L’art. 10 del DM 140/2012 stabilisce che:
1. Nel caso di responsabilita’ processuale ai sensi dell’articolo 96 del codice di procedura civile, ovvero, comunque, nei casi d’inammissibilita’ o improponibilita’ o improcedibilita’ della domanda, il compenso dovuto all’avvocato del soccombente e’ ridotto, di regola, del 50 per cento rispetto a quello liquidabile a norma dell’articolo 11.
Non appena ho letto la norma il pensiero è andato alla disciplina contrattuale tra cliente avvocato. L’art. 10 del DM 140/2012 nella sua semplicità (ma in questo caso la semplicità non è un pregio) accomuna tutta una serie di casi che possono essere tra loro diversissimi.
Per capire il non senso di questa disposizione basta riflettere su questa circostanza. L’avvocato è un professionista debitore di una prestazione contrattuale (cfr. art. 1176 c.c.); egli pertanto risponde dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento al pari di ogni altro debitore. Come tutti i debitori è tenuto a risarcire il danno che ha causato al proprio cliente salvo che non provi che l’inadempimento è dipeso da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).
Facciamo allora un po’ di esempi.
Si supponga che l’avvocato iscriva una causa di opposizione a decreto ingiuntivo dopo dieci giorni dalla notifica dell’atto di citazione, ritenendo, a torto, che il termine decorra dalla restituzione della cartolina di ritorno. L’opposizione verrà dichiarata improcedibile a causa del grave errore commesso. Avrà dunque l’avvocato diritto a percepire il compenso “di regola” ridotto della metà?
Ancora. L’avvocato fa scadere il termine per proporre appello: avrà comunque diritto al compenso ridotto?
Altro esempio. L’avvocato propone una domanda risarcitoria da 1.000.000 di euro per danni esistenziali nei confronti del fornitore di servizi di pay tv che per problemi tecnici non ha trasmesso la finale della coppa dei campioni. Rigettata la domanda, il giudice condanna parte attrice al pagamento di una somma x per responsabilità aggravata. Avrà dunque l’avvocato diritto a percepire il compenso “di regola” ridotto della metà?
In tutti i casi la risposta non può che essere negativa. L’inesatto adempimento è talmente grave che il cliente potrà chiedere la risoluzione del contratto di patrocinio, o comunque eccepire l’inadempimento ex art. 1460 c.c.. Nel primo e nel secondo caso, l’errore ha impedito al cliente di avere un processo. Nel terzo l’avvocato ha introdotto una domanda manifestamente temeraria; egli avrebbe dovuto dissuadere il cliente, e solo nel caso di espressa richiesta e previa informazione sulle conseguenze di una simile azione, avrebbe potuto introdurre il giudizio.
Ma allora quando si applica la norma? Prendiamo le pronunce in rito. Una pronuncia di inammissibilità, improponibilità, improcedibilità o è frutto di colpa (o dolo) o non lo è. Nel primo caso non dà diritto al compenso, nel secondo caso (ad esempio perché la giurisprudenza ha mutato indirizzo) mancando una responsabilità dell’avvocato non si vede per quale ragione il compenso debba essere ridotto.
Anche in caso di responsabilità aggravata, qualora l’avvocato dimostri di non avere colpa (avendo cercato di dissuadere il cliente ed avendolo informato delle conseguenze cui sarebbe andato incontro) non si vede perché il compenso debba essere ridotto.
La norma potrebbe avere applicazione nel caso (quasi di scuola, essendo rarissime le pronunce che applicano la limitazione ex art. 2236 c.c.) in cui l’avvocato abbia commesso un errore per colpa lieve ma si tratti di una prestazione di speciale difficoltà (cfr. art. 2236 c.c.). In questi casi egli non è tenuto a risarcire i danni subiti dal cliente; potrebbe dunque essere equa una riduzione del compenso.
Ma non è tutto. Poiché l’accordo con il cliente prevale su quanto stabilito dal 140/2012 (cfr. art. 1, comma 1), cosa accade se nel contratto le parti hanno convenuto che il compenso debba rimanere invariato anche nei casi contemplati dall’art. 10? Potrà il giudice disapplicare la clausola convenzionale? La risposta, a mio parere, è affermativa qualora ci troviamo di fronte ad un comportamento riconducibile a dolo o colpa grave (cfr 1229 c.c.) e comunque qualora il cliente-consumatore non abbia specificamente approvato la clausola, che deve ritenersi certamente vessatoria.
Insomma, una norma semplice, ma nel senso peggiore del termine.
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sono un avvocato romano e scusate non ho capito per niente come si liquida la fase delle indagini preliminari.
La fase della indagni preliminari si suddive a suo volta in studio, introduzione, istruzione, decisione, oppure solo in studio, introduzione del giudizio (ossia richiesta di rinvio a giudizio) ?
E ancora, in caso di misura reale o pesonale, i giudizi di imugnazione danno diritto ad autonomi compensi ? ossia devo replicare : fase di studio, introduzione, istruzione, decisione ?
quindi, devo fare due parcelle distinte, in caso di misura cautelare che si innesta nella fase delle indagini preliminari ?
Forse la domanda è “ignorante”, ma veramente mi trovo spaesato.
Grazie Avv. Dario M.
@Dario: non facendo (se non raramente) penale non so esserti d’aiuto