La giurisprudenza della Cassazione del 2015 in tema di impugnazioni (II PARTE)

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2. Appello. Le novità normative. Evoluzione applicativa.
Nel corso del 2015, la giurisprudenza della Corte ha ulteriormente
messo a fuoco le novità introdotte all’istituto dall’art. 54 del d.l. 22
giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134.
Com’è noto, gli interventi legislativi sul procedimento in
grado d’appello, dopo la riforma del 1950 (che segnò, sotto il
profilo in esame, un passo indietro rispetto all’impostazione
codicistica del 1940, determinando un ritorno verso l’appello quale
novum judicium), volgono verso una tendenziale affermazione
dell’appello come impugnazione vincolata, avente natura di revisio
prioris istantiae. In questo solco si pone anche la cennata riforma, che,
al dichiarato scopo di offrire una soluzione per lo smaltimento
dell’arretrato che affligge le corti d’appello, ha riformulato gli artt.
342, comma 1, e 345, comma 3, c.p.c. e ha introdotto gli artt. 348
bis e 348 ter c.p.c., disposizioni tutte applicabili ai giudizi di secondo
grado introdotti dal giorno 11 settembre 2012.
Va segnalata innanzitutto la rimessione alle Sezioni Unite
della questione in punto di ricorribilità per cassazione avverso
l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c., stante il contrasto tra Sez. 6-2, n.
07273/2014, Giusti, Rv. 630754, secondo cui tale ordinanza è
ricorribile per cassazione ove l’appello sia stato dichiarato
inammissibile per ragioni processuali, e Sez. 6-3, n. 08940/2014,
Frasca, Rv. 630776, che propende, invece, per la non esperibilità in
assoluto del ricorso per cassazione, sia ordinario che straordinario
(ordinanza interlocutoria, Sez. 2, n. 00223/2015, Giusti).
Una diversa angolazione prospettica distingue invece Sez. 6-
3, n. 13923/2015, Cirillo, Rv. 636019, secondo cui, ove il giudice
d’appello, provvedendo a norma dell’art. 348 bis, c.p.c., non si limiti
a dichiarare l’inammissibilità per probabile esito infausto, ma
compia anche uno scrutinio sul merito del gravame, si è al cospetto
di un provvedimento che, sebbene rivesta la forma di ordinanza, ha
in realtà natura di sentenza, ed è quindi ricorribile per cassazione.
In relazione al termine per la proposizione del ricorso per
cassazione, Sez. 6-3, n. 15239/2015, Frasca, Rv. 636287, con
specifico riferimento alle controversie in materia di opposizione
esecutiva, ha stabilito che qualora venga pronunciata
l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348 bis, c.p.c., il ricorso
dev’essere proposto entro sessanta giorni decorrenti dalla
comunicazione della relativa ordinanza, non applicandosi la
sospensione feriale dei termini ai sensi dell’art. 3 della legge 7
ottobre 1969, n. 742.
La data della comunicazione di cancelleria dell’ordinanza che
abbia pronunciato l’inammissibilità dell’appello per probabile esito
infausto, secondo Sez. 6-3, n. 13622/2015, De Stefano, Rv. 635912,
costituisce il dies a quo per la proposizione del ricorso per cassazione
entro i successivi sessanta giorni, quand’anche essa sia stata
effettuata a mezzo posta elettronica certificata. Nello stesso senso,
si pone Sez. U, n. 25208/2015, Ambrosio, in corso di
massimazione, che ha anche affermato che la Corte, nell’esercizio
del suo dovere d’ufficio di verificare la tempestività
dell’impugnazione, ha il potere di accedere direttamente agli atti e di
accertare la data di comunicazione dell’ordinanza (ove il ricorrente,
come nella specie, assuma non aver ricevuto alcuna notifica della
stessa), in ciò non potendo ravvisarsi alcuna violazione dell’art. 101,
comma 2, in relazione al disposto dell’art. 384, comma 3, c.p.c.,
trattandosi di questione di diritto, per di più di natura processuale.
Ancora più in dettaglio, la recente Sez. 6-3, n. 20236/2015, De
Stefano, Rv. 637570, ha precisato che, poichè il termine breve di
sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione
avverso l’ordinanza in discorso decorre prioritariamente dalla data
della sua comunicazione, detta data costituisce requisito essenziale
(di contenuto-forma) del ricorso, sicchè il ricorrente è onerato di
allegare gli elementi necessari per poterne configurare la
tempestività.
Tuttavia, Sez. L, n. 18024/2015, Curzio, Rv. 636571, ha
precisato che la suindicata regola che individua il dies a quo vale
soltanto quando la comunicazione permetta al destinatario di
conoscere la natura del provvedimento adottato, implicante lo
speciale regime d’impugnazione previsto. Nella specie, ai fini del
decorso del termine in questione, si è quindi ritenuta inidonea la
comunicazione tramite posta elettronica certificata di un biglietto di
cancelleria che recava l’indicazione, relativa all’appello “dichiarato
inammissibile”.
Sempre riguardo agli effetti della comunicazione di detta
ordinanza, Sez. 6-3, n. 15235/2015, Frasca, Rv. 636288, (ribadita
ìdalla successiva Sez. 6-3, n. 25115/2015, Frasca, in corso di
massimazione) ha affermato che ai fini del ricorso per cassazione
avverso la sentenza di primo grado non è applicabile il termine
“lungo” previsto dall’art. 327 c.p.c., sicchè esso dev’essere proposto
entro i successivi sessanta giorni (ovvero, entro i sessanta giorni
dalla sua notificazione, se anteriore).
Il termine “breve”, peraltro, inizia a decorrere
immediatamente, per le parti presenti e per quelle che avrebbero
dovuto esserlo (secondo la regola generale di cui all’art. 176 c.p.c.)
ove l’ordinanza di cui all’art. 384, comma 1, c.p.c., sia pronunciata in
udienza (Sez. 6-3, n. 25119/2015, Frasca, in corso di
massimazione).
Sez. 6-3, n. 02784/2015, Frasca, Rv. 634388, ha ancora
affermato che, in caso di ricorso per cassazione avverso la sentenza
di primo grado ai sensi dell’art. 348 ter, comma 3, c.p.c., costituisce
onere del ricorrente, a pena d’inammissibilità, indicare che la
questione sollevata in sede di legittimità aveva già trovato ingresso
nel giudizio d’appello per essere stata oggetto del relativo motivo di
gravame, essendo pur sempre applicabili gli artt. 329 e 346 del
codice di rito.
3. (segue) In generale. Sul piano generale, vanno in primo
luogo segnalate le numerose pronunce che hanno affrontato la
questione dell’appellabilità di provvedimenti resi in primo grado.
Anzitutto, Sez. 6-L, n. 02815/2015, Marotta, Rv. 634595, ha
confermato l’orientamento per cui, in tema di opposizione a
ordinanza ingiunzione, a seguito dell’abrogazione dell’ultimo
comma dell’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, operata
dall’art. 26 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, la sentenza di primo
grado è soggetta ad appello secondo la regola generale ex art. 339
c.p.c., e non più a ricorso diretto per cassazione.
Del tutto peculiare è il regime impugnatorio concernente
l’ordinanza emessa dal giudice dell’esecuzione per obblighi di fare o
di non fare. Al riguardo, Sez. 3, n. 17314/2015, De Stefano, Rv.
636480, ha affermato che ove con questa il giudice abbia risolto una
controversia insorta tra le parti, essa assume la natura di sentenza
resa in un giudizio di opposizione all’esecuzione, sicchè è soggetta al
regime di impugnazione proprio di tale tipo di provvedimento. Ne
consegue che, ove l’ordinanza sia stata resa nel periodo compreso
tra il 1° marzo 2006 e il 4 luglio 2009, essa non è appellabile, ma
solo ricorribile per cassazione (in relazione al testo dell’art. 616
c.p.c. applicabile ratione temporis, che ne escludeva l’appellabilità).
Allo stesso modo, per Sez. 6-3, n. 13628/2015, Barreca, Rv.
635914, le sentenze emesse nello stesso periodo nei giudizi di
opposizione all’esecuzione, ex art. 615 c.p.c., sono soggette a ricorso
per cassazione e non sono appellabili, a prescindere dal contenuto
della statuizione impugnata, compresa la regolamentazione delle
spese di lite.
Sempre in tema di esecuzione forzata, Sez. 3, n. 06410/2015,
De Stefano, Rv. 634941, nonché Sez. 3, n. 10250/2015, Frasca, Rv.
635498, hanno affernato che la sentenza emessa nel giudizio di
accertamento dell’obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c., non essendo
assimilabile a quella resa in giudizio di opposizione all’esecuzione ex
art. 615 c.p.c. (in relazione al testo dell’art. 616 c.p.c., ut supra), è
impugnabile con l’appello e non con il ricorso straordinario per
cassazione.
Con riguardo al procedimento di sfratto per morosità, Sez. 6-
3, n. 17582/2015, Lanzillo, Rv. 636469, ha statuito che poiché la
dichiarazione del locatore circa la persistenza della morosità del
conduttore costituisce il presupposto del provvedimento di
convalida, questo è appellabile solo se col gravame si tenda a
contestarne la sussistenza, e non già per dedurne la non veridicità.
Ancora, in tema di opposizione a cartella esattoriale per
omissioni contributive, Sez. L, n. 15392/2015, Patti, Rv. 636411, ha
affermato che qualora l’iscrizione ipotecaria sia stata impugnata solo
come atto conseguente, per non aver potuto previamente
impugnare la cartella in quanto non notificata, la domanda ha natura
ordinaria, investendo il rapporto previdenziale obbligatorio, e non
già di opposizione all’esecuzione, con la conseguenza che la relativa
decisione è soggetta, ai sensi dell’art. 24, comma 6, d.lgs. 26 febbraio
1999, n. 46, all’appello e non al ricorso per cassazione (come
propugnato dal ricorrente, avuto riguardo al testo dell’art. 616 c.p.c.
applicabile ratione temporis), che se proposto va dichiarato
inammissibile.
Sez. 6-3, n. 11739/2015, Armano, Rv. 635479, ha ribadito
che al fine di stabilire se una sentenza del giudice di pace sia stata
pronunciata secondo equità, e sia quindi appellabile solo nei limiti di
cui all’art. 339, comma 3, c.p.c., occorre avere riguardo non già al
contenuto della decisione, ma al valore della causa, da determinarsi
secondo i princìpi di cui agli artt. 10 e ss. c.p.c., e senza tenere conto
del valore indicato dall’attore ai fini del pagamento del contributo
unificato. Pertanto, ove l’attore abbia formulato dinanzi al giudice di
pace una domanda di condanna al pagamento di una somma di
denaro inferiore a millecento euro (e cioè al limite dei giudizi di
equità cd. “necessaria”, ai sensi dell’art. 113, comma 2, c.p.c.),
accompagnandola però con la richiesta della diversa ed
eventualmente maggior somma che “sarà ritenuta di giustizia”, la
causa deve ritenersi – in difetto di tempestiva contestazione ai sensi
dell’art. 14 c.p.c. – di valore indeterminato, e la sentenza che la
conclude sarà appellabile senza i limiti prescritti dall’art. 339 c.p.c.
Sullo stesso tema, Sez. 3, n. 09292/2015, Scarano, Rv.
635284, ha ribadito che, nel caso in cui siano proposte dinanzi al
giudice di pace due domande connesse, di cui la principale da
decidersi secondo equità e la riconvenzionale secondo diritto, la
sentenza con cui il giudice affermi la propria competenza sulla
prima e la declini sulla seconda, negando l’applicazione della regola
di cui all’art. 40 c.p.c., deve considerarsi resa in causa soggetta a
regola decisoria secondo diritto, sicchè, nel regime anteriore alla
modifica dell’art. 339 c.p.c., disposta dall’art. 1 del d.lgs. 2 febbraio
2006, n. 40, essa dev’essere impugnata con l’appello.
Ancora sul tema, Sez. 6-3, n. 03715/2015, Amendola, Rv.
634462, ha affermato che, qualora il tribunale, adito quale giudice
d’appello avverso sentenza del giudice di pace emessa secondo
equità, abbia omesso di rilevare l’inammissibilità dell’appello, il
ricorrente per cassazione deve comunque dedurre l’inosservanza
delle norme sul procedimento, ovvero delle norme costituzionali o
comunitarie, o dei principi regolatori della materia, pena
l’inammissibilità ex artt. 339, comma 3, e 360, comma 1, c.p.c..
Sez. 3, n. 05598/2015, Lanzillo, Rv. 634772, ha poi statuito
che nel caso di estinzione per incorporazione della società appellata
in altra società nel corso del giudizio di primo grado, non dichiarata,
la notifica dell’impugnazione effettuata nei confronti del
procuratore domiciliatario non è inesistente, bensì nulla, e può
essere sanata tramite rinnovazione dell’atto o spontanea
costituzione della società incorporante.
Per il caso di inesistenza della notifica dell’atto d’appello, Sez.
5, n. 20672/2015, Bruschetta, Rv. 636647, ha affermato che
costituisce onere dell’appellante dimostrare che il convenuto
rimasto contumace fosse a conoscenza del processo, dovendo
presumersi la sua ignoranza dello stesso; in mancanza, la sentenza
resa in grado d’appello è nulla, e se impugnata per cassazione, essa
dev’essere cassata senza rinvio, poiché l’appello avrebbe dovuto
dichiararsi inammissibile.
Sul piano dell’interesse ad impugnare, Sez. L, n. 02682/2015,
Venuti, Rv. 634575, ha ribadito che ove l’appellante si limiti a
dedurre soltanto vizi di rito, ancorchè con la prima pronuncia si sia
deciso anche il merito in senso a lui sfavorevole, l’impugnazione è
ammissibile nel solo caso in cui i vizi, se fondati, comportino la
rimessione al primo giudice, nelle ipotesi di cui agli artt. 353 e 354
c.p.c.. In caso contrario, ove l’appellante non censuri anche la
statuizione di merito, l’appello va dichiarato inammissibile, anche
per non rispondenza al modello legale di impugnazione. Nello
stesso senso, la recente Sez. 3, n. 24612/2015, D’Amico, in corso di
massimazione.
Sez. 3, n. 06894/2015, Scrima, Rv. 634985, ha poi ribadito
che la parte totalmente vittoriosa in primo grado non ha interesse
ad impugnare la sentenza in relazione a motivi attinenti alla
motivazione stessa, neanche ove lamenti un ipotetico pregiudizio
dal formarsi del giudicato su di essa.
Ancora, Sez. 3, n. 17017/2015, Stalla, Rv. 636318, ha
affermato che non sussiste interesse alla proposizione dell’appello
incidentale tardivo ove quest’ultimo sia diretto a impugnare un capo
della sentenza estraneo all’appello principale e per una ragione
diversa da quest’ultimo.
È poi incompatibile con la volontà di avvalersi del mezzo
d’impugnazione, ed integra quindi, secondo Sez. 3, n. 12606/2015,
Frasca, Rv. 635885, acquiescenza tacita, la condotta processuale
dell’appellante che, pur postulando l’erroneità in fatto o in diritto
della sentenza di primo grado, non censuri tuttavia la motivazione
nella parte idonea a sorreggere comunque la prima decisione.
Al contrario, non implica acquiescenza, secondo Sez. 6-3, n.
06027/2015, Frasca, Rv. 634893, l’impugnazione proposta
nell’interesse di una sola parte dal difensore che, nel grado
precedente, assisteva più parti, ben potendo le restanti promuoverla
con l’assistenza di diverso difensore.
Sul piano della legittimazione ad impugnare, è stato ribadito
l’orientamento per cui essa spetta soltanto al soggetto che sia stato
parte nel precedente grado di giudizio. Così, secondo Sez. 2, n.
01671/2015, Falaschi, Rv. 634064, l’interveniente volontario in
primo grado, proprio in quanto ha assunto la qualità di parte nel
giudizio, è legittimato a proporre appello non solo quando le sue
istanze siano state respinte nel merito, ma anche quando la
decisione abbia sancito l’inammissibilità dello stesso intervento, o
siano state del tutto pretermesse sulle domande con esso formulate.
Sotto diversa angolazione, e riguardo all’ipotesi di chiamata in
garanzia impropria, la recente Sez. 3, n. 24640/2015, Rubino, in
corso di massimazione, ha ribadito che il terzo chiamato può
impugnare la sentenza di primo grado anche in relazione al rapporto
principale, ma solo nell’ambito del rapporto di garanzia e per i
riflessi che la statuizione può spiegare su di esso, ma a condizione
che egli abbia contestualmente impugnato anche la propria
condanna in manleva, in caso contrario formandosi il giudicato su
questa.
In relazione al termine per impugnare, Sez. L, n. 16303/2015,
Napoletano, Rv. 636346, ha precisato che la regola dettata dall’art.
155, comma 4, c.p.c., che proroga di diritto al primo giorno
seguente non festivo il termine scadente in un giorno festivo, ha
valenza generale e si applica anche al termine breve ex art. 434,
comma 2, c.p.c., per la proposizione dell’appello nelle controversie
soggette al rito del lavoro.
Sempre riguardo a dette controversie, Sez. L, n. 14401/2015,
Manna, Rv. 636063, ha ribadito che la proposizione
dell’impugnazione oltre tale termine, ovvero, in caso di mancata
notifica della sentenza, oltre il termine “lungo” ex art. 327 c.p.c.,
comporta l’inammissibilità dell’appello anche nel caso in cui esso sia
stato proposto con atto di citazione anziché con ricorso, laddove
l’atto non sia stato depositato in cancelleria entro i detti termini.
La Corte, con Sez. 1, n. 15146/2015, Ferro, Rv. 636106, resa
in un giudizio avente ad oggetto opposizione alla sentenza
dichiarativa di fallimento ante riforma del 2006, ha precisato che ove
l’appellante non abbia notificato il ricorso e il decreto di fissazione
di udienza nel termine ordinatorio di cui all’art. 18, comma 4, della
legge fallimentare (nel testo applicabile ratione temporis), non può
chiedere di essere rimesso in termini senza allegare alcuna causa di
giustificazione, ostando a ciò una interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 154 c.p.c., sulla scorta dei
principi sottesi all’art. 111, comma 2, Cost..
Nello stesso senso, in relazione alle controversie soggette al
rito del lavoro, Sez. L, n. 01175/2015, Lorito, Rv. 634080, ha
stabilito che, nel caso in cui l’appellante non abbia notificato il
ricorso e il decreto di fissazione di udienza, benché ritualmente
avvisato ex art. 435 c.p.c., né, mancando di partecipare all’udienza,
abbia addotto alcuna giustificazione onde essere rimesso in termini,
l’improcedibilità dell’impugnazione può essere dichiarata d’ufficio
ancorchè la notifica sia avvenuta per altra udienza successiva, cui la
causa sia stata rinviata d’ufficio dal giudice.
La Corte, inoltre, con riguardo ad un giudizio di opposizione
a verbale di accertamento di infrazione stradale, iniziato in epoca
successiva all’entrata in vigore del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150,
ha altresì ribadito l’inammissibilità del ricorso erroneamente
proposto con citazione invece che con ricorso qualora il deposito
dell’atto di citazione in cancelleria, per l’iscrizione a ruolo, sia
avvenuto oltre il termine fissato per la proposizione dell’appello,
quantunque notificato prima della sua scadenza (Sez. 6-3, n.
25061/2015, Vivaldi, in corso di massimazione).
Ancora sul termine per impugnare, Sez. 3, n. 16194/2015,
Rubino, Rv. 636045, ha affermato che la mancata comunicazione al
procuratore costituito di una delle parti della ordinanza di
rimessione alla c.d. sezione stralcio, pur comportando la nullità di
tutti gli atti processuali e della sentenza resa dal G.O.A., non esime
il difensore dalla necessità di dedurre il vizio con la proposizione di
appello, entro il termine di cui all’art. 327 c.p.c..
Nell’ambito del contenzioso elettorale, Sez. 6-1, n.
18022/2015, Acierno, Rv. 636711, ha affermato che l’appello
avverso l’ordinanza decisoria adottata dal tribunale dev’essere
proposta copn atto di citazione entro il termine perentorio previsto
dall’art. 702 quater c.p.c., sicchè ove esso sia stato proposto con
ricorso, la tempestività dev’essere valutata con riguardo alla data di
notifica alla controparte e non già a quella di deposito in cancelleria.
Sull’appello incidentale, Sez. 3, n. 01127/2015, Travaglino,
Rv. 633990, ha ribadito che, in caso di rinvio d’ufficio dell’udienza
ex art. 168 bis, comma 4, c.p.c., non si determina una riapertura dei
termini per il deposito della comparsa di costituzione e risposta, e
quindi per la proposizione dell’impugnativa, dal momento che
occorre far esclusivo riferimento o al termine indicato nell’atto di
citazione in appello, ovvero alla data fissata dal giudice istruttore, ex
art. 168 bis, comma 5, c.p.c.. Ne consegue che l’appello incidentale
proposto con comparsa depositata successivamente all’udienza
fissata nell’atto d’appello, rinviata però d’ufficio ex art. 168 bis,
comma 4, c.p.c., è inammissibile per tardività.
Ancora Sez. 3, n. 12724/2015, Carluccio, Rv. 635947, ha
ribadito che l’avvenuta impugnazione della sentenza di primo grado
comporta che tutte le altre impugnazioni avverso la medesima
debbano essere proposte in via incidentale nello stesso giudizio
entro il termine di cui all’art. 343 c.p.c., con la conseguenza che
l’impugnazione proposta oltre tale termine è inammissibile ancorchè
non siano spirati i termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c., che
conservano rilevanza solo per l’operatività delle conseguenze
previste dall’art. 334, comma 2, c.p.c..
L’attore totalmente vittorioso in primo grado, in giudizio
avente ad oggetto risarcimento danni, non ha l’onere di proporre
appello incidentale per invocare una diversa fonte di responsabilità
del danneggiante, per Sez. 3, n. 09294/2015, Scarano, Rv. 635285,
ove il giudice di primo grado abbia applicato una delle norme
invocate quale titolo di responsabilità, ciò non comportando la
formazione di giudicato implicito, trattandosi di mera qualificazione
giuridica.
Riguardo all’onere di specificità dei motivi d’appello, sancito
come detto dall’art. 342 c.p.c., Sez. 3, n. 18307/2015, Scarano, Rv.
636741, in linea con consolidato indirizzo, ha affermato che ai fini
del suo assolvimento non occorre una formalistica enunciazione,
sufficiente essendo che le argomentazioni contrapposte
dall’appellante a quelle riportate nella decisione impugnata siano tali
da inficiarne il fondamento logico giuridico (fattispecie antecedente
alla riforma del 2012).
Sempre Sez. 3, n. 13203/2015, Vincenti, Rv. 636006, ha
sancito che ove in primo grado l’attore abbia allegato la conclusione
di un contratto di mandato avvenuta, alternativamente, in forma
orale o per fatti concludenti, l’accertamento negativo contenuto al
riguardo nella sentenza impugnata comporta l’onere di proporre
specifici motivi di appello in relazione ad ambedue i profili, pena la
formazione del giudicato interno su quello non riproposto, stante la
diversità del tema di indagine sotteso a ciascuna delle allegazioni.
Nello stesso senso, Sez. 6-2, n. 04259/2015, Manna, Rv.
634914, ha affermato che l’appello avverso la sentenza che affermi
una duplice ragione della decisione, di cui la prima logicamente e
giuridicamente pregiudiziale rispetto alla seconda, va dichiarato
inammissibile ove non contenga specifiche censure alla prima di
esse.
Con specifico riferimento al processo del lavoro, Sez. L, n.
02143/2015, Ghinoy, Rv. 634309, ha stabilito che l’art. 434, comma
1, c.p.c., anch’esso modificato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n.
83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134 in coerenza col
paradigma generale previsto dall’art. 342 del codice di rito, non
richiede forma determinate, ma impone al ricorrente in appello di
individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum,
circoscrivendo il giudizio di gravame agli specifici capi della
sentenza impugnata, nonché ai passaggi argomentativi che la
sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di
dissenso rispetto al percorso adottato dal giudice di prime cure, in
modo da esplicitare l’idoneità delle censure a determinare le
auspicate modifiche alla decisione appellata.
Sempre riguardo all’onere di specificità, Sez. 3, n.
21791/2015, D’Amico, in corso di massimazione, ha statuito come
esso sia rispettato ove l’appellante, che si dolga della mancata o
erronea liquidazione delle spese operata dal primo giudice, alleghi
all’atto d’appello la nota spese che si assume erroneamente liquidata,
e non si limiti a farlo in atti o memorie successivamente depositate.
Quanto ai poteri del giudice d’appello, Sez. 3, n. 02880/2015,
Carleo, Rv. 634493, ha confermato l’orientamento secondo cui la
rimessione al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c., stante la sua
eccezionalità, non può essere disposta se non nei casi espressamente
previsti, sicchè se ne deve escludere l’applicabilità nel caso di
sentenza dichiarativa dell’estinzione emessa nelle forme ordinarie, ai
sensi dell’art. 307, ult. comma, c.p.c., limitata essendo la rimessione,
in subiecta materia, all’ipotesi di riforma della sentenza con la quale il
tribunale, in base all’art. 308, comma 2, dello stesso codice, abbia
respinto il reclamo contro la ordinanza del giudice istruttore che ha
dichiarato l’estinzione del processo.
Sez. 3, n. 17195/2015, Barreca, Rv. 636209, ha poi ribadito
che in assenza di uno specifico motivo d’impugnativa, il giudice
d’appello che rigetti il gravame non può disporre la compensazione
delle spese del giudizio di primo grado.
Nel solco di consolidato orientamento, non costituisce vizio
di extrapetizione, secondo Sez. 1, n. 16213/2015, Mercolino, Rv.
636495, la diversa qualificazione giuridica del rapporto controverso
da parte del giudice d’appello rispetto a quanto ritenuto dal giudice
di primo grado, ciò rientrando nei suoi poteri, purchè la diversa
qualificazione sia coerente con le questioni riproposte, lasciando
inalterati il petitum e la causa petendi, e non introduca nel tema
controverso nuovi elementi di fatto.
Ancora, sul tema di sentenza declinatoria della competenza
pronunciata dal giudice di pace in causa esorbitante dai limiti della
giurisdizione equitativa, Sez. 6-3, n. 13623/2015, De Stefano, Rv.
636072, ha ribadito che ove venga proposto appello avverso tale
statuizione, il tribunale è investito dell’esame del merito quale
giudice d’appello, dovendo escludersi che, nel caso di fondatezza
della censura, debba rimettersi la causa al giudice di pace per la
rinnovazione del giudizio di primo grado.
Del pari, per Sez. 3, n. 12714/2015, Amendola, Rv. 635819,
deve escludersi la rimessione al primo giudice nel caso in cui,
convenuto in giudizio, in proprio, un soggetto privo della capacità
processuale (nella specie, interdetto legalmente), questi abbia
successivamente riacquistato la capacità in fase di gravame,
determinandosi in tal caso la sanatoria della nullità della sua
costituzione in giudizio, ex art. 182 c.p.c., ma non anche della
validità del giudizio svolto in violazione del principio del
contraddittorio, occorrendo quindi che il giudice d’appello pronunci
sulla domanda originaria, previa declaratoria della nullità della
sentenza.
Quanto alla riforma in grado d’appello della sentenza
declinatoria della giurisdizione, Sez. U, n. 03025/2015, Napoletano,
Rv. 634062, ha affermato che il giudice di primo grado al quale la
causa sia stata dunque rimessa ex art. 353 c.p.c. non può proporre
regolamento di giurisdizione d’ufficio, ma è tenuto a statuire sulla
domanda.
Ove il giudice d’appello abbia emesso sentenza non definitiva
e disposto per il prosieguo del giudizio, secondo Sez. 1, n.
00488/2015, Benini, Rv. 634226, la cassazione senza rinvio della
detta sentenza comporta che viene a cessare immediatamente la
potestas judicandi dello stesso giudice, sicchè l’eventuale sentenza
definitiva successivamente emessa è affetta da inesistenza per
abnormità, che può essere denunciata in ogni tempo con ordinaria
azione di accertamento, ma anche con i mezzi ordinari di
impugnazione.
In fattispecie assai peculiare, Sez. 3, n. 22978/2015, Frasca, in
corso di massimazione, ha statuito che quando il giudice d’appello
ravvisa che il diritto riconosciuto dalla sentenza di primo grado
esiste ma è stato erroneamente quantificato, non solo non può
pronunciare una pronuncia parziale di riforma della sentenza di
primo grado solo sul “quantum”, ma, se statuisca erroneamente, non
può disporre la condanna alla restituzione di quanto corrisposto
dalla parte appellante in forza dell’esecuzione, e ciò in quanto si è
comunque al di fuori del paradigma dell’art.278 c.p.c., sia degli artt.
277 e 279 n. 4 c.p.c..
Sul piano del procedimento, va anzitutto segnalata Sez. 6-L,
n. 02816/2015, Marotta, Rv. 634629, che ha ribadito che la
disciplina dell’inattività delle parti dettata dal codice di procedura
civile per il giudizio di cognizione di primo grado e di appello trova
applicazione anche nell’ambito del cd. rito del lavoro, non
ostandovi né la sua specialità, né i principi cui esso si ispira, sicchè,
ove all’udienza di discussione ex art. 437 c.p.c. dinanzi al giudice
d’appello nessuno compaia, non è possibile decidere la causa,
occorrendo provvedere ai sensi degli artt. 181 e 348 c.p.c..
Per il caso di sentenza declinatoria della competenza e
conseguente riassunzione, Sez. U, n. 15996/2015, Travaglino, Rv.
636104, ha affermato che la “conservazione dell’appello ai fini della
«translatio iudicii» non opera per l’impugnazione proposta allo
stesso giudice che ha emesso la sentenza impugnata (nella specie,
medesimo tribunale, adito quale tribunale regionale delle acque e
poi quale tribunale superiore delle acque), mancando, in tal caso,
uno strumento processuale che legittimi il passaggio dal primo al
secondo grado”.
Riguardo ai giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione
introdotti nella vigenza dell’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n.
689, Sez. 2, n. 12954/2015, Picaroni, Rv. 635706, ha affermato che
le regole speciali dettate per il giudizio di primo grado non si
estendono automaticamente al giudizio d’appello in mancanza di
specifica previsione normativa, sicchè non trova applicazione nel
giudizio di secondo grado la regola per cui occorre procedere alla
lettura del dispositivo in udienza, a pena di nullità della sentenza.
Sempre sul tema delle modalità di emissione della sentenza
d’appello, la recente Sez. 3, n. 22871/2015, Barreca, in corso di
massimazione, ha affermato che «è corretto e non viola gli artt. 281 sexies
e 350-352 c.p.c., l’operato del giudice d’appello che, intendendo decidere la causa
ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., in forza del disposto dell’ultimo comma
dell’art. 352 c.p.c. (aggiunto dall’art. 27, comma l, lett. d, della legge 12
novembre 2011 n. 183), esaurita l’attività prevista nell’art. 350, non dovendo
provvedere a norma dell’articolo 356, all’udienza fissata per la trattazione
dell’appello invita l’unica parte presente – essendo l’altra assente non giustificata
– a precisare le conclusioni, senza fissare un’altra udienza allo scopo ed, in
mancanza di istanza di parte di rinvio della discussione orale ad un’udienza
successiva, ordina la discussione orale nella stessa udienza e pronuncia sentenza
al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa
esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione».
Sul tema dell’ultrattività del rito, Sez. 3, n. 13311/2015,
Scrima, Rv. 635802, ha statuito che, nelle controversie aventi ad
oggetto sinistri stradali, introdotte prima dell’entrata in vigore della
legge 21 febbraio 2006, n. 102 (che prevedeva il loro
assoggettamento al rito del lavoro, senza dettare una disciplina
transitoria), l’appello dev’essere proposto con le forme e nei termini
del rito ordinario, allorchè la causa sia stata trattata e decisa in primo
grado secondo tale rito.
Al contrario, ove la sentenza di primo grado sia stata resa
nelle forme del rito del lavoro e, alla data di abrogazione dell’art. 3
della legge n. 102 del 2006, sia ancora pendente il termine per
proporre l’appello, secondo Sez. 1, n. 02265/2015, Acierno, Rv.
634976, questo dev’essere proposto con le forme e nei termini di
cui all’art. 434, comma 2, c.p.c., trattandosi di controversia ancora
pendente ai sensi dell’art. 53, comma 2, della legge 18 giugno 2009,
n. 69.
Quanto alle domande “assorbite”, Sez. 2, n. 07457/2015, San
Giorgio, Rv. 635000, in linea con consolidato orientamento, ha
ribadito che l’appellato la cui domanda principale sia stata accolta
nel giudizio di primo grado ha l’onere di riproporre la domanda
subordinata su cui il primo giudice non abbia pronunciato perché
assorbita, pena la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c..
Ancora, Sez. 6-3, n. 15605/2015, De Stefano, Rv. 636467, ha
affermato che ove l’attore abbia convenuto in giudizio una pluralità
di soggetti, il rigetto della domanda per intervenuta prescrizione nei
confronti di tutti i predetti, in uno con l’accertamento della titolarità
passiva in capo ad uno solo di essi, onera l’attore ad impugnare
anche tale ultima statuizione, in mancanza formandosi il giudicato
su di essa.
In relazione alle controversie soggette al rito del lavoro, Sez.
L., n. 00461/2015, Balestrieri, Rv. 634077, ha ribadito che alla parte
rimasta contumace in primo grado, o che ivi si sia tardivamente
costituita, non è preclusa la contestazione in grado d’appello,
presupponendo il principio di non contestazione un
comportamento concludente della parte costituita.
Ove sia stata proposta querela di falso nel corso del giudizio
d’appello, secondo Sez. 3, n. 18892/2015, Rubino, Rv. 636667,
quando questo sia stato sospeso e il giudice non abbia indicato il
tribunale territorialmente competente, la tempestiva riassunzione
dinanzi a tribunale comunque incompetente non determina
l’estinzione del giudizio, giacchè è sufficiente a scongiurare tale esito
la circostanza che il querelante si sia attivato entro il termine
perentorio assegnatogli ex art. 355 c.p.c. per introdurre il giudizio di
falso.
Con specifico riguardo al procedimento di adozione, secondo
Sez. 1, n. 15365/2015, De Chiara, Rv. 636487, ove l’adottando
abbia compiuto i dodici anni al tempo del giudizio d’appello, egli
dev’essere audito, ciò potendo ricavarsi dall’art. 15 della legge 4
maggio 1983, n. 184, che, sebbene imponga tale obbligo
espressamente ai fini della dichiarazione di adottabilità, esprime
tuttavia una nuova considerazione del minore quale portatore di
bisogni ed interessi che, pur non vincolando il giudice, non possono
essere ignorati.
Sempre in tema di dichiarazione di adottabilità del minore,
Sez. 1, n. 15369/2015, Valitutti, Rv. 636485, ha precisato che i
genitori dell’adottando, se esistenti, sono le sole parti necessarie e
quindi litisconsorti necessari anche in grado d’appello, benché non
costituiti in primo grado, nonché unici soggetti a dover essere
obbligatoriamente sentiti.
Per il caso di erronea individuazione del giudice d’appello,
Sez. 6-3, n. 22321/2015, Armano, in corso di massimazione, in
motivato contrasto con Sez. 6-L, n. 11969/2015, Rv. 635553, ha
recentemente escluso che ciò possa configurare – in fattispecie in
cui era stata adita la sezione specializzata agraria, sebbene la prima
decisione fosse stata resa dal tribunale ordinario – questione di
competenza, non potendo trovare applicazione né la regola della
translatio judicii di cui all’art. 50 c.p.c., né tampoco la disciplina
dinamica della competenza, ex art. 38 c.p.c., essendosi già formato il
giudicato sulla sentenza impugnata a cagione di detta erronea
individuazione. Secondo la citata pronuncia, dette conclusioni
hanno carattere generale, e valgono: «aa) sia per il caso in cui
l’impugnazione venga proposta avanti ad un giudice territorialmente non
corrispondente a quello indicato dalla legge (appello contro sentenza del giudice
di pace proposto ad un tribunale di una circoscrizione diversa da quella di cui fa
parte il giudice che l’ha pronunciata; appello contro sentenza del tribunale
proposto a corte d’appello diversa da quella del distretto di cui fa parte il
tribunale); bb) sia per il caso in cui, pur rispettata la regola territoriale
l’impugnazione venga proposta avanti a giudice di tipo diverso da quello che la
legge individua (appello contro sentenza del giudice di pace proposto alla Corte
d’Appello); cc) sia per il caso di impugnazione proposta a giudice diverso da
quello legittimato ma con la particolarità ch’esso rientri nella stessa tipologia di
ufficio giudiziario di quel giudice (es.: revocazione contro sentenza del tribunale
proposta ad altro tribunale); dd) sia per il caso di impugnazione proposta a
giudice che nella ripartizione verticale dell’organizzazione del processo civile
impugnazioni non sia «superiore» a quello che abbia pronunciato la sentenza
(es.: appello contro sentenza del tribunale proposto ad altro tribunale) o
addirittura sia collocato in posizione inferiore».
Diverse pronunce hanno interessato il tema della scindibilità
o inscindibilità di cause. In particolare, Sez. 2, n. 06780/2015,
Falaschi, Rv. 634744, ha ribadito che, nel caso di morte di una delle
parti del giudizio di primo grado, la sua legittimazione (attiva o
passiva) si trasmette agli eredi, la cui posizione integra, per tutta la
ulteriore durata del giudizio, litisconsorzio necessario processuale.
Pertanto, ove l’appello sia stato proposto contro uno soltanto degli
eredi, il giudice d’appello deve ordinare d’ufficio l’integrazione del
contraddittorio nei confronti degli altri, a pena di nullità, salva la
loro costituzione spontanea.
Sez. 5, n. 15292/2015, La Torre, Rv. 636035, ha affermato
che nelle cause scindibili o indipendenti, l’appello incidentale
tardivo ben può investire capi diversi da quelli impugnati in via
principale, ma non può determinare l’estensione soggettiva del
giudizio e, quindi, non può proporsi contro parti diverse da quelle
che hanno proposto l’appello principale, essendosi formato nei
confronti delle prime il giudicato interno.
Ancora, Sez. 2, n. 10808/2015, Matera, Rv. 635656, ha
affermato che sussiste un’ipotesi di litisconsorzio necessario
processuale in sede di gravame qualora ad una pluralità di coeredi
sia richiesto l’adempimento pro quota dell’unica obbligazione del de
cuius, stante l’unicità genetica del rapporto obbligatorio.
Per il caso di chiamata in garanzia cd. impropria, Sez. 3, n.
12919/2015, Rubino, Rv. 635908, ha affermato che, qualora la
sentenza di primo grado abbia accolto sia la domanda di molestia
che quella di garanzia, l’impugnazione da parte del garante del capo
concernente la responsabilità del convenuto, nel caso di
accoglimento, non può recare beneficio al convenuto stesso, che
non l’abbia impugnato, giacchè nei suoi confronti s’è già formato il
giudicato, a ciò non ostando neanche il disposto dell’art. 1306,
comma 2, c.c., che, pur regolando l’effetto espansivo della sentenza
favorevole al coobbligato solidale, presuppone tuttavia che questi
non abbia preso parte al giudizio in cui detta sentenza è stata resa.
Riguardo a giudizio svoltosi con pluralità di parti in cause
scindibili, ex art. 332 c.p.c., Sez. 3, n. 13355/2015, Rubino, Rv.
635981, ha confermato l’orientamento per cui la notificazione
dell’appello a tutte le parti, avendo la mera funzione di litis
denuntiatio, non determina la qualità di parte del giudizio di
impugnazione in capo al destinatario, con la conseguenza che non
sussistono i presupposti per la pronuncia a suo favore della
condanna alle spese a norma dell’art. 91 c.p.c., che esige la qualità di
parte, e perciò una vocatio in ius, e la soccombenza.
Con riferimento all’intervento adesivo volontario, ai sensi
dell’art. 105 c.p.c., Sez. 2, n. 09150/2015, Nuzzo, Rv. 635243, ha
affermato che, pur ricorrendo un’ipotesi di cause sostanzialmente
scindibili, si configura un litisconsorzio necessario processuale e la
causa deve considerarsi inscindibile nei confronti dell’interveniente,
con la conseguenza che egli è legittimato a proporre impugnazione
incidentale tardiva, ex art. 334 c.p.c., anche contro una parte diversa
da quella che ha impugnato la sentenza e su un capo di sentenza
diverso da quello oggetto dell’impugnazione principale.
Sez. 3, n. 08693/2015, D’Amico, Rv. 635078, ha affermato
che ove il giudice di primo grado abbia pronunciato
impropriamente l’estromissione di uno dei convenuti per carenza di
legittimazione passiva (ma in realtà respingendo nel merito la
domanda nei suoi confronti), la parte soccombente, che abbia
appellato la sentenza solo nei confronti delle altre parti, così
accettando detta pronuncia, è tenuto a notificare alla parte
estromessa l’appello ai sensi dell’art. 332 c.p.c.. Ne deriva che la
costituzione in appello di quest’ultima dev’essere considerata
inammissibile, mancando l’impugnativa sulla pronuncia di
estromissione, né potendo essa qualificarsi come intervento ad
adiuvandum, non ricorrendo i presupposti di cui all’art. 344 c.p.c..
Con specifico riferimento al rito del lavoro, Sez. L, n.
01915/2015, Manna, Rv. 634308, ha ribadito che nel caso in cui il
ricorso in appello sia stato depositato in cancelleria entro il termine
lungo di cui all’art. 327 c.p.c., l’integrazione del contraddittorio
eventualmente disposta ex art. 331 c.p.c. dev’essere notificata, anche
dopo il decorso del suddetto termine, non alla parte personalmente,
bensì al suo procuratore costituito.
Infine, numerose pronunce hanno riguardato il tema dei nova
in appello. Così, Sez. 6-2, n. 01529/2015, Bianchini, Rv. 633836, ha
confermato l’orientamento per cui, in sede di appello, non è
possibile introdurre la domanda avente ad oggetto l’attribuzione di
interessi non richiesti in primo grado, attesa la novità della domanda
stessa, salvo che si tratti di accessori che non avrebbero potuto
chiedersi precedentemente.
Al contrario, Sez. 3, n. 06457/2015, Pellecchia, Rv. 634943,
ha affermato che la domanda di restituzione di quanto
indebitamente pagato in forza di sentenza esecutiva può essere
avanzata per la prima volta con l’atto d’appello e anche in sede di
precisazione delle conclusioni, non potendo tale domanda
considerarsi nuova.
In materia di locazione, Sez. 3, n. 16801/2015, Stalla, Rv.
636353, ha affermato che la domanda di rilascio dell’immobile
locato include anche quella diretta al rilascio delle pertinenze, sicchè
questa non integra domanda nuova e può essere proposta, per la
prima volta, anche in appello.
In tema di acquisto della proprietà a titolo originario, Sez. 2,
n. 00040/2015, Giusti, Rv. 633805, ha affermato che non viola il
divieto di “ius novorum” la deduzione, da parte del convenuto in
rivendica, dell’acquisto per usucapione, ordinaria o abbreviata, della
proprietà dell’area, qualora egli abbia eccepito in primo grado la
proprietà in forza di diverso titolo, giacchè il diritto di proprietà
appartiene alla categoria dei diritti cd. eterodeterminati, che si
identificano in virtù del loro contenuto, e non già per il titolo che ne
costituisce la fonte, la cui deduzione è funzionale ai fini
dell’assolvimento dell’onere probatorio.
Sez. 2, n. 17322/2015, Falaschi, Rv. 636224, ha ribadito che
per il principio di infrazionabilità e contestualità della prova
testimoniale, ricavabile dall’art. 244 c.p.c., coordinato con le regole
dell’ammissione delle nuove prove in appello, è inammissibile
l’istanza istruttoria vertente non già sulle medesime circostanze già
ammesse in primo grado, ma anche quella diretta ad integrare o
confutare le risultanze della prova già espletata in primo grado.
Sempre sul piano probatorio, Sez. 1, n. 17341/2015,
Genovese, Rv. 636643, ha affermato che l’art. 345, comma 3, c.p.c.
(nel testo applicabile ratione temporis), impone al giudice d’appello che
ammetta la produzione di documenti non prodotti in primo grado,
in quanto indispensabili ai fini della decisione, di motivare
espressamente sulla ritenuta attitudine, positiva o negativa, della
nuova produzione a dissipare lo stato di incertezza sui fatti
controversi.
In tema di opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. U, n.
14475/2015, Curzio, Rv. 635758, risolvendo il contrasto sul punto
tra diverse pronunce di legittimità, ha affermato che l’art. 345,
comma 3, c.p.c., va interpretato nel senso che i documenti prodotti
in sede monitoria e rimasti a disposizione della controparte, seppur
non versati in atti in primo grado, rimangono tuttavia nella sfera di
cognizione del giudice dell’opposizione, in forza del principio “di
non dispersione della prova” ormai acquisita al processo; ne deriva
che essi, ove prodotti in appello, non possono considerarsi nuovi,
sicchè la loro produzione è pienamente ammissibile.


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Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.


Un commento:

  1. Ciro Sciortino

    Il giudice dell’esecuzione del fare ha emesso una ordinanza in violazione dell’art. 134 c. p. c.! Ho presentato istanza per revocarla o modificarla. Il giudice ha fissato l’udienza e controparte ha sollevato l’eccezione perchè dovevo presentare reclamo ormai con termini scaduti! Il giudice si è riservato!
    Dico Io, ma il giudice non doveva pronunciarsi de plano?
    Con riguardo
    Ciro Sciortino



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