Il regime di preclusione delle allegazioni dei fatti

Mirco Minardi

Estratto dall’ebook “Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato“.

6. IL REGIME DI PRECLUSIONE DELLE ALLEGAZIONI

Qual è il termine ultimo per allegare un fatto storico? Invano si cercherebbe una norma nel codice di rito che offra una risposta a questa fondamentale domanda. Ciò significa che le preclusioni in ordine all’allegazione dei fatti storici va ricavata dal sistema.

Prima di effettuare questa indagine, però, un chiarimento è necessario. Il verbo «allegare» ha un duplice significato. Da un lato esso è sinonimo di affermare, sostenere, addurre, esporre, etc.; dall’altro, esso significa produrre, depositare qualcosa. In questo paragrafo intendiamo riferirci al primo significato.

Attraverso le allegazioni le parti individuano i fatti rilevanti, prospettandone un’ipotesi ricostruttiva funzionale alla pretesa fatta valere in giudizio.

Le allegazioni vanno distinte dalle richieste probatorie, con le quali le parti chiedono e producono mezzi di prova al fine di dimostrare la veridicità delle proprie affermazioni in ordine ai fatti allegati. Come pure vanno distinte dalle domande e dalle eccezioni, con le quali le parti invocano gli effetti giuridici che assumono siano previsti dalla legge per i fatti allegati. 

I fatti rilevanti possono essere principali e secondari; quelli irrilevanti sono ininfluenti ai fini del decidere e non possono essere oggetto di prova. Sono principali i fatti dai quali dipende il diritto fatto valere, ovvero la sua modifica, estinzione, impedimento. I fatti secondari sono quelli, per così dire, di contorno che, al più, possono assurgere ad indizi.

Questo è quello che ci insegnano da sempre. Tuttavia, se ci spingiamo un po’ più a fondo notiamo che il fatto principale difficilmente (per non dire mai) è un solo evento della vita, bensì un insieme di circostanze collocate in una dimensione spazio-temporale.

Facciamo un esempio concreto. Prendo a prestito un brano tratto da una sentenza emessa dal Tribunale di Bari (sent. n. 1375/2009). Leggiamo in essa che: «Con libello citatorio notificato il 1°-2-2005 S.A., premesso che in data 9-8-2003, mentre transitava a piedi nel mercato ortofrutticolo rionale della via Montegrappa in Bari, era inciampata sul coperchio malposizionato di un tombino dell’A.Q.P., tra una bancarella e l’altra, rovinando violentemente sul manto stradale; che tale tombino, non presegnalato, non era facilmente visibile, in quanto era totalmente coperto dall’acqua di scarico proveniente dai numerosi banchi di vendita del pesce del mercato, peraltro affollato di gente; che aveva riportato gravi lesioni personali, le quali dovevano addebitarsi esclusivamente all’A.Q.P. S.p.A., proprietaria e responsabile della manutenzione del detto tombino ex art. 2051 c.c.; conveniva in giudizio la società per sentirla condannare al risarcimento di tutti i danni patiti, quantificabili nella complessiva somma di euro 15.158,62 o di altra di giustizia, maggiorata di interessi legali e danno da svalutazione monetaria dalla domanda al soddisfo».

Scomponiamo questo brano:

(a)        c’è l’attore;

(b)        che un giorno (9.8.03);

(c)        mentre transitava a piedi;

(d)        nel mercato ortofrutticolo rionale della via Montegrappa in Bari;

(e)        inciampava nel coperchio malposizionato di un tombino;

(f)         rovinando violentemente sul manto stradale;

(g)        il tombino era collocato tra una bancarella e l’altra;

(h)        il tombino era coperto dall’acqua di scarico;

(i)          l’acqua di scarico proveniva dai numerosi banchi di vendita del pesce del mercato;

(j)          il mercato era affollato di gente al momento del sinistro;

(k)        il tombino era di proprietà della soc. A.Q.P.;

(l)          a seguito della caduta l’attore aveva riportato gravi lesioni personali;

(m)     le lesioni erano da addebitarsi alla convenuta quale proprietaria e responsabile della manutenzione del tombino ex art. 2051 c.c.;

(n)        per tale ragione chiedeva il risarcimento dei danni indicando le relative conseguenze.

Qual è il fatto costitutivo di questa azione? Quali sono i fatti principali? Quali sono i fatti secondari? Prima di rispondere va ricordato che:

  • il fatto costitutivo deve essere compiutamente descritto nell’atto di citazione (cfr. art. 163);
  • la mancata esposizione dei fatti posti a fondamento della domanda rende la citazione nulla (cfr. art. 164);
  • la citazione nulla può essere sanata in tre modi: con la rinnovazione[1], con l’integrazione e con la non contestazione (cfr. artt. 164, 157, 115 primo comma c.p.c.);
  • i fatti principali – si afferma – possono essere allegati sino alla prima memoria del 183 salvo che siano conseguenza delle domande e delle eccezioni nuove sollevate in udienza; in tal caso possono essere allegati con la prima memoria;
  • i fatti secondari possono essere allegati, secondo alcuni, sino alla prima memoria «del 183», secondo altri il termine va determinato in base alla funzione: se sono funzionali alla prova diretta, il termine ultimo coincide con la seconda memoria «del 183», se sono funzionali alla prova contraria, il termine ultimo coincide con la terza memoria «del 183».

Ma attenzione: se i fatti principali possono essere allegati sino alla prima memoria «del 183» (e su questo pare non esistano dubbi) significa che essi sono cosa diversa dai fatti costitutivi, quanto meno nelle ipotesi di diritti eterodeterminati. Tutto ciò significa che la dicotomia fatti principali e fatti secondari non è esaustiva, come pure non è corretta l’equivalenza tra fatti costitutivi e fatti principali.

Nell’esempio sopra riportato, la fattispecie costitutiva è rappresentata dal fatto che l’attore, un certo giorno, in un certo luogo, è inciampato in un coperchio di un tombino di proprietà del convenuto subendo danni alla persona. Questo è il nucleo minimo ed essenziale del fatto costitutivo della pretesa azionata ed è questo contenuto minimo a rendere l’atto di citazione valido.

Ci sono però altri elementi: il tombino era malposizionato; era posto tra una bancarella e l’altra; era ricoperto d’acqua; l’acqua proveniva dalle bancarelle del pesce e il mercato era affollato.

Sicuramente, la posizione del tombino tra una bancarella e l’altra, l’affollamento del mercato e il fatto che l’acqua provenisse dalle bancarelle del pesce sono fatti secondari funzionali alla prova del nesso causale. Sono fatti secondari perché il loro accertamento positivo (fatto noto) può permettere di inferire l’idoneità causale della cosa e l’esclusione di una colpa concorrente o esclusiva del danneggiato (fatto ignorato). La loro prova non è essenziale ai fini del decidere ma può essere utile per decidere.

Il malposizionamento del coperchio e la copertura d’acqua sono fatti principali? La dottrina – lo abbiamo detto – ritiene che i fatti principali sono quei fatti che possiedono direttamente efficacia costitutiva, estintiva, modificativa e impeditiva del diritto fatto valere in giudizio, ma il fatto costitutivo, sotto un profilo naturalistico, è sempre un insieme di fatti.

Se così è, il malposizionamento del coperchio e la copertura dell’acqua non sono altro che “elementi della fattispecie costitutiva” e non fatti principali. E’ vero, infatti, che nell’azione ex art. 2051 c.c. il danneggiato non deve provare la pericolosità insita della cosa, tuttavia egli ha l’onere di provare l’esistenza di un efficace nesso causale tra la cosa e l’evento. Se ciò è vero, deve dedursi che oltre ai fatti principali vi sono ulteriori elementi di fatto che di per sé non possiedono direttamente efficacia costitutiva. Basti pensare al fatto che il solo accertamento del malposizionamento del coperchio, senza la dimostrazione che l’attore abbia effettivamente inciampato proprio in quel punto, non fornisce la prova definitiva del fatto.

Non è questa la sede per approfondire un tema complesso e sino ad oggi poco esplorato tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza, ma forse la distinzione «secca» tra fatti principali e fatti secondari non riesce a circoscrivere la variegata tipologia dei fatti che entrano nel processo, e probabilmente l’uso della locuzione “fatti principali” non è sempre corretto. Il fatto costitutivo, lo abbiamo visto, ha un nucleo essenziale che non può non esserci fin dall’inizio del giudizio, ma si compone anche di elementi che possono sopraggiungere nel corso del processo. Forse sarebbe più corretto parlare (senza pretesa di completezza) di:

  • fatti principali (costitutivi, impeditivi, modificativi, estintivi);
  • elementi della fattispecie (costitutiva, impeditiva, modificativa, estintiva);
  • fatti secondari.

Diventa allora corretto dire che con la prima memoria «del 183» si possono introdurre ulteriori elementi della fattispecie costitutiva come pure i fatti secondari. Non invece i fatti principali se con questi si intende un fatto costitutivo nuovo[2].

Pertanto, ritornando all’esempio fatto, ben avrebbe potuto l’attore indicare nella I memoria «del 183» che il coperchio era mal posizionato e che lo stesso era ricoperto d’acqua. Non si tratta di una allegazione tardiva, in quanto dette circostanze non introducono una nuova domanda.

Tutto questo per dire che nell’atto di citazione l’attore deve esporre i fatti costitutivi della domanda (art. 163 n. 4) perché la loro omissione ne determina la nullità (art. 164 n. 4). Lo stesso vale per il convenuto in ordine alla sua domanda riconvenzionale. Nella prima memoria ex art. 183 si potranno però introdurre nuovi elementi della fattispecie costitutiva nonché i fatti secondari.

In giurisprudenza sono stati ritenuti nulli perché carenti sotto il profilo dell’indicazione dei fatti:

(a)      l’atto di citazione con cui si eserciti l’azione revocatoria fallimentare senza fornire l’indicazione delle singole rimesse da revocare (Trib. Ivrea, 19/01/2004);

(b)      l’atto di citazione con cui si chieda la condanna al risarcimento dei danni derivanti da un articolo diffamatorio, senza indicare le notizie ritenute non vere e le espressioni ritenute diffamatorie (Trib. Roma 29/05/1997);

(c)      l’atto di citazione con cui si impugni il bilancio di una società, senza allegare quale sia la delibera assembleare che l’ha approvato e quali siano le ragioni che lo inficiano (Trib. Ivrea, 1/12/2004);

(d)      l’atto di citazione che contenga due domande principali tra loro incompatibili (Cass. 14 luglio 1951, in Foro it., Rep. 1951);

Va comunque evidenziato che la nullità della citazione, in riferimento alle modalità di indicazione dell’oggetto sussiste solo nel caso di totale omissione o assoluta incertezza del petitum inteso, sotto il profilo formale, come il provvedimento giurisdizionale richiesto, e, sotto quello sostanziale, come il bene della vita di cui si domanda il riconoscimento, tenendo conto che l’indeterminatezza dell’oggetto della domanda, per produrre nullità, deve essere «assoluta», come appunto stabilisce detta norma (Cass. 28986/2008). In ogni caso, poi, il giudice deve interpretare la domanda facendo riferimento non solo alla sua letterale formulazione, ma anche al sostanziale contenuto delle pretese, con riguardo alle finalità perseguite nel giudizio. Pertanto, non può ritenersi nulla la citazione per omessa determinazione dell’oggetto della domanda, qualora il petitum sia individuabile attraverso un esame complessivo dell’atto, tenendo presente che, per esprimerlo, non occorre l’uso di formule sacramentali o solenni, poiché è sufficiente che esso risulti dal complesso delle espressioni usate dall’attore in qualunque parte dell’atto introduttivo (Cass. 18783/2008)[3].

E’ bene ricordare che la rinnovazione della citazione (se il convenuto non si è costituito) o la sua integrazione (se il convenuto si è costituito) ha effetti ex nunc, pertanto non impedisce le decadenze nel frattempo verificatesi (ad es. il decorso della prescrizione).

Di fronte ad un atto mancante della descrizione dei fatti rilevanti, il convenuto ha l’onere di eccepire tempestivamente la nullità della citazione (o del ricorso), in quanto secondo la giurisprudenza del S.C. si tratta di una nullità sanabile ex art. 164 c.p.c., comma 5; norma quest’ultima estensibile anche al processo del lavoro. Corollario di tali principi è che la mancata fissazione di un termine perentorio da parte del giudice, per la rinnovazione del ricorso o per l’integrazione della domanda, e la non tempestiva eccezione di nullità da parte del convenuto ex art. 157 c.p.c. del vizio dell’atto, comprovano l’avvenuta sanatoria della nullità del ricorso dovendosi ritenere raggiunto lo scopo ex art. 156 c.p.c., comma 2, (cfr. in tali sensi : Cass., Sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353, cui adde tra le tante : Cass. 14 giugno 2007 n. 13878; Cass. 20 marzo 2006 n. 6154; Cass. 14 ottobre 2005 n. 19900).

Occorre peraltro un chiarimento. Il giudice che al momento della decisione rilevi la mancanza dei fatti principali e l’assenza di una eccezione del convenuto costituito, non può accogliere la domanda attorea qualora non sia in grado di ricostruire la causa petendi o il petitum, né è possibile a quel punto alcuna integrazione dell’atto, ma dovrà rigettare la domanda[4].

Procediamo oltre. Nella fase successiva alla notifica della citazione e al deposito della comparsa di risposta il potere di allegazione dei fatti principali (sempre che non introducano una nuova causa petendi) e degli elementi della fattispecie costitutiva può derivare:

  • dall’esercizio dello jus poenitendi, senza che sia necessaria una autorizzazione del giudice; oppure
  • dalla dialettica processuale, cioè in conseguenza delle domande, eccezioni e difese avversarie.

Nel primo caso, il potere di allegazione trova un termine nella prima memoria ex art. 183 c.p.c., destinata alla precisazione e modificazione delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte. Dopo questa memoria non sarà più possibile allegare nuovi fatti principali e nuovi elementi della fattispecie costitutiva.

Nel secondo caso, invece, la parte potrà sempre continuare ad allegare fatti fin tanto che avrà il potere di replicare alle domande e alle eccezioni nuove e modificate dall’altra parte. Il potere di allegazione con funzione difensiva, dunque, potrà continuare anche nella terza memoria ex art. 183 se e nella misura in cui sia conseguenza del corretto sviluppo della dialettica processuale.

Si tratta di un passaggio fondamentale che vale la pena di evidenziare. In altre parole, sino a quando una parte può proporre o modificare domande ed eccezioni, l’altra ha il potere di allegare fatti in risposta; in caso contrario vi sarebbe la manifesta violazione del diritto costituzionale di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione.

Vediamo ora il potere di allegazione dei fatti secondari che, come abbiamo detto, sono rappresentati dalle allegazioni che non incidono sulla costituzione, estinzione, modificazione e impedimento di un diritto. Essi, in genere, non rappresentano elementi decisivi per la causa, tuttavia possono assurgere ad indizi in grado di determinare il convincimento del giudice, soli (se sono gravi, precisi e concordanti) oppure unitamente ad altri elementi di prova. Sotto questo ultimo aspetto, si pensi al caso in cui vi siano testimonianze contrapposte e il giudice propenda per una delle due versioni alla luce dei fatti secondari emersi in giudizio.

Giurisprudenza

«La presunzione legale iuris tantum (quale quella di cui all’art. 1298, II comma, c.c. ai sensi del quale, in tema di ripartizione interna dell’obbligazione solidale, “Le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente”), dà luogo soltanto all’inversione dell’onere probatorio e può essere superata attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti». Nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito che ha ritenuto provata l’esclusiva appartenenza al marito delle somme depositate su un conto corrente cointestato al medesimo e alla moglie sulla base dei seguenti fatti secondari: precedente intestazione al marito di un conto con depositi di importo superiore, brevissima durata del matrimonio, impossibilità di risparmi familiari apprezzabili (Cass. civ. n. 1087/2000). 

Poiché è esclusa (sempre) la possibilità che il giudice possa utilizzare la sua scienza privata, anche i fatti secondari debbono essere allegati o quanto meno acquisiti al processo. La questione però è: fino a quando è possibile per la parte allegare fatti secondari?

Al riguardo le opzioni possibili per l’individuazione della barriera preclusiva sono tre: prima memoria ex art. 183; seconda memoria ex art. 183; terza memoria ex art. 183.

Secondo alcuni autori[5] il fatto secondario è funzionale alla prova, pertanto il limite sarà dato dalla seconda memoria, se si tratta di un fatto secondario funzionale alla prova diretta e dalla terza memoria, se si tratta di un fatto secondario funzionale alla prova contraria. Altri[6] hanno sottolineato che il fatto secondario può anche emergere nel corso della stessa assunzione della prova e utilizzato ai fini della decisione.

A mio parere, il fatto secondario, al pari del fatto principale, deve essere allegato entro la prima memoria ex art. 183 c.p.c. in quanto l’altra parte ha il diritto di contestare e di difendersi in ordine sia ai fatti principali, sia a quelli secondari, tenuto soprattutto conto che il giudice potrebbe fondare la propria decisione anche (e solo) su questi. Non mi pare poi decisiva l’affermazione che vorrebbe inesistente una barriera preclusiva sulla base del rilievo che i fatti secondari potrebbero emergere anche nel corso della deposizione testimoniale. Occorre infatti distinguere quelli che sono gli oneri di allegazione delle parti, da quelli che possono essere i possibili sviluppi dell’istruttoria a seguito di testimonianze, ctu, ispezioni, ecc.

Sulla questione dell’allegazione dei fatti occorre segnalare una pronuncia «fuori dal coro» della Suprema Corte (sent. n. 20581/2004) che pur non avendo affrontato direttamente la questione del limite temporale della loro allegazione ha ritenuto ammissibile la capitolazione della prova diretta effettuata dalla parte costituitasi direttamente all’udienza «del primo 184», in un giudizio post riforme del ’90-’95. Si legge nella sentenza che «la finalità a cui è ispirata la sequenza temporale di cui agli artt. 180, 183 e 184 c.p.c. ed il conseguente sistema delle preclusioni è costituita infatti dall’esigenza di assicurare il contraddittorio ed il diritto di difesa. È pertanto nella disponibilità delle parti l’eventuale ampliamento del thema decidendum, possibile fino al momento della precisazione delle conclusioni, anche a seguito della riforma introdotta dalla legge n. 353/90 (Cass. Sez. Un. 1731/96). Di conseguenza, in caso di costituzione del convenuto oltre la prima udienza di trattazione, i mezzi di prova articolati dal medesimo devono ritenersi ammissibili se dedotti quando non è ancora chiusa l’istruttoria senza incontrare alcuna opposizione dalla parte dell’attore».

Nella fattispecie decisa dalla Corte, il convenuto aveva eccepito la nullità di un contratto di vendita di immobile perché dissimulante un patto commissorio e aveva articolato specifiche prove volte a dimostrare la sua difesa. Dalla sentenza citata parrebbe altresì ricavarsi il principio per cui l’allegazione di fatti nuovi non costituisce eccezione rilevabile d’ufficio, bensì proponibile solo dalla parte.

A questa pronuncia si oppongono, però, molte altre sentenze, anche più recenti, le quali hanno invece statuito che «nel sistema successivo alla novella della L. n. 353 del 1990, il regime di preclusioni introdotto nel rito civile ordinario riformato deve ritenersi inteso non solo a tutela dell’interesse di parte, ma anche dell’interesse pubblico al corretto e celere andamento del processo, con la conseguenza che la tardività di domande, eccezioni, allegazioni e richieste deve essere rilevata dufficio dal giudice indipendentemente dall’atteggiamento processuale della controparte al riguardo», (Cass. civ. n. 25242/2006; id. 4376/2000).

A me pare evidente che non si può chiedere la prova di ciò che non è stato tempestivamente allegato, come chiarito recentemente anche dal Tribunale di Piacenza (sent. 30/11/2009, giudice Morlini) secondo cui «Nell’ambito di un processo a preclusioni rigide, quale quello vigente nel nostro ordinamento sin dal vigore della legge n. 353/1990, il diritto alla prova può essere esercitato solo relativamente a fatti tempestivamente allegati e quindi relativamente a fatti dedotti prima dello spirare delle preclusioni assertive. La parte che si costituisce dopo la prima delle tre memorie ex art. 183 c.p.c. deve essere dichiarata decaduta dalla possibilità di articolare mezzi di prova, quand’anche non sia ancora scaduto il secondo termine».

La sentenza n. 20581/2004 della Corte merita però adesione laddove fa riferimento al potere dispositivo delle parti. In effetti, allorquando la Cassazione afferma che la violazione delle preclusioni deve essere sempre e comunque rilevata d’ufficio dal giudice, in ossequio al principio di concentrazione, celerità e corretto andamento del processo, omette di considerare che non sempre la violazione delle preclusioni comporta la violazione dei detti principi. Si pensi all’ipotesi in cui la parte produca un documento all’udienza fissata per le prove e l’altra parte non eccepisca la tardività, bensì semplicemente l’irrilevanza, quale vulnus è stato creato al sistema? Afferma lucidamente Costanzo Cea che in questi casi «non c’è lesione del valore della concentrazione processuale, sicché consentire il rilievo ufficioso del vizio derivante dal mancato rispetto delle preclusioni significa rinunciare a fare entrare nel processo ulteriori elementi probatori che potrebbero contribuire alla formazione di una decisione “giusta”, in quanto fondata sull’accertamento veritiero dei fatti» [7]. 

Discorso a parte è quello dei fatti sopravvenuti allo scadere dei termini. è pacifico che la preclusione delle allegazioni non possa impedire l’allegazione e la richiesta di prova in ordine ai fatti nuovi sopraggiunti nel corso del processo, quanto meno fino all’udienza di PC[8]. Le posizioni si dividono allorquando si tratta di stabilire il modo di introdurre nel processo detti fatti, ovverosia se occorra o meno un provvedimento del giudice. È per l’ammissibilità automatica delle nuove deduzioni (senza dunque la necessità di remissione in termini, sia per lo jus che per il factum superveniens) il Tarzia[9], il quale ritiene che l’eccezione all’operare del regime delle preclusioni sia necessaria in considerazione della garanzia della difesa e che quindi non sia opportuna la sottoposizione a provvedimento discrezionale del giudice. Di diverso avviso il Balena[10], che fa rientrare lo jus e il factum superveniens tra i motivi che giustificano il provvedimento di remissione in termini da parte del giudice. La Suprema Corte ha affermato che, in ogni caso, l’allegazione deve essere necessariamente fatta con il primo atto difensivo utile (Cass. civ. n. 14131/2006).

Anche qui, per scrupolo difensivo, la soluzione migliore è quella di allegare i fatti con la prima difesa utile, specificando che qualora si ritenesse irrituale detta allegazione, si chiede la rimessione in termini ex art. 153, secondo comma (già art. 184 bis c.p.c.).

 

Voglio soffermarmi ancora sulla allegazione, in relazione alla problematica del danno non patrimoniale. Non ripercorrerò tutta la travagliata elaborazione – ancora in atto – di questo danno; mi preme qui evidenziare come certe usanze non possano più essere accettate, specie alla luce dell’ultimo arresto delle Sezioni unite (sent. n. 26972/2008). È infatti ancora invalsa la prassi di richiedere il “risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali” sic et simpliciter, senza cioè allegare gli specifici danni, ciò sulla scorta di una giurisprudenza di legittimità secondo cui: «La richiesta risarcitoria di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali comprende necessariamente le singole voci, anche se dovesse mancare una specifica domanda in proposito, in quanto la richiesta, per la sua omnicomprensività, esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno» (vedi Cass. civ. n. 2869/2003; Cass. civ. n. 7975 del1997; Cass. civ. n. 8216 del 1995; Cass. civ. n. 1955 del 1995 Cass. civ. n. 8787 del 1994; Cass. civ. n. 4909 del 1996).

Giurisprudenza

«In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, proposta dal danneggiato nei confronti del soggetto responsabile, per la sua onnicomprensività esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, con la conseguenza che solo nel caso in cui nell’atto di citazione siano indicate specifiche voci di danno, l’eventuale domanda proposta in appello per una voce non già indicata in primo grado, costituisce domanda nuova, come tale inammissibile».

Cass. civ. sent. 11761/2006

Questo indirizzo è stato ribadito anche di recente. Si legge, ad esempio, in Cass. civ. 26505/2009: « 2.1. In via preliminare, va rilevato che, avendo i T. sempre concluso, sia in primo che in secondo grado, per il riconoscimento a loro favore del risarcimento “di tutti i danni conseguenti alla morte di T.A.”, la specificazione da parte loro (ad esempio, nella memoria del 13.9.01, depositata ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 183 c.p.c., comma 5) dei singoli danni di cui veniva invocata la liquidazione non può essere correttamente interpretata, come ha fatto la Corte territoriale, quale volontà di delimitare il petitum, giacché tale specificazione non va oltre un valore puramente esemplificativo. Infatti, quella locuzione “tutti i danni” risulta comunque indicativa della loro volontà di conseguire un integrale risarcimento di tutte le voci di danno che fossero legittimamente indennizzabili nel caso di specie. 2.2. Va, quindi, rilevato che complessivamente la Corte di merito ha confermato acriticamente la sentenza di primo grado, senza tener conto in particolare della significativa evoluzione (a partire dalle sentenze gemelle nn. 8827/03 e 8828/03) della giurisprudenza di questa S.C. nel campo di una più precisa definizione del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., sollecitata dalla sempre più sentita esigenza di garantire l’integrale riparazione del danno ingiustamente subito, non solo nel patrimonio inteso in senso strettamente economico, ma anche nei valori propri della persona (art. 2 Cost.). In particolare, la sentenza impugnata ha trascurato di valutare un dato ormai acquisito nell’ordinamento positivo, e cioè l’avvenuto riconoscimento di una più lata estensione della nozione di “danno non patrimoniale, inteso ormai come danno da lesione di valori inerenti alla persona e non più solo come “danno morale soggettivo”. Ed invero, la Corte salernitana, omettendo di adeguarsi al più aggiornato indirizzo giurisprudenziale di questa S.C. in subiecta materia, si è limitata a confermare in favore degli odierni ricorrenti in via incidentale la statuizione del primo giudice circa la quantificazione del danno morale, inteso quest’ultimo nel suo significato originario e tradizionale di sofferenza d’animo interiore di tipo soggettivo, senza sostanzialmente esaminare – sia pure criticamente – le doglianze svolte dai medesimi nell’appello incidentale e dirette ad ottenere, in primo luogo, il risarcimento liquidabile ai figli conviventi per la morte del genitore secondo le tabelle applicate dal Tribunale di Milano».

La Corte, dunque, sembra voler confermare il tradizionale orientamento che premia i difensori più superficiali e condanna quelli più diligenti. Difatti, i primi possono limitarsi a chiedere tutto genericamente; i secondi, invece, che ricostruiscono i pregiudizi in maniera analitica, rischiano di vedersi rigettare le domande non tempestivamente formulate.

Vediamo allora quali sono le motivazioni della Cassazione. Il principio, si dice, riposa sulla base dell’elemento volontaristico della domanda e su quello dell’unità del diritto al risarcimento del danno. Quest’ultimo (sia da inadempimento contrattuale che da illecito extracontrattuale) ha come logico corollario, sul piano processuale, il principio della c.d. infrazionabilità o inscindibilità del giudizio di liquidazione del danno, il quale esige che alla liquidazione, di regola, si faccia luogo, salve limitate eccezioni, in un unico, complessivo contesto e quindi in un solo processo.

L’unitarietà del diritto al risarcimento ed il suo riflesso processuale dell’ordinaria infrazionabilità del giudizio di liquidazione (scaturente dal rispetto dei canoni della concentrazione e della correttezza processuale) comportano, dunque che, quando un soggetto agisce in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta. Pertanto, quale ulteriore logica conseguenza, non è ammissibile che taluno agisca in giudizio per il risarcimento del danno esponendo all’uopo determinate voci e, poi, definito il giudizio con il giudicato, agisca ex novo per il risarcimento di altri danni derivanti dallo stesso fatto ma in relazione a nuove voci, diverse da quelle prima esposte. Pertanto, solo nel caso in cui nell’atto di citazione siano indicate specifiche voci di danno l’eventuale domanda relativa ad una voce diversa proposta in appello è inammissibile per novità (ex art. 345 c.p.c.). Inoltre, sempre secondo la Cassazione, nel caso in cui le conclusioni vengano precisate in forma analitica, deve intendersi abbandonata ogni domanda od eccezione precedentemente formulata e non riproposta nelle conclusioni, proprio per la funzione che ha la precisazione delle conclusioni. Ne consegue che, in materia di responsabilità aquiliana, ove con l’atto di citazione sia chiesto genericamente il risarcimento di “tutti i danni”, mentre nel precisare le conclusioni venga domandato soltanto il risarcimento del danno morale e di quello patrimoniale, deve intendersi rinunciata la domanda di risarcimento del danno biologico (cfr. Cass. 11 marzo 1998, n. 2673; Cass. n. 10748-1993).

Durerà ancora nel tempo questo orientamento? La risposta mi sembra debba essere negativa, anche alla luce di quanto affermato dalle sezioni unite nella sentenza n. 26972/2008 (v. punto 4.10):

«Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di “danno evento”. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003. E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.

Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (artt. 138 e 139 d. lgs. n. 209/2005) richiede l’accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico- legale, non solo nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perché deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalendosi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni. Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto».

Ciò significa che, ad esempio, non sarà più sufficiente chiedere il ristoro, sic et simpliciter, del danno morale ma bisognerà allegare in che cosa è consistita questa sofferenza, questo patema d’animo. In un caso di danno estetico si potrà spiegare al giudice che l’attore soffre terribilmente da quando il suo volto è rimasto sfigurato; che si è ritirato dalla vita sociale; che ha difficoltà a relazionarsi con l’altro sesso; che vive continuamente una situazione di disagio; che si vergogna di parlare in pubblico; che si sente inferiore agli altri; che vive perennemente la sensazione di essere deriso; ecc. Ecco, questo è ciò che si definisce «allegare» un pregiudizio.

Lo stesso vale per il danno biologico e in genere per tutti i danni; non basta dire che l’attore ha subito «gravi lesioni personali», ma occorrerà fornire la storia clinica.

Alla luce di quanto sopra emerge come sia importante adottare una tecnica di redazione degli atti quanto più precisa possibile al fine di non incorrere nel rischio di vedersi rigettare le domande per difetto di allegazione.

Ma rimane un problema: è lecito specificare con la prima memoria un danno indicato genericamente, ad esempio, come non patrimoniale o patrimoniale? Facciamo un esempio per capire meglio. Se in citazione ho richiesto il risarcimento «di tutti i danni non patrimoniali», posso con la prima memoria «del 183» allegare per la prima volta che l’evento dannoso mi ha procurato anche un pregiudizio di tipo esistenziale?

La S.C., come abbiamo visto, pare, e sottolineo pare, continui a rispondere affermativamente al quesito. A mio parere, e non solo il mio, la risposta è negativa per le seguenti ragioni:

(a)          la parte ha l’onere di indicare in citazione i fatti costituenti le ragioni della domanda (cfr. art. 163);

(b)          di ciascuna voce di danno, pertanto, occorre allegare i fatti a fondamento;

(c)           la mancata allegazione dei fatti determina la nullità dell’atto (cfr. art. 164);

(d)          la locuzione «tutti i danni» è generica e non contiene in sé alcun fatto; anche le locuzioni «danno patrimoniale» e «danno non patrimoniale» sono categorie giuridiche che di per sé non indicano nulla di concreto. Si colorano di contenuto attraverso l’enucleazione degli specifici beni della vita lesi: ad es. il danno al rachide cervicale, il danno per la sofferenza subita a seguito del decesso di un congiunto, il danno all’autovettura e così via;

(e)          la puntuale allegazione soddisfa più requisiti: individuare l’oggetto del contendere, permettere alla controparte di difendersi, consentire al giudice di avere la cognizione di causa già all’udienza di trattazione;

(f)            la richiesta generica di «risarcimento di tutti i danni» frustra tutte le esigenze e si pone in contrasto con gli artt. 163 e 164;

(g)          non si comprende per quale ragione le domande di condanna al risarcimento dei danni ricevano un trattamento diverso rispetto alle altre domande.

D’altra parte l’art. 183 parla di «precisare» e «modificare» le domande. In questo caso siamo al di fuori della precisazione, ci troviamo infatti nel campo della introduzione ex novo di un fatto. Dire che solo perché si è chiesto il risarcimento di tutti i danni non patrimoniali si possa nella prima memoria «del 183» allegare i relativi pregiudizi, significa violentare il processo e la sua struttura dialettica.

Senza contare che in questo modo il convenuto viene offeso nel suo diritto di difesa: come può infatti sollevare eccezioni se l’altra parte non scopre le carte? Per il convenuto non è indifferente sapere se l’attore intende chiedere il danno patrimoniale da perdita di guadagno, visto che in questo caso potrà sollevare determinate eccezioni e non altre. Come pure non gli è indifferente sapere se il danno all’autovettura sia riferito anche al fermo tecnico o al solo costo per le riparazioni della carrozzeria. E ancora non gli è indifferente sapere se si invoca un danno da perdita del rapporto parentale, visto che in tal caso potrebbe eccepire l’inesistenza dell’affectio per intervenuta separazione giudiziale, e così via.

In conclusione, ritengo che l’atto di citazione debba contenere i fatti costituenti le ragioni della domanda, non essendo sufficiente il mero richiamo alla categoria del danno non patrimoniale o del danno patrimoniale. Ma soprattutto sono del parere che sia alquanto pericoloso continuare a fare affidamento su questo orientamento della Cassazione che, dall’oggi al domani, potrebbe invertire rotta, come già abbiamo sperimentato in tante altre situazioni.

Alla luce di quanto sopra, ritengo che la soluzione migliore sia quella di indicare sin dall’atto introduttivo tutte le circostanze di fatto a sostegno delle proprie richieste.



[1] La rinnovazione può essere effettuata direttamente dalla parte prima dell’udienza, non essendo necessario (anche se possibile) attendere l’autorizzazione del giudice; Cass. 17951/2008.

[2] Diverso è però il discorso per i diritti autodeterminati, posto che questi non sono individuati dai fatti costitutivi (v. supra cap. 3)

[3] Non costituisce ipotesi di nullità la mancata indicazione del quantum della pretesa: «L’onere di determinazione dell’oggetto della domanda è validamente assolto anche quando l’attore ometta di indicare esattamente la somma pretesa dal convenuto, a condizione che abbia però indicato i titoli posti a fondamento della propria pretesa, ponendo in tal modo il convenuto in condizione di formulare le proprie difese», (Cass. 28.5.2009, n. 12567, Mass. Giur. It., 2009).

[4] Talvolta si leggono massime (come quella riportata di seguito) le quali affermano che la costituzione del convenuto non sana la nullità della citazione carente sotto il profilo dell’allegazione dei fatti. Il principio, a mio avviso, non è corretto se applicato indistintamente a tutti i casi. Si supponga che l’attore evochi in giudizio il convenuto per chiedere il risarcimento dei danni da sinistro stradale, omettendo completamente di riferire dove è avvenuto il sinistro, in che giorno, e quali mezzi sono rimasti coinvolti. Si supponga, però, che il convenuto nella sua comparsa di risposta descriva analiticamente il sinistro, indicando giorno, ora, luogo, seppure allegando una diversa dinamica. In tal caso è indubbio che la citazione è sanata avendo raggiunto il suo scopo. Per un esempio del primo orientamento v. la seguente massima: «I vizi della citazione riguardanti la editio actionis non solo sono rilevabili anche di ufficio dal giudice, ma neppure sono sanati dalla costituzione in giudizio del convenuto, essendo questa inidonea, di per se, a colmare le lacune della citazione, che compromettono il suo scopo di consentire non solo al convenuto di difendersi, ma anche al giudice di emettere una pronuncia di merito sulla quale dovrà formarsi il giudicato sostanziale. La costituzione del convenuto, in se considerata, nulla aggiunge al contenuto carente della citazione, che resta pertanto inidonea al conseguimento del suo scopo, sopra indicato; sicchè non può farsi applicazione dell’art. 156 c.p.c., comma 3. Nè può farsi applicazione dell’art. 157 c.p.c., essendo la nullità in questione prevista in funzione di interessi che trascendono quelli del convenuto ed è, quindi, rilevabile anche d’ufficio, come si ricava dallo stesso testo novellato dell’art. 164 c.p.c.», (Cass. 18.12.2007, n. 26662).

[5] Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Jovene.

[6] Marelli, La trattazione della causa nel regime delle preclusioni, Cedam.

[7]  Cea, La trattazione della causa nel rito ordinario, www.judicium.it.

[8] Nella famosa sentenza n. 16571 del 2002, la Suprema Corte ha affermato in obiter dictum che “la preclusione non si verifica in relazione ai fatti sopravvenuti”.

[9] Tarzia, Lineamenti del processo di cognizione, Giuffrè, 2006.

[10] Balena, La riforma del processo civile di cognizione, E.S.I., 2004.


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Mirco Minardi

Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.

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14 commenti:

  1. Galassi raffaella

    Gentile avvocato,
    in materia di ripetizione di indebito le SS.UU. Cassaz. sent. n. 18046 /2010 hanno stabilito il principio che , in tema di indebito, anche previdenziale, ove l’accipiens chieda l’ accertamento negativo della sussistenza del suo obbligo di restituire quanto percepito egli DEDUCE NECESSARIAMENTE IN GIUDIZIO IL DIRITTO ALLA PRESTAZIONE GIA’ RICEVUTA, ossia un titolo che consenta di qualificare come adempimento quanto corrispostogli dal convenuto , SICCHE’ EGLI HA L’ ONERE DI PROVARE I FATTI COSTITUTIVI DI TALE DIRITTO.
    Cio’ detto mi chiedo nel caso in cui il convenuto abbia agito in riconvenzionale per la restituzione dell’indebito, come si distribuisce l’ onere della prova?

  2. Mirco Minardi

    @Galassi: la questione è stata oggetto di interventi diversi; si è ad esempio ritenuto che in questo caso gravi su entrambi l’onere della prova. Quale sia l’orientamento più recente non saprei dire, bisognerebbe fare una ricerca.

  3. Avv. Flavio Cataldo

    Gentile collega,
    ho una causa pendente innanzi al Trib. Vallo Della Lucania in cui difendo l’appaltatore che agisce per il pagamento del saldo dei lavori. In sede di costituzione e risposta il committente ha lamentato l’esistenza di alcuni specifici vizi nell’esecuzione dell’opera ed ha chiesto – in riconvenzionale – la riduzione del corrispettivo. Poi in sede di deposito di Memoria ex art. 183 C.p.C. 1 termine ha sollevato l’esistenza di nuovi ed ulteriori vizi, ( es nella comparsa lamentava alcune lesioni all’intonaco; successivamente in memoria ha lamentato vizi nella costruzione di un camino). Ho contestato quanto sopra perché ritengo l’allegazione di questi nuovi vizi tardiva, sia ex art. 1667, CC sia – soprattutto perché trattasi di fatti costitutivi della domanda che dovevano necessariamente essere allegati nella Comparsa di Costituzione e Risposta, ex art. 167 C.p.C. Vorrei anche un suo parere. Grazie Flavio.

  4. Mirco Minardi

    @Flavio: se si tratta di aggravamento non c’è problema, se si tratta di nuovi vizi in effetti ci può essere qualche problema, ma bisogna capire bene la portata del principio stabilito recentemente dalle S.U. in tema di domanda nuova

  5. Gennaro

    in tema di azione di riduzione l’attore legittimario ha allegato i fatti costitutivi (donazione lasciti vari . testamento etc.etc.) dai quali è facile evincersi la lesione della legittima. Il giudice Istruttore dispone ctu per accertare ed quantificare la lesione della legittima..
    espletata la ctu, precisate le conclusioni, il collegio giudicante chiede che il ctu determini in denaro di quanto la lesione ha pregiudicato la legittima. Il ctu determina la lesione della legittima nella misura di euro 6.000,00. In sentenza il collegio rigetta la domanda dopo 15 anni di istruttoria, in quanto l’attore non ha dato la prova della lesione della legittima e che la ctu non essendo un mezzo di prova non poteva sopperire alla carenza di allegazione a carico dell’attore secondo il principio di disponibilità che impone a chi inizia la causa di dare la prova dei fatti costitutivi della fattispecie dedotta in giudizio, Nel caso di specie afferma il collegio la ctu è stata disposta in funzioni esplorativa e, pertanto la stessa è da dichiarasi nulla.. A tuo Parere l’attore ha assolto all’onere di allegazione producendo tutti i documenti dai quali è facile ricostruire il patrimonio (asse ereditario) benché non abbia indicato specificatamente il quantum della lesione, ma avendo indicato in citazione che vi era nei fatti come narrati la lesione della legittima. E’ secondo il tuo parere opportuno appellare la sentenze e sopratutto se nel caso di specie, la ctu possa essere considerata percipiente e nello stesso tempo deducente , in considerazione della difficoltà da parte dell’attore dimostrare la lesione della legittima che si sostanzia in ultima analisi in un operazione tecnica e contabile che solo un specialista del settore può correttamente effettuare. Gradirei un tuo parere. Ringrazio anticipatamente. Avv. Gennaro PUGLIESE

  6. Federico

    Avvocato buona sera e complimenti per l’intervento.
    Avrei una domanda: avendo effettuato un atto di citazione per il pagamento di determinate fatture, abbiamo redatto un atto stringato elencante gli obblighi contrattuali di entrambe le parti – per diverse motivazioni non potevamo effettuare un ricorso per decreto ingiuntivo – . Controparte, in risposta, ha dedotto nuovi fatti su cui fondare la propria domanda riconvenzionale di risoluzione per inadempimento ( ritardi consegna merce/ merce parziale e vizi nella stessa ). Nel corso della prima udienza abbiamo dedotto tempestivamente due eccezioni non rilevabili d’ufficio ( eccezione inadempimento e decadenza nella denuncia dei vizi )per poi dettagliare meglio le nostre difese ( allegando ulteriori fatti ) nella prima memoria ex art. 183 sesto comma.
    Parte convenuta aveva eccepito, inizialmente, la nullità del nostro atto di citazione per difetto dell’editio actionis; eccezione che è stata respinta dal Giudice.
    In conseguenza delle eccezioni svolte nella prima udienza abbiamo allegato fatti nuovi che specificavano le tempistiche della fornitura ( circa il ritardo ) della colpa del creditore ( circa i vizi ) e del mancato pagamento di parte della merce da parte del convenuto ( circa la mancata consegna di parte della stessa ).
    Ritiene che tali allegazioni siano inammissibili in prima memoria o che ciò integri una mutatio libelli ( la domanda iniziale era la medesima proposta in prima memoria )?
    Grazie in anticipo per la risposta, le porgo cordiali saluti.

  7. Serena

    Interessantissimo articolo, mi stavo chiedendo se a Suo parere in una causa ex art. 2051 c.c. l’allegazione della presenza di testimoni che abbiano assistito al fatto solo con la 2° memoria ex. art.183 c.p.c. può ritenersi fatto in violazione delle preclusioni processuali di cui al 1° termine ex art. 183 c.p.c.? Si tenga presente che sin dalla comparsa di costituzione e nei successivi scritti difensivi è stata eccepita l’assenza di testimoni al momento del fatto a cui l’attore non ha mai replicato.
    Grazie sin da ora per la risposta.

  8. Mirco Minardi

    @Serena: direi che non si è verificata alcuna preclusione in quanto l’allegazione della presenza di testimoni è un fatto secondario e dunque per la Cassazione non si applica il regime di contestazione previsto per i fatti principali

  9. Luigi

    Gentile Avvocato, se in comparsa di costituzione ho eccepito la nullità della citazione ex art. 164 cpc ho l’onere di riformulare l’eccezione alla prima udienza oppure, se ho chiesto i termini ex 183, posso insistere nell’eccezione anche nelle successive memorie?

  10. Luigi

    mi scusi, dovevo aggiungere “la nullità della citazione ex art 164 COMMA 4 cpc” (difetto della editio actionis)

  11. Mario Natale

    Buonasera Avvocato, le scrivo per chiederle la sua opinione su un caso di lavoro. Spero possa aiutarmi.
    Procedimento di ingiunzione: se la società X afferma nel ricorso per d.i. che gli opponenti hanno sottoscritto con lei un contratto di finanziamento, senza null’altro specificare. E solo dalla documentazione prodotta a corredo del ricorso si evince che questo contratto è stato stipulato con altra società Y, che, però, a seguito di scissione di ramo aziendale e successiva fusione fa oggi oggi parte effettivamente della società X, mi chiedo: la causa petendi dedotta in giudizio è corretta? O é contestabile? La ricorrente società X dice, letteralmente, nel ricorso, che il contratto di finanziamento è stato sottoscritto da Lei società X e dagli opponenti, senza specificare che il contatto era stato effettivamente stipulato da un’altra società Y.
    Ed eventualmente: nel caso in cui la causa pretendi venisse “precisata” nel corso del giudizio di opposizione, può integrare mutatio libelli?
    Grazie per l’attenzione.
    Mario

  12. Roberto Caracciolo

    Buonasera Collega,
    in una causa attivata dal retraente per rilascio di immobile occupato (possesso protrattosi sia durante il lungo giudizio di riscatto, sia durante il giudizio di rilascio stesso durato 6 anni), ho richiesto risarcimento del danno da occupazione pari al valore locatizio .
    il Giudice ha rigettato la domanda sostenendo che non avrei allegato quali “”finalità produttive (godimento diretto o locazione)”avrebbe tratto il mio assistito se ne avesse avuto il possesso.
    Premesso che il convenuto nulla ha mai contestato, Lei ritiene che questo rilievo del Giudice sia corretto e/o insuperabile?
    Grazie per l’attenzione, Roberto Caracciolo

    L una sentenza



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