Con la pronuncia in esame (Corte di Cassazione, sez. III civile – sentenza 28 marzo 2008, n. 8071), la Cassazione conferma l’indirizzo espresso dalle Sezioni Unite (Cass. sez. un. n. 18128 del 2005) secondo cui:
- in tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 cod. civ. a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento, può essere esercitato d’ufficio;
- ciò al fine di ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela;
- sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all’ipotesi in cui la riduzione avvenga perché l’obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacché in quest’ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell’obbligazione si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta;
- l’esercizio di tale potere è subordinato all’assolvimento degli oneri di allegazione e prova, incombenti sulla parte, circa le circostanze rilevanti per la valutazione dell’eccessività della penale, che deve risultare “ex actis”, ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, senza che il giudice possa ricercarlo d’ufficio” (Cass. n. 24166 del 2006).
Corte di Cassazione, sez. III civile –
sentenza 28 marzo 2008, n. 8071 –
Pres. Varrone – est. Frasca
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della L. n. 392/1979 (rectius: 1978) e dell’art. 1373 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. ed insufficiente e contraddittoria motivazione circa la disdetta del 2.11.99 in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.”, sotto il profilo che erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto infondato il motivo di appello, con cui era stata lamentato che non fosse stato ritenuto efficace il recesso verbale dal contratto del 2 novembre 1999. A torto il recesso sarebbe stato ritenuto inefficace per essere stato dato con forma orale, anziché con lettera raccomandata con a.r. come previsto dall’art. 1 del contratto, giacché questa forma sarebbe stata da intendere soltanto ad probationem e non ad substantiam ed ammetterebbe equipollenti ugualmente idonei al raggiungimento dello scopo. La Corte d’Appello avrebbe violato l’art. 4 della L. n. 392 del 1978 e l’art. 1373 c.c. ed anche i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte (viene citata Cass. n. 4238 del 1997), omettendo di motivare in modo sufficiente la sua decisione e di farsi carico della deduzione con l’appello della possibilità delle dette forme equipollenti, limitandosi a far leva sull’art. 1 del contratto.
1.1. il motivo è inammissibile, in quanto non rispetta il principio di cd. autosufficienza dell’esposizione del motivo di ricorso per cassazione, atteso che omette di trascrivere o quantomeno riferire il contenuto della clausola contrattuale che sarebbe stata male applicata e su cui asserisce aver fatto leva la sentenza impugnata. Tale insufficiente esposizione rende impossibile scrutinare sia il vizio di violazione di legge, sia quello ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., giacché quanto al primo, senza conoscere l’esatto contenuto della clausola, non è dato comprendere come nell’applicazione della clausola la Corte territoriale sia potuta incorrere nel detto vizio, e, quanto al secondo, in disparte ogni valutazione sulla sussistenza nell’esposizione degli estremi di esso, non è dato comprendere come senza conoscere la risultanza di fatto rappresentata dal tenore della clausola possa discettarsi di un vizio motivazionale.
2. Con il secondo motivo si lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 1373, 1220, 1453 e 1458 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.” e “insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione alla disdetta del 21,10.00 e all’offerta non formale di rilascio dell’immobile in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.”. Ci si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto che a seguito dell’inizio del procedimento di sfratto per morosità non fosse più possibile l’esercizio del potere di recesso del ricorrente e non potesse più avere luogo l’offerta non formale di restituzione dell’immobile fatta il 21 ed il 28 gennaio 2000. Inesattamente la sentenza impugnata avrebbe ritenuto che, a seguito dell’inizio del procedimento di sfratto il conduttore non potesse che sanare la morosità ai sensi dell’art. 55 l. n. 392 del 1978, “essendo da ritenere sospese fino all’emissione della sentenza oltre a tutte le clausole contrattuali, altresì la possibilità di mettere in mora il locatore nella restituzione dell’immobile, mediante offerta non formale dello stesso ai sensi dell’art. 1220 c.c.; e ciò a prescindere dal tipo di domanda formulata al giudice, se cioè trattavasi di sentenza dichiarativa o costitutiva”. L’errore della Corte territoriale risiederebbe nel non avere considerato che, avendo la pronuncia di sfratto natura costitutiva e non essendo ancora intervenuta la conseguente pronuncia costitutiva di risoluzione del contratto con condanna alla restituzione dell’immobile, il conduttore, se pure non avrebbe potuto esercitare il recesso, almeno avrebbe potuto fare offerta di restituzione dell’immobile e tale offerta si sarebbe dovuta ritenere idonea ad escludere la mora, circostanza quantomeno rilevante per escludere il risarcimento del danno. Erroneo sarebbe l’assunto della Corte di merito in ordine alla idoneità dell’intimazione di sfratto a congelare “le potestà delle parti, compresa quella di restituire e/o mettere in mora il locatore nella restituzione dell’immobile”.
2.1. Il motivo è privo di idoneità a giustificare la cassazione della sentenza impugnata quanto alla risoluzione per inadempimento del contratto che è stata riconosciuta dalla sentenza d’appello a conferma di quella di primo grado, ancorché la motivazione adottata dalla Corte capitolina sia del tutto confusa e meriti correzione nel senso che, una volta introdotta – sia con le forme speciali del procedimento per convalida sia con quelle ordinarie – l’azione di risoluzione del contratto per inadempimento all’obbligazione di pagamento del canone, retroagendo l’effetto risolutivo del rapporto contrattuale al momento della litispendenza e, quindi, dovendo considerarsi risolto il contratto a quel momento, l’eventuale esercizio di un diritto potestativo di recedere dal contratto da parte del conduttore può avere corso certamente anche durante la pendenza del giudizio, ma, essendo destinato a produrre – ove legittimo – l’effetto di cessazione del contratto al momento in cui è per convenzione o per legge efficace e, quindi, in un momento successivo a quello in cui dovrebbe operare l’effetto risolutivo del rapporto proprio dell’azione di risoluzione per inadempimento, la sua concreta idoneità a determinare la cessazione del rapporto dipende dall’eventuale rigetto dell’azione di risoluzione, mentre non può produrre alcun effetto sulla fondatezza di essa e sulla prosecuzione del relativo giudizio.
Per tale ragione la Corte ha – pur con motivazione confusa – correttamente escluso che il recesso potesse spiegare effetti sull’azione di risoluzione.
Priva di pregio è anche la deduzione che con l’accertamento del recesso per effetto delle due citate raccomandate sarebbe cessata la mora nella restituzione dell’immobile agli effetti dell’obbligazione di risarcimento del danno: fermo che, una volta accolta l’azione di risoluzione, la cessazione del rapporto per effetto di essa avrebbe reso impossibile un negozio di recesso, l’offerta di restituzione dell’immobile fin dalle due date suddette avrebbe certamente escluso, ove accertata, la mora nell’obbligazione di restituzione e, quindi, l’obbligazione di risarcimento del danno per ritardata restituzione. Senonché, non avendo i giudici di merito condannato al risarcimento dei danni per ritardata restituzione, ma al pagamento dei canoni fino alla scadenza convenuta sulla base di una clausola contrattuale, non si comprende il rilievo che avrebbe avuto il detto accertamento e, quindi, come in ordine ad esso dovrebbe giustificarsi la cassazione della sentenza impugnata.
3. Il terzo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss., 1218, 1453, 1382 e 1384 c.c., 1447 e ss. c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. ed insufficiente e contraddittoria motivazione sulla qualificazione giuridica dell’art. 15 del contratto di locazione intercorso fra le parti in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. e sulla operatività di cui agli artt. 1282 e 1384 c.c.”.
Il motivo si articola in vari profili.
Con il primo si deduce che erroneamente la Corte d’Appello avrebbe ritenuto che l’art. 15 del contratto contenesse una clausola penale ai sensi dell’art. 1282 c.c.. Tale lettura sarebbe “in contrasto con le disposizioni legislative dettate specificamente in materia di interpretazione del contratto, di inadempimento e di risarcimento del danno”, poiché la clausola penale opererebbe in modo automatico, mentre l’art. 15 prevedendo che il locatore “…. Si riserva di richiedere” non prevedrebbe una sanzione di tipo automatico “perché prevedeva espressamente la necessità che il conduttore manifestasse la sua volontà di richiedere un risarcimento e quindi agganciava l’operatività della previsione alla volontà di una parte e ne prevedeva l’automaticità”.
In sostanza, sull’assunto che la clausola non avrebbe avuto un tenore tale da prevedere l’automaticità del pagamento dei canoni e del rilievo che le parti nemmeno avrebbero usato la relativa qualificazione, si deduce che in essa difettavano i caratteri della clausola penale.
Il secondo profilo, premesso il rilievo che proprio per l’assenza della detta automaticità il ricorrente non avrebbe richiesto la riduzione della penale, essendo convinto, d’altronde, di essere in buona fede, per essere il rapporto cessato dal novembre 1999, lamenta che erroneamente la Corte territoriale abbia escluso di poter ridurre la penale ex officio, giusta quanto ritenuto da questa Corte nella sentenza n. 10511 del 1999 ed assume che la riduzione sarebbe stata giustificata tenuto conto che l’effetto della clausola n. 15 comportava il pagamento dei canoni dal dicembre 1999 al giugno 2002.
Il terzo profilo del motivo prospetta nuovamente un errore della Corte di merito nell’interpretare la clausola in discorso come clausola penale, questa volta basando la censura sull’interpretazione complessiva del contratto e particolarmente di altre clausole ed assumendo che essa avrebbe solo inteso attribuire al locatore la possibilità di richiedere i canoni a titolo di danno da lucro cessante sia per il “caso in cui non vi fosse stata la restituzione dell’immobile da parte del locatore o avvenuta quest’ultima (il locatore) fosse stato nell’impossibilità di locare l’immobile”.
3.1. Il primo ed il terzo profilo del motivo sono logicamente preliminari asserendo all’esattezza della qualificazione della clausola come clausola penale.
Entrambi sono inammissibili, in quanto articolati con palese inosservanza del principio di autosufficienza dell’esposizione del motivo di ricorso per cassazione e ciò per ragioni identiche a quelle prospettate in ordine al primo motivo.
È, invece, fondato il secondo profilo del motivo, cioè quello con cui si denuncia l’omesso esercizio del potere di riduzione d’ufficio da parte del giudice d’appello per l’asserita mancanza di una istanza in tale senso del ricorrente.
Le Sezioni Unite di questa Corte, componendo il precedente contrasto (di cui era manifestazione il precedente citato dal ricorrente) hanno, infatti, statuito che “in tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 cod. civ. a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento, può essere esercitato d’ufficio per ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all’ipotesi in cui la riduzione avvenga perché l’obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacché in quest’ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell’obbligazione si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta” (Cass. sez. un. n. 18128 del 2005).
Ne discende che erroneamente la Corte d’Appello ha escluso di poter esercitare il potere di riduzione della penale e la sentenza impugnata va cassata sul punto, di modo che il giudice di rinvio dovrà esercitare il potere di cui all’art. 1382 c.c. d’ufficio, tenuto conto che la qualificazione dell’art. 15 come clausola penale resterà coperta dall’esito del presente giudizio e, qualora nei limiti di quanto consente il carattere chiuso del giudizio di rinvio, si convincesse che sussistevano le condizioni per l’esercizio del potere.
In proposito il giudice di rinvio terrà conto del principio di diritto secondo cui “In tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 cod. civ. a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento, può essere esercitato d’ufficio, ma l’esercizio di tale potere è subordinato all’assolvimento degli oneri di allegazione e prova, incombenti sulla parte, circa le circostanze rilevanti per la valutazione dell’eccessività della penale, che deve risultare “ex actis”, ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, senza che il giudice possa ricercarlo d’ufficio” (Cass. n. 24166 del 2006).
4. Il quarto motivo denuncia “insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione alla motivazione sulla non ammissibilità della prova per testi in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.” e con esso si lamenta che erroneamente la Corte d’Appello, avrebbe confermato la decisione di primo grado sul punto relativo alla declaratoria di inammissibilità della prova per testi con la signora Immacolata Gatta, limitandosi ad osservare che il primo giudice aveva escluso l’ammissione della prova sulla base del “tenore del contratto di locazione inter partes”, senza prendere atto delle motivazioni proposte dal ricorrente con l’atto di appello nel motivo n. 6.
4.1. Il motivo è inammissibile in quanto omette di riferire le argomentazioni che erano state dedotte con il detto motivo d’appello, le quali avrebbero dovuto giustificare l’ammissibilità della prova, sicché la Corte dovrebbe sceglierle fra quelle che emergerebbero dalla lettura dell’atto di appello. Inoltre, omette di trascrivere il testo dell’articolazione probatoria di cui trattasi e nemmeno allega che esso era stato trascritto nell’atto di appello ed in esso sarebbe leggibile nell’esposizione del motivo in discorso.
5. Il quinto motivo deduce “insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione alla richiesta di restituzione del deposito cauzionale in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.”. Con esso ci si duole che la Corte d’Appello abbia ritenuto giustificato il rigetto della domanda di restituzione della cauzione sull’assunto che essa avrebbe potuto essere restituita solo all’esito del pagamento da parte del ricorrente di tutte le somme dovute per effetto del giudizio. In tal modo non si sarebbe fatta carico delle lamentele prospettate in proposito con l’atto di appello, “non facendo alcun riferimento alla questione degli asseriti danni all’immobile citati dal Giudice di primo grado ma di cui non v’è traccia nel verbale di riconsegna del 15.02.00, sottoscritto dalle parti”. Avrebbe omesso di statuire sull’affermazione della sentenza di primo grado che aveva definito erroneamente “riscontrati” i danni “eventuali” sull’eccezione di compensazione.
5.1. Il motivo resta assorbito dall’accoglimento del secondo profilo del terzo motivo.
6. Conclusivamente, va accolta la seconda censura (secondo profilo) del terzo motivo, vanno rigettate la prima e la terza censura di quest’ultimo, vanno rigettati il primo, il secondo ed il quarto motivo. Il quinto va dichiarato assorbito. La sentenza impugnata va cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio alla Corte d’Appello di Roma, che deciderà con altra sezione ed in diversa composizione. Spese rimesse.
P.Q.M.
La Corte accoglie in parte il terzo motivo di ricorso. Rigetta il primo, il secondo ed il quarto motivo. Assorbito il quinto. Cassa la sentenza in relazione alla censura accolta quanto al terzo motivo e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione ad altra Sezione della Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
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