Trascrizione della relazione tenuta dall’Avv. Mirco Minardi a Jesi il 25 novembre 2016
I PREMESSA
Nell’intervento di oggi cercherò di dare risposta a queste cinque domande:
- Perché è così difficile scrivere un ricorso per cassazione?
- Fino a che punto la Cassazione può spingersi nel sindacare la questione di fatto decisa dal giudice di merito?
- A seguito della modifica dell’art. 360 n. 5 che cosa è cambiato?
- È davvero sparito il vizio per insufficienza della motivazione?
- Come si possono censurare oggi gli errori di metodo del giudice di merito nella valutazione delle prove?
- Il dovere del giudice di “ragionare bene”, allorquando valuta le prove, deriva dall’art. 132, n. 4 o dall’art. 116 c.p.c. e dunque il ragionamento illogico o poggiante su massime di esperienza inesistenti, determina la nullità della sentenza (360 n. 4) oppure un vizio di legge (360 n. 3)?
Il ricorso per Cassazione è allo stesso tempo l’atto più complesso e più stimolante che un avvocato civilista è chiamato a redigere.
Perché è così complesso? Per diverse ragioni che indico qui senza pretesa di esaustività e senza un criterio di tipo gerarchico.
- In primo luogo perché esiste un vero e proprio diritto processuale giurisprudenziale a latere, creato dalla stessa Cassazione, la quale si occupa non solo di nomofilachia, bensì di vera e propria nomopoiesi.
- In secondo luogo, perché il giudizio di cassazione è largamente controintuitivo. Il che significa che l’avvocato che si accinge a redigere un ricorso per Cassazione deve dimenticarsi del tutto come funziona il processo, approcciandosi vergine. In altre parole, deve assumere l’atteggiamento del praticante appena arrivato in studio, di chi cioè non sa quasi nulla. Uno degli errori più frequenti del neo avvocato cassazionista, infatti, è quello di ragionare con gli schemi che si usano per i giudizi di merito.
Facciamo un esempio. Chi potrebbe pensare che il motivo di ricorso potrebbe essere dichiarato inammissibile qualora non si riproduca nel fascicoletto della cassazione un documento o un atto richiamato nel ricorso, nonostante che questo si trovi all’interno del fascicolo di parte ritualmente depositato?
In buona sostanza, ciò che è normale nel giudizio di merito, non è detto che sia normale nel giudizio di Cassazione.
- In terzo luogo perché la Suprema Corte è un giudice molto severo, un giudice con una doppia faccia. Più flessibile quando si parla di regole del processo che si svolge davanti ai giudici di merito, quasi sempre draconiano quando si parla di regole avanti a sé.
Qual è la ragione di tutto ciò?
Certamente la ragione non è di tipo normativo o dommatico. La ragione è di carattere squisitamente pratico, organizzativo. La Corte lamenta da decenni il numero sproporzionato di ricorsi.
Pensiamo al cosiddetto “principio” di autosufficienza che principio non è, essendo in realtà una “prerogativa”. Esso nasce da esigenze squisitamente pratico-organizzative:
- I fascicoli d’ufficio spesso e volentieri non arrivano nel Palazzaccio
- I fascicoli sono disastrati
- I verbali hanno grafie incomprensibili
- La loro dimensione dopo due gradi di giudizio è talvolta esagerata.
Quindi se non è indicato dove, quando, da chi, con che numerazione, il documento è stato prodotto, il consigliere è costretto a dedicare molte ore del suo prezioso tempo alla ricerca delle informazioni ritenute dal ricorrente rilevanti.
Questa esigenza pratica è stata trasformata dalla Suprema Corte in principio che, a distanza di trent’anni, continua incessantemente a mietere vittime. A dimostrazione del fatto che quando un principio o una norma è ingiusta, l’adesione spontanea è sempre difficile.
- Da ultimo segnalo la difficoltà che si ha molto spesso nel cogliere la censura corretta. Non è intuitivo distinguere, ad esempio, tra falsa applicazione di legge e omessa o insufficiente motivazione. Il confine è molto labile e discende non da considerazioni normative ma da opzioni teoriche. E ciò è dimostrato dal fatto che autorevolissima dottrina considera falsa applicazione di legge ipotesi che la Cassazione considera vizio motivazionale.
Oggi, il problema è solo parzialmente superato dopo l’intervento delle S.U. nel 2013, le quali hanno dichiarato che non è sufficiente il semplice errore di inquadramento tra i vari numeri dell’art. 360 c.p.c. qualora il motivo consenta comunque di comprendere il tipo di vizio e la relativa conclusione sia coerente.
Tuttavia, ciò non è bastata a salvare ricorsi in cui si censurava come omessa motivazione o come violazione di legge l’omessa pronuncia su una domanda o su una eccezione.
Vi è peraltro da dire che molti problemi che appaiono inestricabili possono essere facilmente risolti solo che il ricorrente adotti una semplice regola di condotta che è questa:
- Quando non è chiaro se una censura ricada in un motivo o in un altro è bene articolare entrambi e procedere in via gradata.
Ma entriamo nel merito della questione.
II
IL GIUDIZIO DI FATTO E IL GIUDIZIO DIRITTO
Ogni giudizio civile si basa su questo schema elementare.
Chi agisce afferma:
- che è accaduto un fatto ed assume (espressamente o implicitamente)
- che l’ordinamento giuridico contiene una norma che in presenza di quel fatto riconosce diritti, facoltà, poteri (questa affermazione può essere anche implicita, in base al principio jura novit curia)
Da qui la richiesta rivolta al giudice di emettere di un certo provvedimento (di condanna, di accertamento, costitutivo, cautelare, ecc.).
È accaduto un fatto:
- il venditore mi ha consegnato una cosa diversa
- il conduttore non mi ha restituito l’immobile alla scadenza del contratto;
- la convivenza è divenuta intollerabile
e così via.
Il giudice è chiamato a pronunciarsi sul quel fatto e dovrà dire se esso è realmente accaduto e se riceve tutela dall’ordinamento.
Spesso per arrivare alla quella pronuncia dovrà affrontare e risolvere tantissime questioni di rito e di merito:
- di giurisdizione e di competenza
- interpretazione e giudizio sulla validità degli atti e sulla loro notifica
- questioni sulla ritualità delle richieste
- decisioni sulla ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova
per arrivare al momento più delicato, cioè la decisione, che si compone di due momenti:
- l’esatta ricostruzione del fatto
- la corretta applicazione della norma di diritto
Non esiste, dunque, un solo giudizio civile in cui possa mancare la compresenza della questione di fatto e la questione di diritto. Quel che può mancare è solo la necessità di assumere mezzi di prova per fornire la dimostrazione della questione di fatto, per la semplice ragione che il fatto non è in discussione.
Prima di passare al prossimo argomento vi faccio una domanda; se pensate alle vostre delusioni professionali, che cosa vi ha fatto più arrabbiare, il modo in cui il giudice di primo grado ha risolto la questione di fatto, oppure il modo in cui il giudice di primo grado ha risolto la questione di diritto?
Di solito sbagliate a selezionare o a interpretare la norma, oppure il giudice vi dà torto perché all’esito del giudizio ritiene che la ricostruzione dei fatti è diversa da quella che avete narrato nell’atto di citazione?
Conosciamo tutti la risposta: le delusioni nascono dal modo in cui il giudice ricostruisce la questione di fatto. E perché?
Essenzialmente per quattro ragioni:
- I magistrati sono preparati al 95% per risolvere questioni di diritto e al 5% per risolvere questioni di fatto
- Nell’interpretare la norma, salvo che per questioni nuove, il magistrato trova facilmente la strada già battuta; la questione di fatto è sempre diversa
- Per risolvere la questione di fatto il giudice di merito deve far uso di logica e massime di esperienze di senso comune che evidentemente non si trovano sui libri di diritto
- La risoluzione della questione di fatto presenta momenti di maggiore discrezionalità rispetto alla questione di diritto
Chiusa parentesi.
Questo binomio inscindibile tra fatto e diritto emerge in tutte e quattro le norme del codice di procedura civile che delineano il contenuto della motivazione:
132, n. 4 c.p.c. | Parla di concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione |
281 sexies c.p.c. | Parla di concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione |
429 c.p.c. | Parla di esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione |
118 disp. att. c.p.c. | Parla di succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi |
Tradizionalmente si insegna che la Corte di Cassazione è giudice della questione di diritto, mentre non è giudice della questione di fatto, se non indirettamente attraverso il controllo della motivazione. Ma anche in questo secondo caso la Cassazione (almeno in teoria) non è chiamata ad esprimere il suo dissenso rispetto al come il giudice di merito ha risolto la questione di fatto, ma a sindacare il come ha giustificato la soluzione della questione di fatto.
La Corte non dovrebbe dire:
- «il fatto andava ricostruito in quest’altra maniera»
La Corte dovrebbe dire:
- «caro giudice di merito, c’è qualcosa che non va nel ragionamento che hai fatto per risolvere la questione di fatto. Ti sei contraddetto, oppure non hai valutato questo fatto, il tuo ragionamento non è logicamente corretto, e così via».
Con la conseguenza che, sempre almeno in teoria, la Cassazione potrebbe anche non condividere la soluzione data, ma non potrebbe cassare la sentenza se quella motivazione è motivata in modo congruo e logico.
Ora, se le cose fossero così semplici e lineari, probabilmente non ci sarebbe bisogno nemmeno dell’incontro di oggi. Ma non è così.
Perché le cose non sono così semplici? Per diverse ragioni (provo ad indicarne alcune):
- Non è sempre così semplice distinguere il giudizio di fatto dal giudizio di diritto, perché fatto e diritto si rincorrono dialetticamente continuamente e perché fatto e diritto non sono entità reali ma modi di organizzazione del pensiero.
- esistono norme c.d. elastiche (concetti giuridici indeterminati, clausole generali, ecc.) in cui non è descritta la fattispecie. Qui il giudice di merito è costretto, per così dire, a farsi legislatore, a descrivere la fattispecie, a dare un contenuto a quella norma al fine di risolvere il caso concreto. Pensiamo alla buona fede, alla diligenza del buon padre di famiglia, alla giusta causa di licenziamento, alla non scarsa importanza dell’inadempimento, e così via. Quando il giudice afferma che un certo comportamento è contrario alla buona fede, sta compiendo un giudizio di diritto o un giudizio di fatto? Dire che un certo comportamento integra una giusta causa di recesso, è compiere un giudizio di diritto o un giudizio di fatto?
- Quando si censura il modo in cui il giudice ha utilizzato i fatti noti per arrivare a formulare una presunzione ai sensi dell’art. 2729 c.c., si sta affermando essere avvenuta una violazione di legge, o si chiede di sindacare il giudizio di fatto? Può la Corte sindacare il modo in cui il giudice ha valutato gli indizi gravi, precisi e concordanti? Può la Corte sindacare il fatto che siano stati preferiti alcuni elementi indiziari rispetto ad altri?
- Altra difficoltà riguarda la distinzione tra falsa applicazione di legge e vizio motivazionale. È una distinzione sulla quale inciampano ogni anno migliaia di colleghi. Ma occorre anche dire che la nozione di falsa applicazione della legge non è condivisa da tutta la dottrina, dunque non è intuitiva.
- Non è intuitiva la differenza tra omessa pronuncia ed omessa motivazione.
- Non è per nulla chiara la differenza tra motivazione insufficiente e motivazione apparente.
- Analizzando la giurisprudenza sulla vecchia versione del n. 5 non è facile cogliere l’esatta differenza tra omessa ed insufficiente motivazione, sicché quando oggi la Corte afferma che con la riforma del 2012 è sparito il vizio di insufficienza della motivazione non è che ci aiuta molto, perché non è mai stata netta la linea di confine tra omissione e insufficienza;
- Non è chiarissima la differenza tra travisamento del fatto e travisamento della prova
- Esistono casi in cui il giudice, per risolvere la questione di fatto, è costretto ad usare massime di esperienza. Queste possono essere di primo grado e di secondo grado:
- Di primo grado, quando la m.e. serve per accertare l’esistenza o l’inesistenza del fatto (ad es. l’uso delle cinture di sicurezza riduce l’entità dei danni; un immobile gravato da ipoteca è assai difficilmente commerciabile; un immobile venduto all’asta si aggiudica ad un prezzo inferiore al valore di mercato, e così via; una persona di cinquant’anni si ricolloca nel mondo del lavoro con maggiore difficoltà rispetto ad un giovane).
- Di secondo grado, quando la m.e. viene impiegata per valutare l’attendibilità di una prova (i parenti sono meno attendibili degli estranei; il testimone sincero non anticipa risposte a domande che non gli sono state ancora rivolte; le risultanze tecniche sono più affidabili delle prove testimoniali; ecc.).
III
IL SINDACATO DELLA CASSAZIONE SULLA MOTIVAZIONE
«Se dovessimo trovare una costante al controllo della motivazione da parte della Corte di cassazione, la riscontreremmo nel fatto che, in sostanza, la Corte fa quello che vuole, decidendo lei stessa l’ampiezza e al profondità del controllo sulla motivazione dei provvedimenti impugnati» pag. 402, vol. 2, III edizione.
Il Prof. Luiso aggiunge che nessuna norma ha finora mai impedito alla Corte di spingersi ben oltre quelli che sarebbero i propri limiti. Basti pensare che il vizio di motivazione nasce sotto il codice del 1865 che non ha mai avuto una norma come quella prevista dall’art. 360 n. 5, in tutte le quattro formulazioni. Nonostante ciò il vizio di motivazione entrò dalla finestra attraverso il vizio di nullità della sentenza per omissione di motivi in fatto e in diritto. “Omissione di motivi” nel corso degli anni significò non solo “mancanza” ma anche “carenza”, “contraddittorietà”, “illogicità”.
Sempre Luiso ci ricorda che nonostante la modifica avvenuta nel ’42, la Cassazione continuò come se nulla fosse cambiato. E va ricordato che quella modifica fu fatta proprio per arginare il fenomeno del controllo della motivazione in Cassazione, tanto che si era pensato di non prevedere del tutto alcun tipo di censura.
Per cui è la Corte che decide l’ampiezza del suo sindacato sulla motivazione, in base a considerazioni di politica giudiziaria. È chiaro che in quegli anni, dove i processi giungevano in Cassazione dopo due o tre anni dall’inizio del giudizio di primo grado, non c’era l’affanno che c’è oggi, quindi è improbabile che nel futuro la Corte si prenderà degli spazi.
III.1 Cenni storici
Abbiamo già detto che il codice del 1865 non conteneva una norma come quella attuale, né come quella partorita dalla riforma del ’50 e ciò nonostante il vizio logico è nato proprio durante la sua vigenza.
Proprio per arrestare questo “abuso”, al momento di riformare il codice del 1865 si era pensato di eliminare del tutto l’esame della motivazione della sentenza, ma poi si preferì inserire “l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
La riforma del 1950 introdusse il vizio di “omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti e rilevabile d’ufficio”.
È noto che nel 2006 il legislatore è ritornato al “fatto” sostituendolo al posto del “punto”.
Per ben 62 anni, il n. 5 dell’art. 360 ha consentito il controllo della motivazione del giudice di merito avanti alla Cassazione, cioè del modo in cui il giudice di merito aveva risolto la questione di fatto, sotto il profilo della adeguatezza, della completezza, della logicità della motivazione.
La Corte cioè non si sostituiva al giudice nell’accertamento del fatto, ma controllava il modo in cui il giudice aveva giustificato la risoluzione della questione di fatto.
In teoria il giudice era libero di scegliere le fonti del proprio convincimento, senza che la Corte potesse sostituirsi in questo.
Del pari affidato al giudice era il giudizio sull’attendibilità della prova, sulla sua concludenza.
III.4 (segue) Gli elementi del “vecchio” 360 n. 5
Prima di passare al nuovo numero 5 dell’art. 360 dobbiamo necessariamente esaminare il vecchio, perché solo comprendendo il vecchio possiamo capire il nuovo.
- Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione
- Fatto controverso
- Decisività per il giudizio
Che cosa ha considerato come vizio motivazionale la corte di Cassazione nel corso del tempo?
- La mancata pronuncia su una richiesta di prova che appariva decisiva
- La mancata nomina di un CTU senza adeguata motivazione, oppure nei casi in cui la consulenza è l’unico mezzo di prova del quale le parti si possono servire per provare un fatto
- L’immotivata presa di distanze dalle conclusioni del CTU
- La mancata richiesta di chiarimenti al CTU in caso di osservazioni circostanziate e puntuali delle parti
- In caso di doppia CTU l’adesione acritica ad una di esse quando le conclusioni dei consulenti sono diverse
- L’immotivato o insufficiente ordine di esibizione se volto ad ottenere una prova decisiva;
- La mancata o insufficiente valutazione di un documento decisivo
- L’irragionevole prevalenza data ad una prova rispetto ad un’altra
- L’interpretazione illogica irragionevole di un contratto, di un testamento
- La valutazione atomistica degli indizi nel ragionamento presuntivo
- In taluni casi la pretermissione di elementi indiziari fondamentali
- Uso di massime di esperienza inesistenti, irragionevoli
- La motivazione contenente affermazioni inconciliabili
- Il recepimento della motivazione del giudice di primo grado sic et simpliciter
Non è facile stabilire esattamente quando ci troviamo di fronte ad una omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione. Luiso le ha definite “formule vuote”.
Ciò è dimostrato da almeno due considerazioni:
- La prima è che nemmeno la dottrina dà la stessa definizione di ciascun vizio;
- La seconda è che il panorama della giurisprudenza di legittimità è assolutamente variegato e non è possibile ricavare principi solidi.
Non solo. Spesso la Cassazione usa in modo promiscuo l’omessa e l’insufficienza motivazione.
Tuttavia oggi questa distinzione sembra divenuta fondamentale, in quanto, come tra poco vedremo, il vizio di insufficienza non sarebbe più denunciabile in cassazione.
Diciamo che la motivazione è omessa quando su un elemento di fatto della fattispecie costitutiva, estintiva, impeditiva il giudice non si è pronunciato.
Ad esempio il giudice afferma:
“L’eccezione di interruzione della prescrizione è infondata, non risultando agli atti alcun valido atto interruttivo”.
La censura con cui si denuncia la mancata considerazione di una lettera raccomandata agli atti, può essere vista come omissione di motivazione.
Passiamo all’insufficienza.
Immaginiamo questa diversa motivazione:
“L’eccezione di interruzione della prescrizione è infondata, non risultando alcun valido atto interruttivo, non potendosi considerare tale la missiva depositata dall’attore.
Qui potremmo essere di fronte ad una insufficienza della motivazione (ma si potrebbe anche affermare che ci troviamo di fronte ad una motivazione apparente e dunque rientrante nel n. 4 dell’art. 360).
La distinzione tra omissione e insufficienza può stare in ciò: nella motivazione omessa, di per sé il ragionamento del giudice non è viziato se non rapportato ad una omissione che evidentemente non risulta dalla sentenza, ma che viene evidenziata dal ricorrente.
Ritorniamo all’esempio della eccezione di interruzione della prescrizione:
“L’eccezione di interruzione della prescrizione è infondata, non risultando agli atti alcun valido atto interruttivo”.
Di per sé questa motivazione non ha nulla che non va e la Corte non si accorgerebbe del suo vizio se il ricorrente non facesse presente che agli atti c’era una raccomandata ritualmente spedita e ricevuta.
Al contrario, il vizio di insufficiente motivazione, se inteso come ragionamento deficitario sotto il profilo logico, risulta direttamente dal testo della sentenza, senza necessità di raffrontarlo alle prove.
Ritorniamo al nostro esempio:
“L’eccezione di interruzione della prescrizione è infondata, non risultando agli atti alcun valido atto interruttivo, non potendosi considerare tale la missiva depositata dall’attore.
Qui, leggendo la sentenza, nessuno può comprendere per quale ragione quella missiva non può considerarsi atto interruttivo della prescrizione.
La contraddittorietà
La contraddittorietà è più semplice: implica la coesistenza di affermazioni tra loro inconciliabili. Ora supponiamo questa motivazione:
«Il diritto ad ottenere il risarcimento del danno provocato da fatto illecito si prescrive in cinque anni. Il fatto de quo è accaduto il 2/4/2006. A parte il riconoscimento fatto dal debitore in data 3/7/2008, nessun atto interruttivo è avvenuto sino al 4/5/2012. Pertanto il diritto deve ritenersi prescritto».
Si tratta evidentemente di una motivazione contraddittoria, in quanto, da un lato, il giudice afferma l’avvenuto riconoscimento del diritto, dall’altro implicitamente nega allo stesso effetto interruttivo della prescrizione.
I problemi relativi alla deduzione del vizio
Il problema della distinzione tra i tre casi del n. 5 era poi reso complicato da quelle pronunce, anche recenti, che sanzionavano con l’inammissibilità la censura con la quale allo stesso tempo si denunciava sia l’omessa che l’insufficiente/contraddittoria motivazione, in quanto, si diceva o la motivazione non c’è, oppure c’è ma è insufficiente o contraddittoria, non potendo allo stesso tempo non esserci e esserci in maniera insufficiente.
Capite dunque come il 360 n. 5 poteva trasformarsi in una trappola.
III.6 Il nuovo 360 n. 5 nella giurisprudenza delle sezioni unite e della successiva giurisprudenza delle sezioni semplici
Nel 2012 arriviamo alla quarta versione del n. 5: “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” praticamente identico “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” alla formula del codice del ’42.
La dottrina ha tempestivamente suggerito molteplici interpretazioni fino a quando nel 2014 sono intervenute le Sezioni Unite con due importanti sentenze gemelle (8053-8054).
La Corte anzitutto afferma che il nuovo 360 n. 5 è nella sostanza identico a quello delle origini, essendo irrilevante l’uso della preposizione “circa” al posto della proposizione “di”.
La Corte osserva:
- che è sparito il riferimento alla motivazione (è stato giustamente osservato (Lombardo 164) che questa sparizione ha solo effetto simbolico perché è solo dalla motivazione che si possono verificare i vizi della decisione);
- che non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà;
- che la ratio è quella di evitare l’abuso dei ricorsi basati sul vizio di motivazione non giustificati da precetti costituzionali;
- la volontà del legislatore e lo scopo della legge è quello di ridurre al minimo costituzionale il sindacato sulla motivazione in sede di legittimità;
- Ritorna così pienamente attuale la giurisprudenza delle Sezioni Unite sul vizio di motivazione ex art. 111 Cost., come formatasi anteriormente alla riforma del D.Lgs. n. 40 del 2006: il vizio si converte in violazione di legge nei soli casi di omissione di motivazione, motivazione apparente, manifesta e irriducibile contraddittorietà, motivazione perplessa o incomprensibile, sempre che il vizio fosse testuale.
- Nel 1992 le SU avevano affermato che l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità ex art. 111 Cost. quale violazione di legge costituzionalmente rilevante atteneva solo all’esistenza della motivazione in sè, prescindente dal confronto con le risultanze processuali, e si esauriva nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.
- Le Sezioni Unite evidenziavano, altresì, che “il vizio logico della motivazione, la lacuna o l’aporia che si assumono inficiarla sino al punto di renderne apparente il supporto argomentativo, devono essere desumibili dallo stesso tessuto argomentativo attraverso cui essa si sviluppa, e devono comunque essere attinenti ad una quaestio facti (dato che in ordine alla quaestio juris non è nemmeno configurabile un vizio di motivazione).
- In coerenza con la natura di tale controllo, da svolgere tendenzialmente ab intrinseco, il vizio afferente alla motivazione, sotto i profili della inesistenza, della manifesta e irriducibile contraddittorietà o della mera apparenza, deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, sì da comportare la nullità di esso;
- mentre al compito assegnato alla Corte di Cassazione dalla Costituzione resta estranea una verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones facti, la quale implichi un raffronto tra le ragioni del decidere adottate ed espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito“.
- Dette conclusioni valgono anche oggi: il vizio di motivazione rileva nella misura in cui si converte in violazione di legge.
- Detta conversione avviene solo quando il vizio sia così radicale da comportare una nullità ex art. 132, n. 4 per mancanza di motivazione;
- La mancanza di motivazione si configura quando la motivazione “manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero… essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum” (Cass. n. 20112 del 2009).
- Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata.
- Il controllo previsto dall’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5), concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico;
- Il fatto storico può essere principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale);
- Il fatto deve avere costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia)
- L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.
- La parte ricorrente dovrà, quindi, indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), –
- il fatto storico, il cui esame sia stato omesso
- il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza
- il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti
- la decisività del fatto stesso.
III.7 Che cosa esce da questo quadro
- Il vizio di motivazione non è scomparso ma ha mutato fisionomia; in parte si è spostato nel numero 4, in parte è rimasto nel n. 5 anche se su questo non tutta la dottrina è concorde. Alcuni ritengono che il nuovo n. 5, specie alla luce dell’intervento delle S.U., non può proprio considerarsi vizio di motivazione.
- Quando la motivazione è apparente, irriducibilmente contraddittoria, perplessa, incomprensibile, al momento attuale siamo in presenza di nullità della sentenza ex art. 360, n. 4 c.p.c. Tuttavia, è sempre consigliabile in via subordinata prospettare il vizio di legge.
- Per sindacare l’apparenza, la contraddittorietà, la perplessità, l’incomprensibilità non deve essere necessario l’esame di atti/documenti diversi dalla sentenza (c.d. nullità testuale).
- Il n. 5 dell’art. 360 concerne l’omessa valutazione di un fatto.
- Questo fatto può essere tanto principale, quanto secondario. Deve essere stato oggetto di discussione e deve essere decisivo. Può risultare sia dal testo della sentenza che da altri atti.
- Di per sé l’omessa valutazione di una prova non costituisce omessa valutazione di un fatto, a meno che detta prova abbia una efficacia assolutamente dirimente, tale cioè da ribaltare la decisione.
- Quando si denuncia l’omessa valutazione del fatto occorre indicare bene di che fatto si sta parlando, come e quando è stato oggetto di discussione, da dove risulta, la sua decisività.
- L’eliminazione del riferimento alla motivazione nell’art. 360 n. 5 potrebbe assumere un significato importante e cioè che il controllo della Cassazione non è sulla motivazione in sé, ma sulla motivazione quale mezzo per verificare la sussistenza di un errore di diritto. Questo potrebbe incidere sulla tecnica redazionale del ricorso perché l’irragionevolezza della motivazione in tanto rileva, in quanto ha efficacia causale sulla applicazione della norma.
III.8 L’insufficienza della motivazione: a volte ritornano
Dunque la Corte sembra ormai persuasa del fatto che è sparito il vizio di insufficienza della motivazione.
Tuttavia, ho già detto che l’affermazione si scontra con l’estrema incertezza che caratterizzava la definizione di “insufficienza” e la sua distinzione rispetto alla “omissione”.
Ad esempio, la S.C. ha sovente affermato che è viziata per insufficiente motivazione la sentenza con la quale il giudice abbia acriticamente aderito alle conclusioni del CTU, nonostante la presenza di osservazioni critiche, circostanziate, puntuali del CTP.
Per non incorrere nel vizio di insufficiente motivazione, il giudice che si discosta dal parere espresso dal c.t.u. su punto decisivo della controversia deve motivare il suo dissenso valutando tutti gli elementi concreti sottoposti al suo esame.
Cassazione civile, sez. III, 06/04/1998, n. 3551 Vedi sentenza
Ebbene, esattamente 18 giorni fa è stata depositata una sentenza che ha cassato ai sensi del nuovo n. 5 la decisione del Tribunale che termina così: In conclusione, alla luce di tali considerazioni, deve ritenersi che il vizio denunciato, in aderenza al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, secondo il paradigma imposto dalla nuova versione di tale norma, vigente ratione temporis, sia sussistente in ragione della mancanza di un motivato dissenso dalle conclusioni dell’ausiliare e che il vizio indicato assuma il carattere di decisività, potendo fondatamente ritenersi che in sua assenza altro sarebbe stato l’esito del giudizio (Cass. 22525/2016).
III.9 La violazione dell’art. 116 c.p.c. sul prudente apprezzamento
Per giungere all’accertamento circa l’esistenza o l’inesistenza di un fatto, talvolta il giudice può ricorrere alle prove legali la cui valutazione è preordinata dal legislatore (atto pubblico, confessione, giuramento).
Talvolta può servirsi dei fatti notori e dei fatti non contestati o contestati genericamente.
Il momento più problematico è quello relativo alle prove libere.
L’art. 116 c.p.c. codifica il principio della libera valutazione delle prove non legali. Solo al giudice di merito spetta il compito di valutare le prove libere secondo, però, prudente apprezzamento.
Il riferimento al “prudente apprezzamento” implica anzitutto che questa libertà del giudice non è assoluta, in quanto gli si chiede di essere, appunto, prudente. Il giudice si muove all’interno di un recinto.
D’altra parte, se ci pensate bene, laddove fosse consentito al giudice di utilizzare l’intima convinzione, la pura soggettività, tutto il complesso sistema di diritti e garanzie rischierebbe di crollare miseramente. Difatti, in tanto vi può essere una decisione giusta, in quanto il fatto sia ricostruito esattamente. Se il fatto non è costruito esattamente la decisione non può essere mai giusta.
Al contrario se il fatto è costruito esattamente, la decisione può essere giusta o ingiusta a seconda che il giudice applichi correttamente la norma.
Supponiamo che un giudice di merito scriva: “È vero che i testimoni sentiti sul punto hanno dato versioni diverse, ma è pur vero che quelli indicati dall’attore sono cittadini africani e dunque meno attendibili dei testimoni escussi su richiesta del convenuto che sono di origine italiana”.
Oppure: il testimone Sempronio è più attendibile di Mevio essendo del segno del Sagittario, notoriamente più sincero di quelli dello Scorpione.
Fino a ieri, di fronte ad una motivazione del genere avremmo utilizzato il vizio di insufficienza della motivazione. Ma oggi?
Possiamo dire che una motivazione del genere sia illogica? La logica, si badi bene, non ha nulla a che vedere con la verità.
Si tratta di violazione diretta di una norma giuridica? No.
Si tratta di motivazione è apparente? In realtà il giudice ha indicato per quale ragione ha espresso la sua valutazione; sono motivi irragionevoli, ma non apparenti.
Si tratta di motivazione contraddittoria? Assolutamente no.
Quindi è possibile censurare in Cassazione questa motivazione?
Prima di rispondere, vediamo in cosa consiste il prudente apprezzamento.
Quando possiamo affermare che il giudice si è attenuto al prudente apprezzamento?
- Quando ha considerato tutti gli elementi di prova
- Quando ha valutato tutti gli elementi secondo ragionevolezza, sulla base di criteri obiettivi e verificabili
- Quando all’esito di questa valutazione ha formulato un ragionamento corretto sul piano della logica.
- Quando ha considerato tutti gli elementi di prova
Apparentemente il primo elemento non è condiviso dalla giurisprudenza, la quale afferma che il giudice può formarsi il convincimento sulla base di alcuni elementi di prova, senza necessità di prendere posizione su tutto il materiale raccolto, potendosi implicitamente ritenersi rigettato il materiale non valutato. In base a questo ragionamento, potremmo dire che se un parente dell’attore afferma che il fatto si è verificato in un certo modo, mentre tre testimoni indifferenti hanno affermato che il fatto si è verificato in altro modo, il giudice potrebbe liberamente decidere di dar credito al testimone dell’attore. È questo un prudente apprezzamento? Io non credo.
Tanto ciò è vero che non di rado la S.C. ha cassato sentenze di merito che non avevano ammesso o correttamente valutato una prova ritenuta decisiva. Allora delle due l’una: o il giudice di merito è libero di formarsi il proprio convincimento senza essere tenuto ad esaminare tutte le prove, oppure non lo è.
- Quando ha valutato tutti gli elementi secondo ragionevolezza, in base a criteri obiettivi e verificabili
La valutazione delle prove libere avviene in diversi modi:
- Applicando correttamente le massime di esperienza per stabilire l’attendibilità di un elemento probatorio;
- Interpretando, cioè dando un significato corretto, secondo il senso comune, alle dichiarazioni orali e scritte, e alle percezioni;
- Valutando correttamente le circostanze di fatto (ad esempio la gravità dei vizi, l’offensivista delle espressioni, la buona fede del comportamento);
- Utilizzando correttamente il ragionamento inferenziale per ricavare fatti ignoti da fatti noti;
- Applicando correttamente le massime di esperienza di senso comune, tecniche e scientifiche per inferire l’esistenza di un fatto ignoto da un fatto noto.
- Quando all’esito di questa valutazione, ha formulato un ragionamento corretto sul piano della logica
Il che significa che il giudice è stato in grado di formulare un ragionamento di senso compiuto per giustificare il modo in cui ha risolto la questione di fatto.
Va evidenziato che questi criteri non sono norme giuridiche, bensì norme di metodo richiamate dall’art. 116 c.p.c.
La loro violazione, pertanto, non costituisce violazione diretta di una norma giuridica, bensì violazione indiretta, o riflessa che dir si voglia.
Il che significa che la famosa distinzione Calamandreiana tra errores in procedendo e errores in iudicando, non è esaustiva, in quanto non ricomprende gli errori di metodo, quelli che Bove ha chiamato “difetti di base legale”.
Semmai il problema è stabilire come fare a riconoscere una massima di esperienza valida, visto che le massime di esperienza non sono e non pretendono di essere verità assolute.
La massima di esperienza secondo cui gli immobili venduti all’asta giudiziaria vengono aggiudicati ad un prezzo inferiore al valore di mercato, non è smentita dal fatto che in certi casi accade il contrario.
La massima di esperienza secondo cui più avanza l’età e più è difficile trovare lavoro, non è smentita dal fatto che Tizio è stato assunto con contratto di lavoro a tempo indeterminato a 50 anni.
Poniamoci allora la domanda fondamentale: può la Corte sindacare il modo in cui il giudice di merito ha valutato la prova?
La prima risposta che ci viene in mente è no, salvo che la motivazione sia immune da vizi logici e giuridici. E se leggiamo i massimari troveremo conferma di ciò.
Perfetto.
Supponiamo che un giudice di merito scriva: “È vero che i testimoni sentiti sul punto hanno dato versioni diverse, ma è pur vero che quelli indicati dall’attore sono cittadini africani e dunque meno attendibili dei testimoni escussi su richiesta del convenuto che sono di origine italiana”.
Oppure: il testimone Sempronio è più attendibile di Mevio essendo del segno del Sagittario, notoriamente più saggio di quelli dello Scorpione.
È questo un vizio di logica?
Si tratta di un vizio giuridico?
In realtà, ogni qual volta c’è una grave violazione del criterio del prudente apprezzamento c’è violazione di legge e in particolare dell’art. 116 c.p.c.
Ciò che è manifestamente irragionevole, la massima di esperienza che non esiste, o che è smentita da dati tecnici e scientifici, la interpretazione manifestamente contraria al senso fatto proprio dalle parole, non può non essere sindacata dalla Cassazione.
Ed è effettivamente sindacata dalla Cassazione talvolta.
Che cosa fa allora la differenza?
La differenza è data dalla profonda diversità che c’è tra l’opinabile e l’insostenibile.
Non posso andare in Cassazione per criticare una valutazione meramente non condivisibile del giudice di merito. Ma posso andare in Cassazione per dire che quella valutazione è inaccettabile, insostenibile, ingiustificabile.
Secondo il Consigliere Lombardo è possibile censurare come vizio di legge:
- La mancata pronuncia del giudice sull’istanza istruttoria avanzata dalla parte
- La violazione delle diverse norme che regolano l’ammissibilità delle prove con il carattere vincolante
- Il diniego di ammissione di una prova per irrilevanza della stessa qualora il giudice di merito abbia travalicato i limiti della discrezionalità concessagli
- L’esercizio dei poteri probatori di ufficio allorquando il giudice abbia violato i confini della discrezionalità riconosciutagli
- La violazione delle norme che dettano le efficacia delle cosiddette prove legali
- La violazione delle norme che ripartiscono gli oneri probatori tra le parti
- La violazione del principio di non contestazione
Dice il Consigliere Lombardo che l’impiego del 360 n. 5 per denunciare gli errori di metodo era scorretto ed oggi è possibile collocarli nella sede naturale.
In una recente sentenza (11892/2016) la S.C. afferma che l’art. 116 c.p.c. non trova di per sé alcun diretto referente normativo nel catalogo dei vizi denunciabili con il ricorso per cassazione.
La violazione del 116 non può mai avvenire in sé per sé, perché alla Corte non spetta sindacare il modo in cui il giudice ha valutato le prove.
La violazione dell’art. 116 può essere fatta valere dimostrando che il giudice ha errato nella ricostruzione del fatto e che questo errore ha determinato un errore di diritto, cioè la falsa applicazione della norma.
Tuttavia tale errore deve essere tale che la diversa ricostruzione non deve apparire semplicemente come plausibile, ma come necessitata. In altre parole, si deve dimostrare che il giudice è giunto a quella ricostruzione solo perché non ha valutato secondo logica e ragionevolezza una prova e che laddove avesse rispettato i canoni della logica e della ragionevolezza avrebbe applicato una norma diversa, essendo diverso il modo di risoluzione della questione di fatto.
Dunque l’errata ricostruzione del fatto ha determinato un errore di sussunzione.
Si tratta pertanto di un errore in iudicando.
L’affermazione è dirompente!!! Perché significa che abbiamo falsa applicazione anche quando si censura l’errata ricostruzione del fatto.
Riassumendo:
- La violazione del canone del prudente apprezzamento è una figura in via di costruzione. Di certo non rileva ex se, ma in quanto abbia determinato un errore sulla ricostruzione del fatto e quindi un erronea applicazione della legge.
- Si ha violazione del prudente apprezzamento quando il giudice di merito commette un “grave errore” nella interpretazione della prova, nella sua valutazione, nel ragionamento inferenziale, nell’uso delle massime di esperienza.
- “Grave” significa che la valutazione è inaccettabile per ogni uomo di buon senso.
- Quando ricorrono queste ipotesi, la sentenza va censurata per violazione di legge e dunque ai sensi del n. 3 dell’art. 360 in relazione all’art. 116.
CONCLUSIONE
Che cosa ci possiamo aspettare dal futuro?
Io credo che siamo in una fase di assestamento. Non tutto è stato già scritto. Le S.U. hanno messo una pietra importante, ma altre dovranno essere posate.
Credo che con il passare del tempo potrà trovare pieno riconoscimento in giurisprudenza la tesi del Prof. Bove, del Consigliere Lombardo e di altri sulle massime di esperienza quali regole funzionali al rispetto dell’art. 116 c.p.c.
Credo che ci sarà ancora posto per l’insufficienza della motivazione, nonostante le apparenti chiusure della Cassazione, a condizione che il vizio sia determinante.
Rimane un problema capire la differenza tra omessa valutazione di un fatto ed omessa valutazione di una prova, quest’ultima ritenuta non censurabile con il n. 5 dal Consigliere Lombardo.
In buona sostanza, alla fine dei conti, credo che poco sia davvero cambiato.
Di certo, l’accoglimento o meno di un ricorso dipende anche, ovviamente non solo, dalla capacità di cogliere, da un lato la ratio decidendi, dall’altro il vizio determinante compiuto dal giudice.
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