Tizo conviene in giudizio una casa di cura chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti a seguito del ricovero effettuato a seguito del quale sosteneva di aver contratto un’epatite virale di tipo C., della quale riteneva responsabile la Casa di cura.
Con sentenza del 14.6.2000, il tribunale rigettava la domanda, non ritenendo provato il nesso di causalità con le trasfusioni subite e, comunque, semmai responsabile il Ministero della Sanità.
Tizio propone appello, fondando la domanda sul contratto di spedalità, ma la Corte rigetta la domanda in quanto vietata in base al noto principio del divieto delle domande nuove.
Tizio ricorre in Cassazione ma questa conferma la decisione di appello.
La Corte afferma che è principio consolidato quello secondo cui costituisce domanda nuova, non proponibile per la prima volta in appello ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ. (con la rilevabilità della violazione del divieto anche d’ufficio in funzione dell’attuazione rigorosa del principio del doppio grado di giurisdizione), quella che alteri anche uno soltanto dei presupposti della domanda iniziale, introducendo un petitum diverso e più ampio, oppure una diversa causa petendi, fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado; ed, in particolare, su di un fatto giuridico costitutivo del diritto originariamente vantato, radicalmente diverso, in modo tale che risulti inserito nel processo un nuovo tema d’indagine.
In sostanza, quando gli elementi dedotti in secondo grado comportano il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, integrando una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado.
E ciò, anche se questi fatti erano già stati esposti nell’atto introduttivo del giudizio, al solo scopo di descrivere ed inquadrare altre circostanze, mentre soltanto nel giudizio di appello, per la prima volta, sono stati dedotti con una differente portata, a sostegno di una nuova pretesa, così determinando l’introduzione di un nuovo tema di indagine e di decisione (Cass. 23.3.2006 n. 6431; Cass. 29.11.2004 n. 22473).
Osserva la corte che la domanda di risarcimento danni da responsabilità contrattuale è diversa da quella di risarcimento di danni per responsabilità extracontrattuale.
Essa, infatti, dipende da elementi di fatto diversi, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello soggettivo, non solo per quanto attiene all’accertamento della responsabilità ma anche per quanto riguarda la determinazione dei danni.
Non può, quindi, essere proposta, per la prima volta, nel giudizio di appello al fine di ampliare l’originaria domanda di risarcimento di danni per responsabilità extracontrattuale (Cass. 30.6.2005 n. 13982; Cass. 19.8.2003 n. 12133; Cass. 15.6.2003 n. 10128; Cass. 20.8.2002 n. 12258).
In sostanza, gli appellanti hanno invocato un diverso e distinto titolo giuridico, che non può ritenersi contenuto, neppure implicitamente, nella originaria vocatio in jus.
Diversamente, ne deriverebbe una inaccettabile alterazione dell’originario impianto difensivo, una diversa attribuzione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c., una diversa ammissibilità delle voci di danno.
Cassazione civile , sez. III, 22 febbraio 2008, n. 4597
Fatto
P.L. conveniva, davanti al tribunale di Roma, la casa di cura Villa F. spa e la SAF G. G. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti a seguito del ricovero effettuato dal (OMISSIS).
Esponeva di essere stato ricoverato presso la casa di cura (OMISSIS) al fine di curare una forte anemia e che, nel corso di un successivo ricovero, effettuato ad appena un mese di distanza presso la stessa Casa di cura, gli era stata accertata un’epatite virale di tipo C., della quale riteneva responsabile la Casa di cura.
Con sentenza del 14.6.2000, il tribunale rigettava la domanda, non ritenendo provato il nesso di causalità con le trasfusioni subite e, comunque, semmai responsabile il Ministero della Sanità.
A., E. e P., e L.P., quali eredi di P.L., proponevano appello chiedendo la riforma della sentenza impugnata.
Resistevano la Casa di cura Villa F. spa e la SAF G. G..
Si costituiva anche la spa Assicurazioni Generali che contestava il fondamento dell’impugnazione.
La Corte d’Appello, con sentenza del 27.2.2003, rigettava l’impugnazione.
Gli eredi di P.L. hanno proposto ricorso per Cassazione affidato a sei motivi illustrati da memoria.
Resistono con controricorso la casa di cura Villa F. spa, la SAF G. G. e la spa Assicurazioni Generali.
Diritto
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione di norme di legge: art. 345 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Il motivo non è fondato.
E’ principio consolidato che costituisce domanda nuova, non proponibile per la prima volta in appello ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ. (con la rilevabilità della violazione del divieto anche d’ufficio in funzione dell’attuazione rigorosa del principio del doppio grado di giurisdizione), quella che alteri anche uno soltanto dei presupposti della domanda iniziale, introducendo un petitum diverso e più ampio, oppure una diversa causa petendi, fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado; ed, in particolare, su di un fatto giuridico costitutivo del diritto originariamente vantato, radicalmente diverso, in modo tale che risulti inserito nel processo un nuovo tema d’indagine.
In sostanza, quando gli elementi dedotti in secondo grado comportano il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, integrando una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado.
E ciò, anche se questi fatti erano già stati esposti nell’atto introduttivo del giudizio, al solo scopo di descrivere ed inquadrare altre circostanze, mentre soltanto nel giudizio di appello, per la prima volta, sono stati dedotti con una differente portata, a sostegno di una nuova pretesa, così determinando l’introduzione di un nuovo tema di indagine e di decisione (Cass. 23.3.2006 n. 6431; Cass. 29.11.2004 n. 22473).
Ora, nella specie gli attuali ricorrenti nel giudizio di primo grado avevano proposto – come ha rilevato la sentenza impugnata in questa sede – una domanda basata sull’erronea esecuzione delle trasfusioni di sangue subite dal P.; impostata, quindi, come illecito extracontrattuale; mentre, nel giudizio di appello, hanno chiesto che fosse accertata una eventuale responsabilità contrattuale nei confronti delle società appellate ex art. 1218 c.c., sulla base di un supposto contratto di spedalità intercorso fra il defunto P. e le società appellate, al momento del suo ricovero presso la casa di cura da queste gestita.
Da ciò la Corte di merito ha ritenuto sussistere una mutatio libelli) con la conseguente inammissibilità di tale domanda.
La statuizione è corretta.
Al riguardo va premesso che l’interpretazione della domanda giudiziale costituisce operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua ed adeguata, avendo riguardo all’intero contesto dell’atto, senza che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua formulazione letterale, nonchè del contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire, senza essere condizionato al riguardo dalla formula adottata dalla parte stessa (Cass. 26.6.2007 n. 14751).
Nella specie, su questa base, la Corte di merito ha ribadito la qualificazione di extracontrattuale – come individuata dal primo giudice – alla richiesta di risarcimento danni avanzata in primo grado e comparandola con la domanda formulata nel giudizio di appello ha ritenuto che quella, in tale giudizio proposta, fosse di natura contrattuale, con la conseguente declaratoria di inammissibilità di tale domanda.
Così facendo la Corte di merito non è incorsa nella violazione denunciata, posto che la domanda di risarcimento danni da responsabilità contrattuale è diversa da quella di risarcimento di danni per responsabilità extracontrattuale.
Essa, infatti, dipende da elementi di fatto diversi, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello soggettivo, non solo per quanto attiene all’accertamento della responsabilità ma anche per quanto riguarda la determinazione dei danni.
Non può, quindi, essere proposta, per la prima volta, nel giudizio di appello al fine di ampliare l’originaria domanda di risarcimento di danni per responsabilità extracontrattuale (Cass. 30.6.2005 n. 13982; Cass. 19.8.2003 n. 12133; Cass. 15.6.2003 n. 10128; Cass. 20.8.2002 n. 12258).
In sostanza, gli appellanti hanno invocato un diverso e distinto titolo giuridico, che non può ritenersi contenuto, neppure implicitamente, nella originaria vocatio in jus.
Diversamente, ne deriverebbe una inaccettabile alterazione dell’originario impianto difensivo, una diversa attribuzione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c., una diversa ammissibilità delle voci di danno.
Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione di norme di legge: art. 2043 c.c. e art. 1218 c.c. e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – insufficienza, e d illogicità di motivazione su un punto decisivo della controversia: art. 360 c.p.c., n. 5.
Con il terzo motivo denunciano la insufficienza ed illogicità di motivazione, nonchè intrinseca contraddittorietà della stessa su un punto decisivo della controversia: art. 360 c.p.c., n. 5.
Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione di norme di legge: artt. 1218, 1223 e 2691 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – omessa motivazione su un punto decisivo della controversia: art. 360 c.p.c., n. 5.
Il secondo, terzo e quarto motivo, presentando caratteri omogenei, vanno esaminati congiuntamente.
I ricorrenti, con una serie di argomentazioni, ribadiscono che erroneamente i giudici di merito hanno ritenuto di natura extracontrattuale la domanda di risarcimento danni originariamente proposta, in quanto ab initio sarebbe stata proposta nei confronti della casa di cura una domanda di risarcimento danni per responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c..
Sul punto va ribadito che l’interpretazione della domanda giudiziale costituisce operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua ed adeguata (Cass. 26.6.2007 n. 14751).
Ora, deve ripetersi che la originaria domanda – diversamente da quel che sostengono gli attuali ricorrenti – era imperniata – come rilevato anche dalla Corte di merito che ha correttamente sul punto motivato – sulla erronea esecuzione delle trasfusioni di sangue subite dal P. durante il ricovero nella casa di cura (OMISSIS).
Nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado è riportato “….
durante tale ricovero gli veniva diagnosticata un’ epatite virale di tipo C contratta a seguito delle suddette trasfusioni….”.
E proprio sulla base di tale inequivoca specificazione della causa petendi il giudice di primo grado aveva chiesto al c.t.u. di accertare se la patologia lamentata era stata causata da una trasfusione di sangue subita durante il ricovero presso la casa di cura (OMISSIS) dal (OMISSIS) al (OMISSIS), e se l’evento fosse imputabile alla condotta dei medici della clinica.
La ctu aveva concluso che non vi era stata erronea esecuzione delle trasfusioni.
I fatti, così come riportati nella sentenza impugnata, escludono che già nel giudizio di primo grado fosse stata proposta una domanda di risarcimento danni di natura contrattuale.
La Corte ha, come già detto, correttamente e puntualmente motivato, senza incorrere in alcuna violazione di legge.
Ne consegue la superfluità dell’esame dei profili di natura contrattuale sollevati nei motivi di ricorso.
Con il quinto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione di norme di legge: art. 2697 c.c., artt. 62, 10, 115, 213, 246 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Il motivo non è fondato sotto molteplici profili.
Deve sottolinearsi, innanzitutto, la novità della censura come proposta.
Nel giudizio di appello, infatti, gli attuali ricorrenti censuravano la c.t.u. di primo grado lamentandone carenze e non conformità ai quesiti posti, rilevando che “anzichè valutare ed indicarci se l’evento fosse addebitatale alla condotta colposa dei medici della Casa di Cura (la c.t.u.) ha limitato la propria ricerca alle unità di sangue provenienti dall’Avis di Civitavecchia ed ai donatori del sangue stesso… con la conseguenza che, se del caso, la perizia stessa deve essere rinnovata o, quantomeno integrata”.
In questa sede, invece, la censura proposta riguarda una supposta violazione del contraddittorio che, peraltro, non sussiste.
va, in primo luogo, rilevato che rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio, ovvero di disporre addirittura la rinnovazione delle indagini, con la nomina di altri consulenti.
L’esercizio di un tale potere (così come il mancato esercizio) non è censurabile in sede di legittimità (Cass. 3.4.2007 n. 8355).
Quanto, poi, alla supposta “attività investigativa ” del c.t.u., i cui risultati sarebbero – secondo i ricorrenti – stati fatti propri acriticamente da parte dei giudici di merito, va sottolineato che rientra proprio nel potere del consulente tecnico d’ufficio attingere “aliunde” notizie e dati, non rilevabili dagli atti processuali e concernenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamento, quando ciò sia necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli.
Dette indagini, quando ne siano indicate – come nella specie – le fonti in modo che le parti siano messe in grado di effettuarne il dovuto controllo, possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice (Cass. 8.6.2007 n. 13428; Cass. 20.2.2007 n. 3936).
Nessuna “anomalia” pertanto, può imputarsi alla condotta del c.t.u..
Per quel che, poi, riguarda la supposta “accettazione acritica” dei risultati della consulenza, va precisato che il giudice del merito non è tenuto ad esporre in modo puntuale le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, potendo limitarsi ad un mero richiamo di esse, soltanto nel caso in cui non siano mosse alla consulenza precise censure, alle quali, pertanto, è tenuto a rispondere per non incorrere nel vizio di motivazione.
Tale vizio è, però, denunciatile, in sede di legittimità, solo attraverso una indicazione specifica delle censure non esaminate dal medesimo giudice (e non già tramite una critica diretta della consulenza stessa), censure che, a loro volta, devono essere integralmente trascritte nel ricorso per cassazione al fine di consentire, su di esse, la valutazione di decisività (Cass. 6.9.2007 n. 18688).
Nella specie, peraltro, la Corte di merito ha puntualmente chiarito le ragioni della adesione alla c.t.u., rispondendo ai rilievi mossi dagli appellanti.
Con il sesto motivo denunciano la violazione Sfalsa applicazione di norme di legge: art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Il motivo non è fondato.
Invero, in tema di regolamento delle spese processuali, la relativa statuizione è sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione di legge, quale si verificherebbe nell’ipotesi in cui, contrariamente al divieto stabilito dall’art. 91 cod. proc. civ., le stesse venissero poste a carico della parte totalmente vittoriosa.
La valutazione dell’opportunità della compensazione totale o parziale rientra, invece, nei poteri discrezionali del giudice di merito, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia in quella della sussistenza di giusti motivi (Cass. 31.7.2006 n. 17457; Cass. 16.3.2006 n. 5828).
Ora, nella specie il giudice del merito, ponendo le spese giudiziali a carico degli odierni ricorrenti, non ha violato il principio di cui all’art. 91 c.p.c., posto che ha fondato la condanna sulla accertata soccombenza.
Nè la mancata adozione della compensazione – rientrando nei suoi poteri discrezionali – può essere censurata in questa sede.
Conclusivamente, il ricorso va rigettato. La natura della controversia giustifica la compensazione delle spese del giudizio di cassazione fra tutte le parti.
P.Q.M
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 21 gennaio 2008.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2008
Ultimi commenti