Sparita l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, il sindacato sul giudizio di fatto rimane problematico in Cassazione.
Un fatto sembra certo: la motivazione deve risultare illogica ex se, senza necessità, quindi, di utilizzare documenti o altre prove.
E’ quel che è accaduto nel caso in esame (Cass. 18945/2017). Si trattava di un investimento di un pedone da parte di una moto slitta. La corte d’appello aveva accertato il concorso di colpa del pedone nella misura del 20% per non essersi girato, una volta sentito il rumore della moto slitta, in modo tale da verificare la direzione della motoslitta così da evitarla.
Questo ragionamento, secondo la S.C., è manifestamente illogico, tanto da meritare la cassazione.
La lettura della motivazione è interessante.
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RAGIONI DELLA DECISIONE
3. Il ricorso principale è parzialmente fondato.
3.1.1 Il primo motivo denuncia, invocando l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, invalidità della sentenza ai sensi dell’art. 132 c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2, per manifesta illogicità della motivazione in relazione a fatto discusso e decisivo, nonchè, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, falsa applicazione degli artt. 2043,1176 e 1227 c.c.
Si adduce che, attribuendo la causazione dell’evento nella misura del 20% al pedone investito, il giudice d’appello afferma che, una volta sentito il rumore della motoslitta che si avvicinava, il pedone avrebbe dovuto proseguire la marcia camminando all’indietro: tale motivazione sarebbe fortemente illogica e contraddittoria, anche perchè la stessa corte territoriale riconosce che i pedoni erano a conoscenza del fatto che il M. sapeva che lo precedevano sul lago ghiacciato. E, come avrebbe rilevato il giudice di prime cure, i pedoni non avrebbero avuto obblighi specifici di avvisare il conducente della motoslitta della loro presenza lungo il tracciato, di questa essendo il M., per di più, ben consapevole; e, anche se i pedoni avessero gridato, il rumore del motore della motoslitta avrebbe privato le loro grida di avvertimento di qualsiasi efficacia per evitare il sinistro. In realtà la condotta del pedone investito non sarebbe un fatto colposo rispetto alla normale diligenza, e non sarebbe concausa del sinistro, non avendo in alcun modo concorso a creare la situazione di pericolo.
3.1.2 In primo luogo, deve osservarsi che il contenuto del motivo non corrisponde a quanto indicato nella sua rubrica se non per quel che concerne il riferimento all’art. 132 c.p.c. per manifesta illogicità motivazionale, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Pur inserendo, indubbiamente, anche censure direttamente fattuali, quel che a ben guardare la censura in esame denuncia è la sussistenza di una motivazione apparente perchè manifestamente illogica quanto all’accertamento dell’asserito concorso colposo della vittima nella causazione del sinistro mortale.
In tema, sono noti gli interventi nomofilattici che hanno chiarito il significato della riforma, operata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, del testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Se è vero che questo ora recita che la sentenza può essere impugnata “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, è altrettanto vero che la lettera esige una interpretazione correttamente conforme all’inquadramento sistemico in cui la norma rimane inserita. Le Sezioni Unite hanno letto, per così dire, quel che dopo la novellazione è “rimasto tra le righe”, cioè la permanente necessità di un modulo motivativo reale, ovvero rispettoso del principio costituzionale di cui all’art. 111 Cost., comma 6. Anche qualora sia stato formalmente esaminato ogni fatto decisivo controverso, ciò non toglie che la motivazione debba avere esternato tale analisi con modalità rispettosa del c.d. minimum costituzionale, e non mediante un mero richiamo materiale.
La ben nota S.U. 7 aprile 2014 n. 8053 insegna infatti che il testo riformato si deve interpretare, “alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione”, rimanendo pertanto denunciabile “l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.”. Il sindacato del giudice di legittimità, quindi, investe ancora, benchè entro rigorosi limiti, il contenuto della motivazione relativa all’accertamento di fatto.
Sviluppa alla luce di una logica perfetta questo insegnamento – ben seguito frattanto dalle sezioni semplici successive -, un altro recente intervento nomofilattico, S.U. 3 novembre 2016 n.22232, ulteriormente “scavando” nel concetto della motivazione apparente che la contestualizzazione sistemica ha condotto ad affiancare a quello dell’assenza materiale di motivazione: la motivazione apparente è tale quando non rende “percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento”; e nel caso di specie ciò era avvenuto per la presenza di “considerazioni affatto incongrue rispetto alle questioni prospettate, utilizzabili, al più, come materiale di base per altre successive argomentazioni, invece mancate, idonee a sorreggere la decisione”. L’incomprensibilità oggettiva che il precedente arresto delle Sezioni Unite aveva indicato come realizzante l’apparenza motivazionale – come lo integra quell’elevato tasso di contraddittorietà che pure conduce alla incomprensibilità – è stata così identificata anche nella incompletezza delle argomentazioni, vale a dire nell’utilizzo di argomentazioni che potrebbero assumere un significato di esternazione del ragionamento soltanto se costituenti la base per necessarie argomentazioni successive, ovvero se sviluppate in queste.
Non può non rimarcarsi che entrambi questi fondamentali interventi hanno individuato come parametro l’oggettiva comprensibilità del ragionamento seguito dal giudice per formare il suo convincimento: parametro che, ictu oculi, incarna il ruolo della motivazione, ovvero la trasparenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale. Quest’ultima è sì manifestazione della sovranità popolare attraverso il pertinente strumento normativo (art. 101 c.p.c., comma 1); ma laddove la conformità a esso non assorbe in toto l’esercizio della giurisdizione ovvero laddove non trattasi esclusivamente di questione di diritto bensì di accertamento di fatto, ontologicamente non essendo sufficienti ad attribuire la necessaria trasparenza all’esercizio della giurisdizione neppure le norme che dettano la via procedurale e i canoni interpretativi degli elementi probatori, il giudice è tenuto a rendere conto di come è pervenuto ad accertare il fatto in forza del combinato disposto dell’art. 101 c.p.c., comma 1, e dell’art. 111 Cost., comma 6. Se, dunque, sul contenuto dell’accertamento il giudice di legittimità non ha alcun sindacato, rimane peraltro, in una lettura costituzionalmente orientata, nell’ambito denunciabile del vizio motivazionale anche il profilo dell’apparenza della motivazione, da intendersi come motivazione che non esterna realmente l’iter decisionale di fatto, bensì offre una motivazione in termini di stile assolutamente generici o anche argomenta su dati specifici ma comunque in modo oggettivamente incomprensibile, pure per incompletezza e/o insuperabile illogicità. E quest’ultima patologica conformazione affligge, invero, la motivazione della sentenza impugnata.
3.1.3 In effetti, la motivazione della Corte d’appello non rende conoscibile/percepibile l’iter del ragionamento attraverso il quale, in riforma dell’accertamento del giudice di prime cure che aveva attribuito responsabilità esclusiva al M. nella causazione dell’evento esiziale (e logicamente la riforma dell’accertamento del primo giudice di merito dovrebbe – per di più intensificare, anzichè affievolire l’obbligo di esternazione dell’iter percorso in capo al secondo giudice, che non può in tal caso ordinariamente fruire di riferimenti per relationem), ha accertato una condotta colposa, concausante nella misura del 20%, in capo al pedone investito. L’incomprensibilità, si ripete, può ben realizzarsi anche ponendo in essere palesi contraddittorietà sugli elementi “portanti” del percorso accertatorio: e in ciò è incorsa, come ora si verrà a spiegare, la sentenza impugnata.
Dopo avere ripercorso, nelle parti a suo avviso più significative, gli esiti del compendio probatorio sulle modalità in cui sarebbe accaduto il sinistro, la corte territoriale si sofferma sulle condizioni di visibilità che sussistevano quando esso avvenne, osservando che si verificò “verso le ore 18,30 in una giornata di gennaio, quando, dunque, era già buio” e i testimoni avevano riferito “che la nebbia c’era già all’inizio della superficie ghiacciata del lago”. La presenza della nebbia in banchi sul lago da un’ulteriore testimonianza sarebbe risultata – nota ancora la corte territoriale – come “un fenomeno che tipicamente si verifica nelle giornate invernali quando è bel tempo”: e di qui la corte desume che “la probabile presenza della nebbia era, pertanto, una circostanza prevista da M.I. o, in ogni caso, era da lui prevedibile. Egli era, infatti, proprietario e gestore del rifugio sul vicino passo Stalle. E’, dunque, ragionevole ritenere che egli conoscesse la zona, le sue caratteristiche climatiche ed anche i fenomeni atmosferici che vi si verificano” (motivazione, pagina 13).
Su questa linea, poi, il giudice d’appello ulteriormente insiste, rimarcando che la presenza della nebbia era stata confermata anche dalla testimonianza di un soccorritore, L.R., per poi concludere nel seguente modo: “Di per sè la formazione della nebbia sul lago di (OMISSIS) la sera dell’incidente non era un fenomeno atmosferico imprevedibile per M.I.. Essa, inoltre, era con tutta probabilità presente già in prossimità della sponda del lago e non solo nel centro dello stesso, dove si è verificato l’incidente. Ne discende che l’investitore si dev’essere reso conto della scarsa visibilità già prima di investire S.G.. Se poi si considera che il soccorritore L.R., inoltratosi verso il centro del lago, ha dovuto arrestare la propria motoslitta perchè non vedeva nulla, deve ascriversi a grave imprudenza di M.I. l’aver scelto di proseguire la propria marcia, sia pure a velocità moderata, in condizioni di scarsa se non totale assenza di visibilità, pur sapendo che sul tracciato da lui percorso stava camminando S.G. proveniente proprio dal suo rifugio” (motivazione della sentenza impugnata, pagine 14-15).
Dunque, il giudice d’appello attribuisce al M. una condotta di “grave imprudenza” in quanto confliggente con dati che assolutamente egli non poteva non conoscere: la visibilità scarsa se non totale, a causa dell’ora nel giorno invernale e del noto fenomeno dei banchi di nebbia sul lago ghiacciato; la presenza, sul tracciato che egli percorreva con la motoslitta, del pedone S.. Il primo dato gli era ben noto non solo perchè egli era uno del posto, ma altresì perchè era proprietario e gestore di un rifugio della zona, il rifugio del passo (OMISSIS), raggiungibile proprio attraverso la pista sul lago ghiacciato; e il secondo dato gli era parimenti noto perchè anche quel pomeriggio egli aveva gestito il suo rifugio. Seguendo una logica elementare, da ciò si deduce che il M. era perfettamente in condizione di tenere una condotta previdente/prudente, sia in riferimento alla situazione della visibilità, sia in riferimento all’ulteriore elemento specifico, da lui conosciuto, della presenza del pedone sul suo stesso percorso.
3.1.4 In seguito, e logicamente a fronte di questo inequivoco inquadramento della condotta del M., la corte territoriale (motivazione, pagine 15 ss.) vaglia la condotta dello S., che, quando avvenne l’incidente, stava camminando insieme ad un’altra persona, sentita poi come teste, tale Pa.Go.Jo..
Osserva la corte che quest’ultimo ha dichiarato di avere sentito l’arrivo della motoslitta e di averlo detto allo S.: e già qui, non può non notarsi, il giudice d’appello effettua un salto logico, perchè trasforma ex abrupto la dichiarazione del teste (riportata tra l’altro solo in tedesco) di avere detto all’amico che “stavano arrivando” (“sagte ich noch zu G.: “jetzt kommen sie nach””) perchè egli aveva sentito il rumore della motoslitta nell’asserto che entrambi avrebbero chiaramente sentito che li stava raggiungendo la motoslitta. Comunque, dato atto dell’ulteriore dichiarazione del teste di essersi girato una sola volta vedendo allora le luci della motoslitta, di avere camminato poi altri 50-100 metri dopo aver sentito il rumore del motore e di avere infine visto che l’altro pedone veniva investito da tergo, la corte afferma che da ciò si “ricava che i due pedoni non hanno praticamente reagito al sopraggiungere della motoslitta” perchè continuarono “a camminare normalmente volgendole le spalle”. Per “generica prudenza”, invece, i pedoni avrebbero dovuto “voltarsi verso la motoslitta così da tenerne sotto controllo la direzione di marcia ed essere pronti ad evitare di essere eventualmente investiti”: ed è su questo punto che, tra l’altro, il motivo in esame evidenzia che la contrapposizione tra il “camminare normalmente” volgendo le spalle alla motoslitta e il “voltarsi verso la motoslitta” giungerebbe ad imporre un irrazionale modo di camminare a ritroso, argomento tutt’altro che inconsistente.
Peraltro il giudice d’appello rende pienamente incomprensibile il suo ragionamento nell’ulteriore sviluppo: i pedoni, invece di attirare l’attenzione del M. “segnalando la propria presenza” o di essere, “comunque, pronti per sottrarsi al pericolo di investimento”, si sono “unicamente affidati alla convinzione che il conducente del veicolo li avvistasse ed evitasse”: pertanto al pedone investito va mosso il “rimprovero di non essersi predisposto a neutralizzare gli effetti della non imprevedibile condotta imprudente del conducente della motoslitta”. Il vacuum nel percorso logico complessivo è chiaro, e di natura totalmente contraddittoria: la corte territoriale stessa ha accertato che il M., non solo abitante del luogo, ma anche proprietario e gestore del rifugio raggiungibile attraverso la pista sul lago ghiacciato, non poteva non prevedere la deficienza di visibilità e non poteva non sapere, perchè provenivano dal suo rifugio, dei due pedoni che lo precedevano sulla pista; perchè, allora, viene definita “non imprevedibile” – oltre che imprudente – la condotta del M. non è possibile comprendere. Crea in tal modo la corte territoriale uno iato logico tra la prima parte del suo accertamento – quella relativa alla condotta del M. – e la seconda parte – quella relativa alla condotta del pedone -. Il che significa che la sua motivazione non è idonea ad esternare il fondamento della concausalità della condotta del pedone, id est si attesta al riguardo in una forma assertivamente apparente, ovvero incompatibile con il minimum costituzionale.
Il motivo, pertanto, è fondato, poichè la sentenza impugnata presenta su quanto si è appena esposto una motivazione apparente.
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