L’Architetto che sbaglia il progetto non ha diritto al compenso.

Mirco Minardi

Un architetto realizza una serie di progetti poi rivelati tutti irrealizzabili, tanto che non avevano ottenuto la piena approvazione da parte del Comune, in quanto contrastavano con prescrizioni urbanistiche o presupponevano il consenso, invece mancato, del proprietario di un preesistente edificio alla sua demolizione.

La cliente si rifiuta di pagare. L’architetto chiede ed ottiene un decreto ingiuntivo. La cliente l’oppone e chiede la restituzione dell’acconto versato.

Primo e secondo grado vedono vittoriosa la ditta cliente. L’architetto ricorre in Cassazione, ma la corte rigetta il ricorso osservando che già con Cass. s.u. 28 luglio 2005 n. 15781 è stato chiarito che la distinzione tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato” è ininfluente ai fini della valutazione della responsabilità di chi riceve il compito di redigere un progetto di ingegneria o architettura: il mancato conseguimento dello scopo pratico avuto di mira dal cliente è comunque addebitabile al professionista, se è conseguenza di suoi errori commessi nella formazione dell’elaborato, che ne rendano le previsioni inidonee ad essere attuate ed in tal caso nessun compenso è dovuto.

 

 

Cassazione civile, sentenza 3 settembre 2008, n. 22129

 

Svolgimento del processo

La s.r.l. M. Immobiliare propose opposizione al decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti dal Presidente del Tribunale di Cagliari il 26 febbraio 1996, avente per oggetto il pagamento all’architetto C. N. P. della somma di lire 343.887.701, con interessi e accessori, come compenso di prestazioni professionali consistite nella progettazione di un compendio immobiliare. Dedusse che l’elaborato aveva previsto soluzioni impossibili da realizzare, sicché chiese la revoca del provvedimento monitorio e la condanna dell’altra parte alla restituzione dell’acconto di lire 20.400.000 corrispostole, nonché al risarcimento dei danni. La convenuta si costituì a sua volta in giudizio, contestando la fondatezza degli assunti dell’attrice.
All’esito dell’istruzione della causa, con sentenza del 22 ottobre 2000 il Tribunale revocò il decreto ingiuntivo, condannò C. N. P. a restituire lire 20.000.000, oltre agli interessi, alla s.r.l. M. Immobiliare, respinse la domanda di risarcimento di danni.
Impugnata da C. N. P., la decisione è stata confermata dalla Corte d’appello di Cagliari, che con sentenza del 21 gennaio 2003 ha rigettato il gravarne.
C. N. P. ha proposto ricorso per cassazione, in base a quattro motivi. La s.r.l. M. Immobiliare si è costituita con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso C. N. P. lamenta che la sentenza impugnata si basa sull’erronea qualificazione come “di risultato”, anziché “di mezzi”, delle obbligazioni che da lei erano state assunte con il contratto di prestazione d’opera intellettuale intercorso con la s.r.l. M. Immobiliare.
La censura va disattesa.
Con Cass. s.u. 28 luglio 2005 n. 15781 è stato chiarito che la distinzione tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato” è ininfluente ai fini della valutazione della responsabilità di chi riceve il compito di redigere un progetto di ingegneria o architettura: il mancato conseguimento dello scopo pratico avuto di mira dal cliente è comunque addebitabile al professionista, se è conseguenza di suoi errori commessi nella formazione dell’elaborato, che ne rendano le previsioni inidonee ad essere attuate. Il che appunto la Corte d’appello ha ritenuto essersi verificato nel caso in esame, in cui i vari progetti compilati da C. N. P. si erano rivelati tutti irrealizzabili – e non avevano infatti ottenuto la piena approvazione da parte del Comune – in quanto contrastavano con prescrizioni urbanistiche o presupponevano il consenso, invece mancato, del proprietario di un preesistente edificio alla sua demolizione. Tanto essendosi accertato in fatto, le conseguenze che con la sentenza impugnata se ne sono tratte in diritto risultano senz’altro corrette, alla luce dei principi enunciati nella sentenza suddetta.
Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente si duole del mancato rilievo, da parte della Corte d’appello, della decadenza della s.r.l. M. Immobiliare dalla garanzia per i pretesi vizi del progetto, non denunciati né nel termine di legge di 8 giorni dalla scoperta, né in quello convenzionale di 15 giorni dalla consegna dell’elaborato.
Neppure questa censura può essere accolta.
Relativamente al primo dei termini suddetti, va osservato che l’appellante, nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, non aveva sollevato la relativa eccezione. Questa comunque non sarebbe stata meritevole di accoglimento, poiché con la sentenza sopra citata si è escluso che l’art. 2226 c.c. sia applicabile ai contratti di prestazione d’opera intellettuale.
Quanto all’altro termine, il giudice a quo ha ritenuto che la previsione contrattuale relativa alla presunzione di approvazione del progetto da parte della committente, in difetto di contestazioni entro 15 giorni dalla consegna, poteva “solo significare condivisione dell’operato del professionista sul presupposto della realizzabilità del progetto stesso”. Né la ricorrente ha formulato rilievi di sorta, in ordine a questa interpretazione della clausola.
Con il terzo motivo di ricorso C. N. P. deduce che il compenso per l’attività da lei svolta, a norma dell’art. 2237 c.c., le era comunque dovuto, in seguito al recesso della s.r.l. M. Immobiliare.
La tesi è infondata.
La disposizione invocata dalla ricorrente riguarda l’ipotesi che l’opera prestata sia esente da vizi, poiché nel caso contrario il committente può opporre al professionista l’eccezione di inadempimento e ottenere altresì la restituzione di quanto già corrisposto (v., tra le più recenti, Cass. 2 febbraio 2007 n. 2257).
Con il quarto motivo di ricorso C. N. P. sostiene che le competeva, oltre all’onorario, anche la maggiorazione per l’anticipata revoca dell’incarico e gli interessi commisurati al tasso ufficiale di sconto, come stabilito dalla tariffa professionale.
L’assunto è inconferente, poiché estraneo al decisum della sentenza impugnata, con la quale si è escluso l’an del diritto vantato dall’appellante, sicché non dovevano né potevano essere affrontate questioni attinenti al quantum.
Il ricorso va pertanto rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione sostenute dalla resistente, che si liquidano in 100,00 euro, oltre a 5.000,00 euro per onorari, con gli accessori di legge.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare alla resistente le spese del giudizio di cassazione, liquidate in 100,00 euro, oltre a 5.000,00 euro per onorari, con gli accessori di legge.


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Mirco Minardi

Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.




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