È possibile ottenere il risarcimento del danno cagionato dai lavori edilizi abusivi del vicino?

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luca-dapollo1di Luca D’Apollo

(estratto dal volume “D.I.A., SEQUESTRI, CONDONI EDILIZI, SINDACATO DEL GIUDICE SULL’ATTO AMMINISTRATIVO, REATI” di L. D’APOLLO, Halley –Nuova giuridica, 2009)

Spesso accade che di una violazione edilizio-urbanistica si lamenti non solo l’ente territoriale competente ma anche il privato cittadino, il cui fondo insiste nella stessa zona in cui si svolgono i lavori abusivi.

Questione dibattuta è se una volta ottenuta la condanna in sede penale per violazione delle norme edilizie e urbanistiche possa procedersi in ambito civile al fine di ottenere la liquidazione dei danni ulteriori.
È infatti pacifico che il proprietario del fondo limitrofo a quello in cui insiste l’abuso edilizio, possa costituirsi parte civile nel giudizio penale al fine di tutelare la propria res: si parla di diritto all’integrità del fondo stesso. Nel giudizio penale si può ottenere sia una provvisionale sia la liquidazione dei danni patrimoniali e non subiti.

Altra questione che si innesta alla prima suesposta concerne l’utilizzabilità in sede civile della sentenza penale di condanna. Sul tema alcune decisioni del giudice di legittimità affermano che la sentenza penale che disponga la condanna generica al risarcimento dei danni in favore delle parti civili ha efficacia di giudicato nel giudizio civile (ex multis Cass. n. 27723/2005).

La condanna generica al risarcimento del danno, anche se contenuta in una sentenza penale, consiste in una mera declaratoria iuris e richiede il semplice accertamento della potenziale idoneità del fatto illecito a produrre conseguenze dannose o pregiudizievoli, a prescindere dalla esistenza e dalla misura del danno, il cui accertamento è riservato al giudice della liquidazione. Pertanto, ogni affermazione della sentenza penale che non sia funzionale alla condanna generica è insuscettibile di acquistare autorità di giudicato e non impedisce che nel giudizio di liquidazione sia riconosciuta l’infondatezza della pretesa risarcitoria, ove si accerti che in realtà nessun danno, anche per profili diversi da quelli contemplati nel giudicato penale e da questo non esclusi, si sia verificato o che quello esistente non sia eziologicamente ricollegabile al fatto illecito accertato in sede penale. (Cass. Civ., Sez. III, 16 maggio 2003, n. 7637, in Giust. civ. Mass., 2003, f. 5).

Secondo tale filone interpretativo la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto alla costituita parte civile, non esige e non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di liquidazione del quantum la possibilità di esclusione dell’esistenza stessa di un danno collegato eziologicamente all’evento illecito. Ne consegue che ogni ulteriore affermazione contenuta nella motivazione della sentenza penale inerente alla concreta sussistenza ed all’entità del danno non può attingere alla dignità di giudicato, e non esonera il danneggiato dall’onere della prova del nesso di causalità tra l’evento ed il danno in sede di giudizio civile di liquidazione del quantum .

Altre sentenze, invece, attribuiscono al giudice civile il potere di decidere liberamente in ordine all’esistenza e all’entità dei danni.
Si afferma che la condanna generica al risarcimento dei danni, contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice riconosca che la parte civile vi ha diritto, non esige alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, ma postula soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di liquidazione del quantum la possibilità di esclusione dell’esistenza stessa di un danno unito da rapporto eziologico con il fatto illecito.

In caso di condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, se il giudice penale (ma il discorso vale anche per il giudice civile adito con una domanda di condanna generica) non si sia limitato a statuire solo sulla potenzialità dannosa del fatto addebitato al soggetto condannato e sul nesso eziologico in astratto, ma abbia accertato e statuito sull’esistenza in concreto di detto danno e del relativo nesso causale con il comportamento del soggetto danneggiato, valgono sul punto i principi del giudicato (Cass. Civ., Sez. III, 11 gennaio 2001, n. 329, in Giust. civ. Mass., 2001, 70).

Si è stabilito che il giudice, con la sentenza di condanna generica, può non limitarsi ad accertare l’esistenza di un fatto potenzialmente idoneo a produrre un danno, ma può accertare anche la reale entità dello stesso, lasciando quindi impregiudicata soltanto la sua liquidazione, purché nell’ambito della causa petendi .

I problemi maggiori sorgono quando il giudice penale riconosca una provvisionale con la sentenza di condanna, senza esprimersi sui danni ulteriori. La questione è stata di recente riproposta al giudizio della Cassazione. Il caso riferiva di una condanna in sede penale per reati urbanistico-edilizi, per abuso d’ufficio, e per deturpazione delle bellezze ambientali. La parte civile, ottenuta condanna e provvisionale, chiedeva ulteriore danno in sede civile.

A giudizio della cassazione colui che lamenta il danno deve dimostrare la sussistenza del pregiudizio lamentato. Nel caso di lesione alle bellezze ambientali, pur sulla scorta di una sentenza di condanna penale passata in giudicato, il danno non può considerarsi in re ipsa. Tale formula, infatti, è prevista solo nelle ipotesi in cui a lamentare il danno sia l’ente territorialmente competente in forza dell’art. 18 legge 8 luglio 1986 n. 349.

I ricorrenti sembrano ritenere che, nella specie, il danno sia da ravvisare “in re ipsa”, per effetto dell’obiettiva natura degli illeciti, consistenti nell’alterazione delle bellezze naturali che connotavano il contesto in cui è situato il loro fondo. Ma un tal genere di danno è risarcibile solo in favore della pubblica amministrazione, in virtù di espressa disposizione di legge (art. 18 legge 8 luglio 1986 n. 349).

I privati sono tenuti, per contro, a dimostrare la concreta perdita patrimoniale in cui siano incorsi, fornendone quanto meno gli elementi minimi affinché il giudice possa procedere alla quantificazione del danno con valutazione equitativa. Pur con riguardo ai danni non patrimoniali – (…) – occorre che vengano quanto meno dedotte le circostanze idonee a dimostrarne natura e consistenza (Cass. Civ., Sez. III, 21 marzo 2008, n.7695).

A giudizio della Corte le statuizioni civili contenute nelle sentenze penali passate in giudicato (come anche le condanne generiche al risarcimento dei danni, emesse in sede civile) non vincolano il giudice investito della liquidazione del quantum, qualora si pronuncino solo sull’astratta idoneità dell’illecito a produrre un danno risarcibile. Sono invece vincolanti se, e nei limiti in cui, procedano all’accertamento in concreto dell’esistenza e dell’entità dei danni.

In particolare la corte sottolinea che qualora il giudice limiti la sua decisione alla condanna generica al risarcimento dei danni, la sentenza, pur se passata in giudicato, non vincola il giudice della liquidazione, nel senso che resta salvo il potere-dovere dello stesso di escludere l’esistenza di un danno risarcibile, o causalmente collegato all’illecito, ove la parte interessata non fornisca in concreto le relative prove.

In ultima battuta giova ricordare che secondo la giurisprudenza predominante, di recente ribadito anche dalle Sezioni Unite, tutte le domande di risarcimento del danno in forma specifica quale quella di demolizione e riduzione in pristino, così come quella per equivalente nei confronti di pubbliche amministrazioni a tutela di una posizione giuridicamente rilevante (diritto di proprietà), lesa da comportamenti materiali consistenti nello svolgimento di una attività edilizia, è devoluta alla cognizione del giudice ordinario, quale giudice dei diritti soggettivi, tra i quali è compreso il diritto al risarcimento del danno, distinto dalla posizione giuridica la cui lesione è fonte di danno ingiusto. La fattispecie sottoposta al giudizio delle Sezioni Unite riferiva di una demolizione asseritamente senza titolo di un fabbricato, produttiva, pertanto di danno ingiusto; secondo l’organo di nomofilachia:

il diritto di ottenere dal giudice ordinario il risarcimento del danno provocato dall’amministrazione con un proprio comportamento (o provvedimento), si presenta come forma di tutela indipendente rispetto a quella consistente nell’ottenere l’annullamento del provvedimento illegittimo; o nel far valere le illegittimità cui sia incorso l’ente nell’osservanza di un procedimento che era tenuto a seguire
(Cass., Sez. Un., 5 maggio 2008, n. 10987, in www.neldiritto.it.).


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Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.




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