, e art. 161 c.p.c., comma 2, sul rilievo che la sentenza notificata in data 25.1.2017 costituiva un documento che, ancorché autenticato dall’avvocato, non poteva essere considerato un provvedimento giurisdizionale in quanto privo sia della sottoscrizione giudice in calce all’atto, sia della firma digitale, non presentando quel documento alcun segno grafico (coccarda e stringa) da cui si potesse presumere l’avvenuta sottoscrizione.
Pertanto, il legale della banca aveva autenticato un atto inesistente ex art. 161 c.p.c., e come tale inidoneo a far decorrere il termine breve ex art. 326 c.p.c., con la conseguenza che la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare come termine di decorrenza per la proposizione dell’appello quello della seconda notifica avvenuta in data 30.1.2017.
Il ricorso viene giudicato manifestamente infondato. Osserva la Corte che i ricorrenti, nel sostenere la nullità della notifica della sentenza di primo grado, effettuata in data 25.1.2017, per essere il documento privo di alcun segno grafico che attestasse l’esistenza della firma digitale, avevano, in modo evidente, confuso l’istituto del duplicato informato della sentenza sottoscritta telematicamente con quello della copia informatica della stessa.
I requisiti che i ricorrenti associavano al duplicato informatico appartengono, invece, alla copia informatica di un documento nativo digitale, la quale presenta effettivamente, sul bordo destro delle pagine, la “coccarda” e la stringa alfanumerica indicante i firmatari dell’atto/provvedimento, segni grafici, che sono generati dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari e che non rappresentano, peraltro, la firma digitale, ma una mera attestazione in merito alla firma digitale apposta sull’originale di quel documento (vedi Cass. n. 11306/2021).
Come si evince dal D.L n. 179 del 2012, art. 1, lett. i quinques, e art. 16 bis, comma 9 bis, (codice dell’amministrazione digitale), il duplicato informatico è il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario (che si misurano in bit).
Ne consegue che la corrispondenza del duplicato informatico (in ogni singolo bit) al documento originario non emerge (come, invece, nelle copie informatiche) dall’uso di segni grafici – la firma digitale è, infatti, una sottoscrizione in “bit”, una firma elettronica, il cui segno, restando nel file, è invisibile sull’atto analogico, ovvero sulla carta – ma dall’uso di programmi di algoritmi, che consentano di verificare e confrontare l’impronta del file originario con il duplicato (esattamente come affermato dalla Corte d’Appello).
Pertanto, correttamente il giudice d’appello ha affermato la non necessità di attestazione di conformità tra originale e duplicato (nel caso di specie, peraltro, tale attestazione è pure stata prodotta dalla banca), atteso che l’art. 23 bis del CAD (D.L. n. 179 del 2012) comma 1 recita che: “I duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle Linee guida”.
Alla luce delle predette considerazioni, l’assunto dei ricorrenti secondo cui il duplicato informatico della sentenza (notificato il 25.1.2017) sarebbe stato privo della firma digitale era frutto solo di un fraintendimento sul significato di duplicato informatico, e comunque si appalesava come di merito, in quanto finalizzato a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella operata dalla Corte d’Appello.
In conclusione, essendo la prima notifica della sentenza di primo grado del 25 gennaio 2017 (effettuata dalla banca) pienamente valida, correttamente la Corte d’Appello aveva fatto decorrere il termine breve per l’impugnazione da quella data.

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