Sono costati tre mesi di sospensione disciplinare, l’intimazione dell’intero importo nell’atto di precetto, nonostante l’acconto ricevuto dalla controparte.
La Cassazione ha infatti confermato le pronunce del CDO prima e del CNF poi, evidenziando la “manifesta contrarietà ai doveri di lealtà e probità (art. 98, comma 1, cod. proc. civ.), nonché alla dignità e al decoro professionali, e, in definitiva a quella regola dell’honeste vivere che costituisce il substrato di ogni ordinamento giuridico, di un comportamento, del genere di quello considerato, concretandosi nell’uso distorto di strumenti apprestati dal diritto in funzione della tutela di posizioni subiettive legittime per procurare a sè, o ad altri, vantaggi indebiti ed attribuzioni patrimoniali sostanzialmente non spettanti e prive di giustificazione”.
Sentenza certamente severa, ma palesemente punitiva in ragione della difesa del collega, il quale in tutti e tre i giudizi aveva ribadito la correttezza di un simile comportamento, tanto che il CNF aveva scritto di lui: “ignora e si mantiene ben lontano da quei doveri di lealtà, probità e correttezza cui, invece, deve essere costantemente improntata la condotta di un Avvocato”, in quanto il predetto professionista, nell’intervenuta ammissione della realtà della condotta ascrittagli, ha sempre pervicacemente rifiutato di riconoscere il disvalore etico, prima ancora che giuridico, della condotta medesima, addirittura affermando di essere pronto a reiterare il suo discusso comportamento tutte le volte che gli e ne venisse dato il destro.
Sentenza non recente, ma, come si dice, repetita juvant.
Cassazione civile , sez. un., 25 maggio 2001, n. 222
Fatto
Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trieste, con decisione del 19 giugno 1998, all’esito di un istituito procedimento disciplinare, dichiarò l’Avv. Y. X. responsabile di aver posto in essere un comportamento contrario alla correttezza e alla dignità ed al decoro professionali per l’aver – dopo ottenuta sentenza, in causa civile di risarcimento danni contro l’AUGUSTA ASSICURAZIONI ed altro senza che venisse considerato, nella contumacia dei convenuti, l’acconto di L. 10.000.000 ricevuto in corso di causa, e dopo aver atteso il passaggio in giudicato della sentenza stessa, avvenuto per decorso del termine annuale dal deposito – precettato l’intero importo portato in sentenza senza computare il detto acconto ed aver costretto, infine, la controparte, attraverso richiesta di pignoramento, al pagamento integrale del precettato”: gli irrogò, perciò, la sanzione della sospensione dall’attività professionale per tre mesi.
L’Avv. Y. X. impugnò tempestivamente e ritualmente il provvedimento cennato, ma il Consiglio nazionale forense, con decisione del 18 dicembre 1999 – 17 maggio 2000, rigettò il gravame.
Il Consiglio nazionale forense, dopo aver evidenziato non essere stati contestati dal reclamante nè la sussistenza del fatto materiale in discussione, nè l’intenzionalità del comportamento ascrittogli, motivò la resa pronuncia osservando, testualmente, che “nella sua difesa orale, il X., nel confermare i precorsi atteggiamenti, si è dichiarato sempre pronto ad assumere qualsiasi responsabilità nell’interesse dei clienti ed ha precisato che, qualora gli dovesse capitare un altro caso del genere, adotterebbe identico comportamento, convinto di non potere e-o dovere difendere mai le ragioni della controparte contumace”; considerando, quindi, che “tutte le argomentazioni, difensive del X. lasciano gravemente perplessi (perché) egli non affastella ragioni per approntare una qualsivoglia difesa, ma, ciò che è veramente grave, appare pienamente convinto di quel che dice, e quel che dice denunzia in maniera inequivocabile come egli ignori e si mantenga ben lontano da quei doveri di lealtà, probità e correttezza, cui, invece, deve essere costantemente improntata la condotta di un Avvocato”; chiosando, infine, che “in tale stato di cose, la sanzione, inflitta dal COA di Trieste al X., deve considerarsi estremamente tenue”.
L’Avv. Y. X. ricorre, con disarticolate doglianze, per la cassazione della decisione da ultimo citata, notificatagli il 20 giugno 2000.
Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trieste, cui il ricorso è stato notificato il 7 luglio 2000, non ha svolto attività difensiva nella presente sede.
Il ricorso è stato notificato il 12 luglio 2000 anche al Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte Suprema.
Diritto
L’Avv. Y. X. prospetta di voler impugnare la pronuncia nei termini illustrati resa sulla fattispecie dal Consiglio nazionale forense “ai sensi dell’art. 111 della Costituzione, dell’art. 360 c.p.c. e dell’art. 56 r.d.l. 27.11.1933 n. 1578 per eccesso di potere e violazione dell’art. 66 del r.d. 22.1.1934 n. 37, e, per quanto di ragione, degli artt. 48 e 51 dì questo medesimo r.d., nonché, infine, per quanto ammissibile, per violazione del medesimo art. 111 della Costituzione e art. 360 del c.p.c. per carenza assoluta di motivazione, risolventesi in enunciazioni meramente tautologiche e contraddittorie, per gravi ed insanabili vizi logici tra capo di imputazione e motivi della decisione del Consiglio dell’ordine degli Avvocati di Trieste sottoposta a gravame dinanzi al Consiglio Nazionale Forense”.
Il X., innanzi tutto, sulla premessa che il suo gravame avverso l’altrove ricordato provvedimento del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trieste sarebbe stato disatteso dalla decisione qui impugnata sulla base del solo rilievo che esso deducente, “oltre a non aver affastellato ragioni a propria difesa, appare pienamente convinto di quel che dice”, accampa doversi “annotare che assai difficilmente la convinzione del ricorrente possa coniugarsi alla addebitata malafede, la quale viene caratterizzata proprio da un atteggiamento psicologico di segno diametralmente opposto”, perché “opera in malafede chi se ne rende pienamente conto, e non certamente chi nutre la convinzione di trovarsi dalla parte della ragione”; lamenta, quindi, che il Consiglio nazionale forense avrebbe sanzionato la reiezione del gravame cennato nell’omesso esame delle ragioni addotte per supportarlo, senza “aver indicato il momento consumativo dell’infrazione disciplinare, nè individuato concretamente il comportamento asseritamente scorretto, nè indicato, con motivazione a contrariis, quale sarebbe stato il dovere dell’incolpato”, ed affermando apoditticamente la contrarietà della condotta di costui ai doveri di lealtà, probità e correttezza.
Il ricorrente soggiunge che le denunciate lacune della ratio decidendi della pronuncia contestata non potrebbero, in nessun caso, risultare sanato dal richiamo alla motivazione del confermato provvedimento del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trieste, la motivazione di questo essendo essa stessa, in varia guisa, carente e viziata.
Il X. sostiene, dì poi, in estrema sintesi, che il giudice disciplinare non ha giustificato in nessun modo la resa declaratoria in ordine alla, ritenuta, antidoverosità del suo discusso comportamento, del quale, invece, egli rivendica l’assoluta liceità e la totale non punibilità.
Il ricorso negli esposti sensi articolato si rivela destituito di fondamento, per non dire inconsistente, e, quindi, deve senz’altro essere tenuto per immeritevole di ingresso.
A) – Il consiglio nazionale forense, nella inesistenza di contrasto al riguardo, ed anzi in presenza di espresse ammissioni dell’attuale ricorrente sul punto, con statuizione inequivocabilmente risultante dal testo della decisione impugnata, ha ritenuto, e dichiarato, la realtà del fatto materiale oggetto dell’incolpazione ascritta all’Avv. X., nonché l’intenzionalità del comportamento da costui posto in essere per realizzare detto fatto.
La statuizione considerata non risulta in nessun modo investita dai motivi sviluppati per suffragare il delibato ricorso, e, dì conseguenza, deve intendersi divenuta definitiva ed irretrattabile.
B) – La decisione qui impugnata, dunque, si appalesa basata sul presupposto, come detto non contestato, che l’Avv. X., avendo piena consapevolezza dell’ingiustizia sostanziale della pretesa coltivata, si è reso responsabile di aver intrapreso, e portato al suo fine, un’iniziativa giudiziaria intesa a perseguire il soddisfacimento di ragioni creditorie di un proprio cliente coartando l’obbligato a saldare il debito correlativo anche per una parte che era stata già pagata con un, da lui stesso ricevuto ed accettato, versamento in acconto di L. 10.000,000, all’uopo avvantaggiandosi della circostanza che il debitore, rimasto contumace nel giudizio di cognizione, non aveva in questo eccepito l’eseguito pagamento parziale, e che, essendo intervenuta, ex art. 327 cod. proc. civ., l’improponibilità di ogni impugnazione avverso la sentenza conclusiva di quel giudizio, la cennata solutio era rimasta indeducibile in sede esecutiva.
Nel contesto dato, si rivelano del tutto prive di ragion d’essere le doglianze del ricorrente volte a lamentare che il giudice disciplinare non avrebbe “indicato il momento consumativo dell’infrazione” ascrittagli, “nè individuato concretamente il (suo) comportamento asseritamente scorretto”: i termini fattuali dell’addebito discusso, di vero, risultano definiti con precisione nella pronuncia censurata.
C) – Il consiglio nazionale forense, sotto altro profilo, ha rilevato evidenziarsi negli atti la prova del fatto che l’Avv. X. “ignora e si mantiene ben lontano da quei doveri di lealtà, probità e correttezza cui, invece, deve essere costantemente improntata la condotta di un Avvocato”, in quanto il predetto professionista, nell’intervenuta ammissione della realtà della condotta ascrittagli, ha sempre pervicacemente rifiutato di riconoscere il disvalore etico, prima ancora che giuridico, della condotta medesima, addirittura affermando di essere pronto a reiterare il suo discusso comportamento tutte le volte che gli e ne venisse dato il destro.
Le così formulate enunciazioni valgono ad integrare più che sufficiente motivazione della decisione contestata, nella fin troppo manifesta contrarietà ai doveri di lealtà e probità (art. 98, comma 1, cod. proc. civ.), nonché alla dignità e al decoro professionali, e, in definitiva a quella regola dell’honeste vivere che costituisce il substrato di ogni ordinamento giuridico, di un comportamento, del genere di quello considerato, concretandosi nell’uso distorto di strumenti apprestati dal diritto in funzione della tutela di posizioni subiettive legittime per procurare a sè, o ad altri, vantaggi indebiti ed attribuzioni patrimoniali sostanzialmente non spettanti e prive di giustificazione.
E, in proposito, è appena il caso di puntualizzare che, in contrasto con quanto sostenuto dal ricorrente, l’adempimento del dovere di assistere fedelmente i clienti, imposto agli avvocati dalla deontologia professionale, non può essere utilmente invocato da detti professionisti a giustificazione di comportamenti oggettivamente scorretti ed eticamente riprovevoli.
D) – Da ultimo, è da dire che non sono pertinenti le allegazioni sviluppate nel ricorso per denunciare vizi e carenze motivazionali del provvedimento del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trieste in data 19 giugno 1998, altrove ricordato, posto che nella presente sede è oggetto di sindacato soltanto l’impugnata decisione del Consiglio nazionale forense, recante conferma, ed assorbimento, del provvedimento cennato.
E) – Il ricorso, conclusivamente, siccome sorretto da motivi inaccoglibili deve essere rigettato.
F) – Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trieste, intimato, si è astenuto da ogni attività difensiva nella presente fase del processo, e, perciò, non si deve provvedere su sue spese.
P.Q.M
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili della Corte suprema di cassazione, il 22 febbraio 2001.

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