Il ricorso per Cassazione è un atto altamente sofisticato. Esso presuppone non solo e non tanto la conoscenza delle norme del codice (invero poche), ma soprattutto la conoscenza del diritto vivente, cioè della giurisprudenza della stessa Corte. Sicché proporre ricorsi manifestamente infondati, può costare caro.
Ed è infatti costato (relativamente) caro a due compagnie di assicurazioni che avevano proposto un ricorso manifestamente inammissibile (con riguardo a tre dei quattro motivi) e infondato (con riguardo ad un motivo).
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La supervisione del ricorso per cassazione.
Cassazione civile sez. III, 10/08/2016, (ud. 12/02/2016, dep.10/08/2016), n. 16863
3. La responsabilità aggravata.
3.1. Il presente giudizio è iniziato in primo grado nel 2005, ed il ricorso per cassazione è stato proposto nel 2013.
Ad esso pertanto è applicabile l’art. 385 c.p.c., comma 4, a norma del quale “quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all’art. 375, la Corte, anche d’ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave”. Tale norma è stata infatti aggiunta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 13 e, per espressa previsione dell’art. 27, comma 2 medesimo decreto, si applica ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pubblicate a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto medesimo, avvenuta il 2 marzo 2006.
L’art. 385 c.p.c., comma 4, è stato abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 20.
Tuttavia, per espressa previsione dell’art. 58 stessa legge, “le disposizioni della presente legge che modificano il c.p.c.(…) si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore”, vale a dire dopo 4 luglio 2009.
Nel presente giudizio è pertanto applicabile ratione temporis l’art. 385 c.p.c., comma 4, (come già ritenuto da Sez. 3, Sentenza n. 22812 del 07/10/2013, Rv. 629023, in motivazione), in quanto:
(a) il ricorso per cassazione ha ad oggetto una sentenza pronunciata dopo il 2 marzo 2006;
(b) essendo il giudizio in primo grado iniziato prima del 4 luglio 2009, ad esso non si applica l’abrogazione dell’art. 385 c.p.c., comma 4, disposta dalla L. n. 69 del 2009.
V’è solo da aggiungere, per completezza ed a maggior conforto del principio di diritto che sarà espresso nei che seguono, che il precetto già contenuto nell’art. 385 c.p.c., comma 4, per i giudizi introdotti dopo il 4 luglio 2009 non è stato soppresso, ma semplicemente trasferito nell’art. 96 c.p.c., omma 3 come novellato dalla citata L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 12.
Scelta, quest’ultima, la quale palesa la evidente volontà del legislatore non solo di tenere fermo il principio medesimo, ma anzi di rafforzarlo, spostando la relativa previsione in una disposizione di carattere generale ed applicabile a qualsiasi tipo di giudizio.
3.2. Chiarito ciò quanto alle norme applicabili, deve rilevarsi che la Generali e la Toro, nei propri ricorsi, hanno censurato la sentenza d’appello sostenendone in buona sostanza l’erroneità per avere malamente valutato le prove.
Lo hanno, del resto, ammesso candidamente le stesse ricorrenti, come già rilevato, a p. 7 dei rispettivi ricorsi.
3.3. Una censura di questo tipo, già nella vigenza del vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, avrebbe cozzato contro il consolidato e pluridecennale orientamento di questa Corte, secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”).
A fortiori, dunque, quella censura appare temeraria oggidì, dopo che la modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5 ha espunto dai vizi denunciabili in sede di legittimità quello di “illogica o contraddittoria motivazione”.
3.4. Ci troviamo dunque al cospetto di due ricorsi per cassazione che:
-) non tengono conto di un orientamento consolidato da decenni, senza spendere alcun valido argomento per dimostrarne l’erroneità;
-) prospettano motivi di ricorso non più consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5.
Ritiene questa Corte che proporre ricorsi per cassazione dai contenuti così distanti per un verso dal diritto vivente, per altro verso dai precetti del codice di rito come costantemente e pacificamente interpretati dalle Sezioni Unite, costituisca di per sè un indice della colpa grave del ricorrente.
Agire o resistere in giudizio con colpa grave significa infatti azionare la propria pretesa, o resistere a quella avversa, con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione; ovvero senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione; e comunque senza compiere alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla singola fattispecie concreta.
Il che è quanto avvenuto nel nostro caso, posto che sarebbe stato agevole avvedersi della carenza di fondamento del ricorso oggi in esame. Da ciò deriva che delle due l’una: o il ricorrente – e per lui il suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti della controparte processuale, ex art. 2049 c.c. – ben conosceva l’insostenibilità della propria impugnazione, ed allora ha agito sapendo di sostenere una tesi infondata (condotta che, ovviamente, l’ordinamento non può consentire); ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall’art. 1176 c.c., comma 2) da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata quale è quella dell’avvocato in generale, e dell’avvocato cassazionista in particolare.
3.5. Ovviamente questa Corte ben conosce l’orientamento secondo cui la mera infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità non può di per sè integrare gli estremi della responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c. (Sez. U, Ordinanza n. 25831 del 11/12/2007, Rv. 600837). Questo orientamento, tuttavia, per un verso non viene in rilievo nel nostro caso, e per altro verso deve ritenersi superato.
3.5.1. Esso, innanzitutto, non viene in rilievo nel nostro caso, giacchè se è vero che proporre un ricorso per cassazione rivelatosi infondato, di per sè, non costituisce indice di colpa grave ex art. 385 c.p.c., comma 4, (ovvero, oggidì, ex art. 96 c.p.c., u.c.), è parimenti vero che in questa sede si è rilevata non già la mera infondatezza, ma la totale insostenibilità in punto di diritto degli argomenti spesi nel ricorso, a causa della mancanza di argomentazioni tendenti a contrastare la giurisprudenza consolidata: di talchè la insostenibilità degli argomenti del ricorrente finisce per costituire un indizio dal quale risalire, ex art. 2727 c.c., alla sussistenza di colpa grave, consistita come già detto nell’ignorare, senza alcun atteggiamento consapevole o critico, le interpretazioni consolidate delle norme anche processuali.
3.5.2. Il suddetto orientamento (secondo cui sostenere tesi infondate in sede di legittimità non sarebbe di per sè indice di “colpa grave”, ai fini della condanna per responsabilità aggravata), in ogni caso oggi non è più coerente nè con la natura e la funzione del giudizio di legittimità, nè col quadro ordinamentale.
Non è coerente con le prime, perchè non considera come il legislatore abbia, negli ultimi anni, proceduto ad un progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia assegnato alla Corte di cassazione: sono dimostrazione di questa tendenza, ad esempio, l’art. 360 bis c.p.c., n. 1, il quale sanziona con la dichiarazione di “inammissibilità” (rectius, manifesta infondatezza) il ricorso che censuri un orientamento consolidato, senza offrire elementi per sostenerne il mutamento; la novella dell’art. 363 c.p.c., comma 1, che ha ampliato il novero dei casi in cui è consentito alla Corte di pronunciare il principio di diritto nell’interesse della legge; od ancora all’introduzione dell’art. 374 c.p.c., comma 3, che inibisce alle singole sezioni della Corte di cassazione di porsi in contrasto con gli orientamenti delle Sezioni Unite, senza previamente rimettere la questione a queste ultime.
Da queste modifiche emerge l’intento del legislatore di rafforzare e qualificare la funzione di legittimità e il suo scopo di nomofilachia, intento che resterebbe ovviamente frustrato se la Corte non fosse investita solo di ricorsi che meritino e rendano necessario il suo intervento.
L’orientamento qui in discussione, inoltre, non è coerente col mutato quadro ordinamentale, perchè non tiene conto:
(a) del principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., che impone interpretazioni delle norme processuali idonee a rendere più celere il giudizio. Infatti la celerità del giudizio di legittimità, concentrato com’è in una sola udienza, dipende non tanto e non solo dalle norme processuali che disciplinano il giudizio di impugnazione, ma anche e soprattutto dal numero di giudizi manifestamente infondati pendenti dinanzi la Corte. E’ dunque evidente che la proposizione di ricorsi privi di qualsiasi ragionevole chance di accoglimento ha l’effetto di impedirle la celere decisione di quelli che, fondati od infondati che siano, pongano questioni le quali richiedano un intervento correttivo o nomofilattico del giudice di legittimità;
(b) del principio che considera illecito l’abuso del processo, ovvero il ricorso ad esso con finalità strumentali (ex multis, da ultimo, Sez. 2, Sentenza n. 10177 del 18/05/2015, Rv. 635418);
(c) del principio secondo cui le norme processuali vanno interpretate in modo da evitare lo spreco di energie giurisdizionali (così, da ultimo, Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015, Rv. 635536, in motivazione).
Vale la pena, infine, soggiungere che l’orientamento qui in contestazione, in ogni caso, risulta essere stato abbandonato dalle decisioni più recenti di questa Corte, che si sono allineate al diverso principio qui affermato (ex aliis, Sez. 5, Sentenza n. 15030 del 17/07/2015, Rv. 636051; Sez. 3, Sentenza n. 4930 del 12/03/2015, Rv. 634773; Sez. 3, Sentenza n. 817 del 20/01/2015, Rv. 634642).
3.6. Deve dunque concludersi che, dovendo ritenersi il ricorso oggetto del presente giudizio proposto quanto meno con colpa grave, le ricorrenti devono essere condannate d’ufficio al pagamento in favore della parte intimata, in aggiunta alle spese di lite, d’una somma equitativamente determinata in base al valore di queste ultime.
Tale somma va determinata assumendo a parametro di riferimento il presumibile dispendio di tempo e di energie reso necessario dalla notifica dei due ricorsi (principale ed incidentale), e può essere fissata in via equitativa ex art. 1226 c.c. nell’importo di Euro 5.000, oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza.
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