Secondo l’impostazione tradizionale, dovendosi coordinare il potere di dichiarare d’ufficio la nullità di un contratto ex art. 1421 c.c. con il principio della domanda ex art. 99 e 112 c.p.c., il giudice è tenuto a rilevare in qualsiasi stato e grado del giudizio la nullità del negozio, indipendentemente dalla attività assertiva delle parti, solo se sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda. Non può, invece, il giudice procedere al rilievo d’ufficio della nullità, stante il divieto di pronunciare ultra petita, se investito di domanda diretta alla caducazione del contratto in base ad un vizio diverso dalla nullità (risoluzione, rescissione, annullabilità), oppure fondata su ragioni di nullità diverse da quelle successivamente individuate dal giudice come possibile causa di invalidità del negozio (cfr. ex plurimis: Cass. civ., sez. I, 21 gennaio 2008, n. 1218; Cass. civ., sez. II, 6 ottobre 2006, n. 21632; Cass. civ., sez. II, 6 agosto 2003 n. 11847; Cass. civ., Sez. Un., 3 aprile 1989 n. 1611; Cass. civ., Sez. Un. 25 marzo 1988 n. 2572).
In senso contrario a detto orientamento, vi è la dottrina pressoché unanime che ha vigorosamente preso posizione contro questa soluzione, nonchè parte sempre più ampia della giurisprudenza di legittimità e di merito.
Secondo tale diversa prospettiva la nullità di un contratto del quale sia stato chiesto l’annullamento (come pure la risoluzione o la rescissione) può essere rilevata d’ufficio dal giudice, in via incidentale, senza incorrere in vizio di ultrapetizione, atteso che in ognuna di tali domande è implicitamente dedotta l’assenza di vizi determinanti la nullità del contratto, il cui rilievo da parte del giudice dà luogo a pronunzia non eccedente l’oggetto del causa, e la cui efficacia resta fissata in funzione dei limiti della domanda proposta, potendo quindi estendersi all’intero rapporto contrattuale se questa lo investa interamente (cfr. Cass. civ., sez. II, 18 luglio 1994, n. 6710; Cass. civ., sez. I, 28 gennaio 1986 n. 550; Cass. civ., sez. II, 18 gennaio 1983, n. 460; Cass. 6 marzo 1970 n. 578).
Prendendo in esame le opinioni di dottrina espresse in forma critica verso la limitazione indicata dalla giurisprudenza, non può non condividersi che, oltre alla domanda di adempimento o di esecuzione, anche le domande di risoluzione e di annullamento presuppongono la validità del contratto e costituiscono mezzo giuridico per eliminarne, in taluni casi, gli effetti. Anche la domande di risoluzione e di annullamento implicano, e fanno valere, un diritto potestativo di impugnativa contrattuale nascente dal contratto in discussione, non meno del diritto all’adempimento. Se la nullità sussistesse, nessun diritto o potestà potrebbe derivare dal rapporto dedotto in controversia, poiché lo stesso rapporto non sarebbe sorto. La validità del contratto, di conseguenza, si pone come pregiudiziale sia delle domande di adempimento o di esecuzione, sia di quella di annullamento il cui potere, o inesistenza di potere, in quanto abbia fonte in un contratto valido, inerisce alla stessa domanda di annullamento proposta, non diversamente da quella di adempimento (in tal senso v. Cass. civ., sez. I, 2 aprile 1997, n. 2858).
Conseguentemente, poiché l’art. 1421 c.c. richiede che d’ufficio la nullità del contratto, in quanto sussistente, venga “rilevata” (in via incidentale), e poiché, come indicato, la validità o nullità del contratto costituisce il presupposto anche della domanda di risoluzione alla quale inerisce, ne deriva che il rilievo incidentale e d’ufficio della nullità del contratto, di cui sia stato chiesto la risoluzione, attiene alla domanda di risoluzione stessa, ed il relativo rilievo non eccede il principio dell’art. 112 c.p.c. in relazione al limite che la domanda di parte pone ai poteri di pronuncia del giudice. Collocando la nullità nell’ambito della domanda, la posizione diretta a riconoscere che la nullità del contratto debba essere rilevata d’ufficio anche nelle cause di risoluzione o impugnativa contrattuale appare difficilmente contrastabile (in tal senso recentemente Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2009, n. 18540; Cass. civ., sez. III, 15 settembre 2008, n. 23674).
Quindi la questione di validità del negozio è implicata allo stesso modo tanto nella domanda di risoluzione quanto in quella di adempimento (o di esecuzione), in quanto sono risposte alternative che il diritto accorda alla parte di fronte alla situazione di inadempimento. Anche la prima di tali domande, infatti, essendo fondata sull’affermazione che un determinato “obbligo è stato inadempiuto e che non ricorrono circostanze di esclusione della responsabilità” implica necessariamente che un obbligo sia sorto in conseguenza del negozio, e ciò a sua volta presuppone necessariamente l’allegazione di validità del negozio stesso. Anch’essa è dunque domanda di applicazione, poiché la parte postula che il negozio sia valido e abbia spiegato i propri effetti. La domanda di risoluzione si poggia con identico grado di coerenza logica e giuridica sulla validità del negozio: da questo promana il rapporto, se ne chieda la risoluzione o si esiga l’adempimento della prestazione in esso dedotta. D’altra parte, se il contratto è nullo, non vi sono effetti da eliminare, nè è pensabile che si possa risolvere un contratto per inadempimento e magari ottenere anche la condanna al risarcimento laddove per la nullità del contratto non vi era alcun obbligo da adempiere.
Considerazioni analoghe vanno formulate con riguardo alla rescissione o all’annullamento poichè anche in questo caso l’azione trova il suo presupposto nella validità del contratto (in tal senso da ultimo Cassazione civile, sez. III, 22 marzo 2005, n. 6170).
Ritenere il contrario determinerebbe del resto conseguenze assurde, quali ammettere che il giudice debba valutare la gravità o l’imputabilità dell’inadempimento, o soppesare l’equilibrio sinallagmatico, o ripristinare l’equità delle condizioni, o accertare i vizi della volontà, con riguardo a contratti “macroscopicamente” nulli come ad esempio una vendita di sostanze stupefacenti o una locazione d’armi.
Va, inoltre, considerato che l’orientamento tradizionale ritiene possibile il rilievo d’ufficio della nullità solo nel caso in cui essa si ponga in contrasto con la domanda dell’attore, solo se cioè questi ha chiesto l’adempimento del contratto, in quanto il giudice può sempre rilevare d’ufficio le eccezioni, che non rientrino tra quelle sollevabili unicamente tra le parti e che soprattutto non amplino l’oggetto della controversia, ma che, per tendere al rigetto della domanda stessa, si configurano come mere difese del convenuto, dovendosi di contro pervenire a diverse conclusioni nei casi in cui la nullità si colloca non nell’ambito delle eccezioni ma “nella zona delle difese dell’attore, che l’attore avrebbe potuto proporre, ma non ha proposto” (Cass. civ., sez. II, 9 febbraio 1995 n. 1453; Cass. civ., sez. II, 9 febbraio 1994 n. 1340).
In realtà, anche nel caso in cui l’attore abbia richiesto la risoluzione, l’annullamento o la rescissione del contratto, il rilievo d’ufficio della nullità del contratto egualmente porta al rigetto di una delle tre domande suddette e non certo all’accoglimento della stessa. Anche in questo caso, infatti, come per la domanda di esatto adempimento, in caso di nullità del contratto il giudice dovrà sempre rigettare la domanda di risoluzione, annullamento o rescissione del contratto, mentre la nullità del contratto costituirà solo la ragione su cui si fonda il rigetto della domanda dell’attore.
Pertanto, la scrivente ritiene che, a norma dell’art. 1421 c.c., il Giudice debba rilevare d’ufficio le nullità negoziali, non solo se sia stata proposta azione di esatto adempimento, ma anche se sia stata proposta azione di risoluzione o di annullamento o di rescissione. In tutti questi giudizi la “questione di nullità” del contratto è sempre presente e, pertanto, non si esorbita dai temi posti con tali domande quando la nullità venga rilevata d’ufficio ex art. 1421 cod. civ.
Ovviamente rimane fermo il principio che la rilevabilità d’ufficio della nullità di un contratto prevista dall’art. 1421 c.c. non comporta che il giudice sia obbligato ad un accertamento d’ufficio in tal senso, dovendo invece detta nullità risultare “ex actis”, ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo i poteri officiosi del giudice limitati al rilievo della nullità e non intesi perciò ad esonerare la parte dall’onere probatorio gravante su di essa (Cass. civ., sez. II, 28 gennaio 2004, n. 1552).
Ultimi commenti