Dott. Anna Cafagna
DANNO CAGIONATO DA ANIMALI
NOTE SULL’ART. 2052 C.C. E RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI
-
RESPONSABILITA’ , LEGITTIMAZIONE ATTIVA E PASSIVA
-
CAUSA DEL DANNO ED ESCLUSIONE DELLA RESPONSABILITA’
- PROVA LIBERATORIA
- PARTICOLARITA’ E RAPPORTI CON ALTRE NORME
- RANDAGI, ANIMALI SELVATICI E P.A.
- ANIMALI IN CONDOMINIO: RINVIO
- ART. 672 C.P. : RINVIO
- RAPPORTO CON L’ART. 2049
- RAPPORTO CON L’ART. 2054
RESPONSABILITA’ , LEGITTIMAZIONE ATTIVA E PASSIVA
Il codice civile può offrire una particolare prospettiva per quanto riguarda il rapporto tra l’uomo e gli animali: per la verità, nelle poche norme che si occupano dell’argomento, il codice propone un concetto di animale assimilabile in tutto e per tutto alle ‘cose’, ovvero a quei beni materiali che sono adibiti ad uso e consumo degli uomini.
Di tale ottica costituisce chiaro esempio l’art. 2052 c.c., secondo cui, per i danni causati da animali domestici, risponde il proprietario o chi se ne serve. Questa terminologia è in evidente conflitto con la sensibilità che i tempi recenti vedono crescere nei confronti degli animali.
A questo riguardo, la dimensione comparatistica può risultare fruttuosa: progressi significativi ha compiuto infatti l’orientamento -condiviso in sede europea- che gli animali siano titolari di alcuni diritti, creando una nuova cultura tesa a correggere la visione antropocentrica del rapporto uomo-natura in quella biocentrica che considera l’uomo come uno dei componenti della biosfera.
Se di diritti degli animali si inizia a parlare, di obblighi degli stessi si è già parlato.
In sostanza, gli obblighi che gli animali sono tenuti ad osservare sono gli stessi che fanno capo agli uomini, ovvero, non arrecare danni di alcun genere sia agli altri animali domestici sia agli uomini e ai loro beni. Si tratta, ovviamente, di un ambito circoscritto che ruota sinteticamente attorno all’art. 2043 c.c., con esclusione di ogni altra ipotesi (colpa per inadempimento contrattuale e simili) non confacente alla limitatissima sfera di attività giuridicamente rilevanti propria degli animali.
Si potrebbe, pertanto, affermare, che gli animali rispondono, sia pure indirettamente, solo per colpa aquiliana. Si dice indirettamente poiché di pene comminate direttamente ad animali domestici colpevoli di illeciti, anche gravi, non si ha esperienza, almeno in Italia. Si ricorda un caso in Inghilterra, in cui un giudice condannò a morte un pitbull, colpevole di avere reiteratamente azzannato alcune persone. Singolare fu pure la decisione di un pretore che, a seguito della denuncia di alcuni condomini, che lamentavano molestie e rumori intollerabili dovuti all’abbaiare di un cane di proprietà di altro condomino, ordinò di allontanare l’animale dall’edificio.
L’interesse di dottrina e giurisprudenza per la disciplina della responsabilità per danni cagionati da animali non è, quindi, né episodico né contingente (come dimostra la datazione di alcune sentenze che ancora oggi ‘fanno scuola’), ma certamente negli ultimi anni ha trovato rinnovato vigore in seguito ad episodi di cronaca che hanno rivitalizzato l’attenzione degli addetti ai lavori. Si pensi alla recente ordinanza del Ministero della salute per i cani aggressivi (14.01.2008) che ricalca in buona sostanza quanto già previsto nella precedente ordinanza del 12.12.2006, con l’unica aggiunta all’elenco delle razze canine e di incroci di razze a rischio di aggressività di una nuova razza . La nuova ordinanza all’art. 3 ribadisce che “chiunque possegga o detenga cani di cui all’art. 1, comma 1, lettera b), ha l’obbligo di vigilare con particolare attenzione sulla detenzione degli stessi al fine di evitare ogni possibile aggressione a persone e deve stipulare una polizza di assicurazione di responsabilità civile per danni contro terzi causati dal proprio cane”.
La lettura tradizionale dell’art. 2052 c.c., riconosce il presupposto di attribuzione della responsabilità nel dovere di custodia, da intendersi non già nella semplice accezione tecnico-contrattuale di cui agli artt. 1177 e 1766 c.c., bensì come disponibilità giuridica e di fatto, cui consegue il potere-dovere di controllo e vigilanza sull’animale. Occorre precisare che la parola custodia nell’art. 2052 è usata in contrapposizione allo smarrimento od alla fuga dell’animale. Il suo significato, per quanto indicativo, non è dunque proprio quello dell’art. 2051 c.c., ma solo concependo la custodia sulla base di due cardini fondamentali (titolarità di un potere esclusivo di vigilanza e controllo) si può accedere alla teoria della custodia giuridica quale unico fondamentale criterio di imputazione.
La custodia viene così ad essere inevitabilmente ricompresa nella fattispecie costitutiva della responsabilità, con la funzione di individuare il soggetto passivo dell’obbligazione risarcitoria .
Tuttavia, una soluzione di questo genere, per taluni versi appagante da un punto di vista sistematico-ricostruttivo, si è rivelata eccessivamente fragile sul piano pratico-applicativo. Si è così cominciato a dubitare che il criterio di attribuzione della responsabilità per danni cagionati da animali potesse essere ricercato nella nozione di custodia, nonostante l’indiscutibile dato formale rappresentato dall’espresso riferimento normativo. A tal riguardo è stato sostenuto che l’espressione “custodia” non avrebbe nell’art. 2052 c.c. la stessa valenza generale riscontrabile invece nell’art. 2051 c.c., dove è in effetti deputata ad individuare il soggetto passivo dell’obbligazione risarcitoria . Nella formulazione dell’art. 2052, al contrario, il termine custodia sarebbe unicamente evocato in contrapposizione alle nozioni di smarrimento o fuga dell’animale per sostenerne l’irrilevanza del dato rispetto alla fattispecie considerata; operando in tal modo una traslazione del rischio del fatto dannoso dal danneggiato al danneggiante, sia che sull’animale fosse esercitabile un potere di fatto sia che lo stesso fosse fuggito o smarrito.
L’identificazione dei soggetti tenuti al risarcimento del danno sarebbe invece già compiuta dal legislatore mediante il riferimento alle figure del “proprietario” o di “chi si serve dell’animale”, senza che la nozione di custodia possa aggiungere nulla che non trovi già una adeguata espressione legislativa . Secondo questa impostazione, la funzione dell’espressione ‘custodia’ sarebbe quindi solo quella di restringere l’ampiezza della prova liberatoria, escludendo dal concetto di fortuito la mera fuga o smarrimento dell’animale stesso. Ciò che viene in considerazione non è, quindi, la custodia, che ben può essere disgiunta dal potere di sfruttamento, bensì il profilo funzionale del potere di uso dell’animale (testualmente il “servizio”) secondo la sua specifica natura e la normale destinazione economico-sociale; così che se l’utente è da considerarsi necessariamente custode dell’animale, non è sempre dimostrabile il contrario, potendo l’uso permanere anche in presenza della custodia altrui dell’animale (App. Firenze, 7-2-1955). La Suprema Corte ha, infatti, chiarito che per utente va inteso il soggetto che utilizzi l’animale, “in virtù di un rapporto anche di mero fatto, con il consenso del proprietario, per la realizzazione di un interesse autonomo, ancorché diverso da quello che il proprietario avrebbe tratto o di fatto traeva” (Cass. 13016/92).
La responsabilità de qua si trasferisce, perciò, a carico di un terzo solo quando a questo passi il diritto di trarre dall’animale lo stesso uso, e cioè le stesse opportunità di utilizzazione spettanti al proprietario. Il solo affidamento a un terzo dell’animale, per ragioni di custodia, di cura, di governo, di mantenimento (ad es. ad un veterinario, vettore, stalliere, etc.) non sposta tale situazione di responsabilità, giacché siffatto affidamento non viene ad implicare il diritto di uso, nei termini già detti” (Cass. 5226/77; già Cass.3558/69 aveva fissato che “il soggetto che abbia ricevuto degli animali in semplice custodia al fine di condurli al pascolo e li governi nell’ambito delle mansioni conferitegli, in vece del proprietario, senza sottrarli all’ingerenza di questo, non esercita su di essi l’uso di cui all’art. 2052 c.c. e, quindi, non risponde in luogo del proprietario dei danni cagionati a terzi dai medesimi animali”).
In tema di legittimazione passiva, l’art. 2052 fa immediato riferimento al soggetto proprietario dell’animale. L’individuazione del soggetto obbligato al risarcimento in quanto proprietario dell’animale non ha in genere presentato particolari difficoltà.
Fonte di dubbi è stata invece la determinazione del proprietario nell’ipotesi di danni cagionati dalla fauna selvatica o da animali riuniti in gruppi ed appartenenti a persone diverse, quando sia nel merito difficile l’attribuzione del fatto lesivo (v. oltre).
Né è stato fonte di incertezze interpretative il carattere alternativo e non cumulativo della responsabilità in caso di ‘utilizzazione’ dell’animale: nella fattispecie de qua non ricorre un vincolo di solidarietà tra proprietario ed utilizzatore , ma l’imputazione della responsabilità in capo a quest’ultimo esclude la responsabilità del primo. La responsabilità per il danno cagionato da un animale grava sul proprietario o su colui che se ne serve (con relativo trasferimento del dovere di controllo), e ciò nel senso che la soggezione alternativa dell’uno o dell’altro di costoro a tale responsabilità importa che essa sia operante soltanto nei confronti dei terzi e che non possa essere fatta valere da uno degli obbligati verso l’altro (Cass. 116/79).
Di conseguenza, salva la sua responsabilità personale nei confronti dei terzi, il proprietario ha regresso verso il custode non utilizzatore dell’animale per l’eventuale violazione dei correlativi doveri di vigilanza e sorveglianza.
Da notare che il danneggiato (legittimato attivo) può in ogni caso citare in giudizio il proprietario dell’animale. L’onere di provare l’effettiva sussistenza del rapporto di utenza non ricade infatti sulla vittima del fatto lesivo; sarà invece il proprietario a dover dimostrare l’avvenuta traslazione del rischio, e conseguentemente della responsabilità, in capo al soggetto alternativamente obbligato.
A differenza della determinazione del proprietario, l’individuazione del soggetto alternativamente obbligato in quanto utilizzatore dell’animale è stata fonte di non lievi incertezze interpretative.
L’orientamento prevalente è quello fatto proprio dalla Corte di Cassazione fin dalla pronunzia del 1977 e ribadito, ad es., con sent. 9-12-1992, n. 13016. Il principio accolto dai giudici di legittimità è quello per cui il mero affidamento ad un terzo, per ragioni di custodia, cura, governo, etc. di un animale, non implica l’attribuzione al terzo stesso del diritto di usare l’animale così come potrebbe fare il proprietario (Cass., 30-11-1977, n. 5226, contra, C.M. Bianca, Diritto Civile. La responsabilità, Milano, 1994). Affinché l’obbligazione risarcitoria possa sorgere in capo a un terzo è necessario che quest’ultimo goda di un potere di utilizzazione dell’animale per la realizzazione di un interesse autonomo, non necessariamente coincidente con quello del proprietario. Tale possibilità di sfruttamento dell’animale “non nasce solo da uno specifico diritto reale o personale di godimento, ma può derivare anche da un rapporto di fatto (reso giuridicamente rilevante dall’art. 2052 c.c.) con l’animale, collegato all’utilizzazione, sia pure temporanea, nel proprio interesse. Potere di utilizzazione il quale è esso stesso “ fonte di responsabilità…” (Cass. 13016/92).
Il criterio prevalentemente seguito in giurisprudenza è dunque quello della distinzione fra detenzione dell’animale finalizzata allo sfruttamento delle utilità, non necessariamente pecuniarie, che lo stesso può per sua natura offrire, e, dall’altra parte, semplice detenzione finalizzata alla custodia e al mantenimento. In questo senso, il principio del rischio d’impresa opera solo se collegato con un ricavo in astratto conseguibile .
Secondo un diverso orientamento, assolutamente minoritario, è da considerarsi responsabile non solo il soggetto cui sia conferito dal proprietario il potere di sfruttamento dell’animale secondo la naturale destinazione e le particolari caratteristiche dello stesso, bensì “anche chi, dalla relazione di fatto con l’animale, che consente di esercitare sullo stesso un potere di controllo, tragga un preciso utile, quale quello di un compenso per il governo, il mantenimento, la cura e la custodia” (Trib. Genova, 1973), quando l’attività di custodia sia svolta in modo professionale. In quest’ottica potrebbero essere ritenuti responsabili il veterinario, il tosatore, il vettore, il maniscalco, il gestore di un mattatoio (cfr. Pret. Urbino, 31-12-1955), in quanto essi traggono, seppur mediatamente ed a prescindere da ogni considerazione circa la sua naturale destinazione un utile dall’animale.
Quanto alla casistica in tema di utenza dell’animale, assolutamente pacifica è la giurisprudenza in tema di responsabilità del mezzadro e del soccidiario. Il mezzadro è infatti costantemente ritenuto responsabile per i danni provocati dagli animali in dotazione del fondo, in quanto unico o principale fruitore delle utilità offerte dagli animali stessi impiegati per adempiere all’obbligo di coltivazione del podere. Analoga conclusione si è raggiunta in tema di soccida, dove si è affermato che il soccidiario è esclusivamente responsabile dei danni arrecati dagli animali conferitegli dal soccidante (conferma Cass. 13016/92, cit.).
La possibilità di sfruttamento dell’animale e la correlativa responsabilità manca, evidentemente, allorché l’animale segua una persona amica del proprio padrone e, in tale occasione, arrechi danni a terzi (Cass.1485/58).
Nel caso del deposito di cortesia, secondo parte della dottrina, il proprietario continuerebbe a soggiacere alla responsabilità ; diverso, e dubbio, è il caso -su cui non risultano specifici precedenti giurisprudenziali- di colui che tollera (in quanto non lo scaccia) che un animale, pur non suo e del quale egli non si serve, stanzi nel proprio fondo e, stando in questo, rechi danno ai terzi.
Il criterio accolto dalla giurisprudenza di legittimità nell’ ulteriore ipotesi -ammissibile- di pluralità di proprietari od utilizzatori è quello della soggezione solidale alla responsabilità da parte di tutti i soggetti. La ragione di ciò risiede naturalmente nell’esigenza di tutela dei terzi danneggiati.
Quando diversi proprietari di più animali li abbiano affidati ad un solo custode, che uniti insieme li guida, la responsabilità solidale di tutti proprietari sussiste, oltreché in virtù dell’art. 2052, anche a titolo di colpa ex art. 2049 per la negligenza o imperizia del custode . Quando poi più animali di proprietari diversi concorrono alla produzione di un evento lesivo, tutti i proprietari ne restano responsabili con vincolo di solidarietà. Al riguardo è del tutto irrilevante che gli animali siano costituiti in mandria, in guisa da formare una universitas, o si trovino solo occasionalmente riuniti in branco (Cass. 1386/55).
• CAUSA DEL DANNO ED ESCLUSIONE DELLA RESPONSABILITA’
Cass. 6-1-1983, n. 75 ha chiarito che “la responsabilità sancita dall’art. 2052 c.c. ricorre tutte le volte che il danno sia stato prodotto, con diretto nesso causale, da fatto proprio dell’animale secundum o contra naturam, comprendendosi in tale concetto qualsiasi atto o moto dello stesso in rapporto causale con l’evento, che prescinda dall’attività dell’uomo” .
Il danneggiato è dunque tenuto a provare unicamente, oltre alla situazione di appartenenza della bestia ad un dato soggetto, l’esistenza di un collegamento eziologico tra fatto materiale dell’animale ed evento lesivo. Il proprietario può a sua volta liberarsi solo mediante la prova del caso fortuito o la contestazione della propria legittimazione passiva per l’avvenuto trasferimento del potere di sfruttamento dell’animale a vantaggio di un terzo (della cui identificazione è onerato il proprietario medesimo).
Si richiede che un ‘fatto materiale’ sia stato concretamente compiuto dall’animale stesso. L’animale viene infatti preso in considerazione dall’art. 2052 c.c. nella sua natura di particolare res mobile, differente da ogni altra res materiale, mobile o immobile, produttiva di un danno, cui si riferisce specificatamente l’art. 2051 c.c. Non è dunque sufficiente la sola presenza dell’animale che dia luogo ad un rapporto occasionale con la produzione del danno, ma dovrà considerarsi necessaria una partecipazione attiva alla causazione dell’evento dannoso. In un caso risolto da una corte di merito si è negata la sussistenza del rapporto causale tra il fatto materiale dell’animale ed il danno patito da un soggetto inciampato sul corpo della bestia, tra l’altro di notevole mole, accovacciata in modo ben visibile all’interno di un esercizio commerciale (Trib. Milano, 25-3-1965).
Il nesso di causalità richiesto dal disposto dell’art. 2052 c.c. è stato ritenuto non sussistente nel caso in cui l’animale abbia contagiato con malattie infettive altre bestie. Cass. 10.04.1970, n. 1004 ha osservato che “la presunzione di responsabilità per danno cagionato da animali, di cui all’art. 2052, c.c., presuppone il collegamento eziologico dell’evento dannoso ad azione materiale di animali e pertanto esso non trova applicazione nel caso in cui l’evento dannoso (nella specie il contagio di malattia dell’animale) dipenda da un comportamento colpevole del proprietario dell’animale medesimo”.
L’art. 2052 c.c., perciò, riguarda i casi in cui l’animale sia causa diretta -immediata- del danno, lo cagioni come manifestazione della sua forza ferina, della sua forza bruta, del suo comportamento non sorretto da ragione ma da istinto naturale. Eliminando cioè con il pensiero il fatto derivante dall’animale anche l’evento scompare.
Ecco perché non deve necessariamente riscontrarsi un contatto fisico tra animale e danneggiato (escluso naturalmente il caso di danno alle cose), essendo sufficiente che il fatto posto in essere dall’animale si ponga come causa primaria dell’evento.
Non constano recenti precedenti al riguardo, ma ben dovrebbe ritenersi sussistente il nesso di causalità, ad esempio, tra la comparsa improvvisa di un rettile, fuggito dall’abitazione di un collezionista e penetrato nell’autovettura di un ignaro soggetto, e l’uscita di strada del veicolo cagionata dallo stesso conducente in preda al panico (un caso simile, per alcuni versi, e conosciuto come ‘green snake case’ si è verificato negli Stati Uniti: Seals vs Morris, Supreme Court of Lousiana, 1982). In un caso analogo si è infatti affermata la sussistenza del nesso causale tra il comportamento aggressivo dell’animale e il danno cagionato alla vittima, caduta per ripararsi (Trib. Bari, 19. 02.1968).
La condotta dell’animale (o la sua specie), peraltro, non rileva ai fini dell’esclusione della responsabilità. In particolare, è assolutamente ininfluente la circostanza per cui l’animale abbia cagionato il danno con un comportamento inconsueto (data, ad esempio, la risaputa mansuetudine e tranquillità della bestia) ed imprevedibile.
In un leading case il Supremo Collegio ha stabilito la responsabilità del proprietario di una mucca per danni cagionati dalla stessa in relazione ad un improvviso ed inaspettato ritorno di calore, dato che “il comportamento dannoso di animali causato da impulsi interni propri della loro natura, anche se imprevedibili ed inevitabili, non costituisce caso fortuito e quindi non esonera da responsabilità i loro proprietari o utenti” (Cass. 2333/66).
Bene ricordare che la nozione di ‘animale’ accolta dal legislatore è assolutamente generica e ricomprende al suo interno sia gli animali randagi (v. dopo) che quelli domestici, sia feroci che mansuefatti . Non ne risultano escluse neanche le api: infatti anche per esse, pur se insuscettibili di adeguata custodia e controllo, rimane valido ed applicabile il principio del rischio-profitto fatto proprio dai giudici di legittimità.
In ultimo, si deve escludere l’applicabilità dell’art. 2052 c.c. all’ipotesi in cui l’animale costituisca il mero mezzo materiale, la longa manus dell’attività dell’uomo. Nel caso, ipotizzato in dottrina, di un cane aizzato volutamente dal proprio proprietario contro un terzo, la norma applicabile non sarà quella dell’art. 2052, bensì la clausola generale di responsabilità prevista dall’art. 2043 c.c. .
Sembra che non si possa nutrire alcun dubbio, dunque, sul carattere puramente oggettivo della responsabilità prevista dall’art. 2052. La S.C. (sent. 2333/64) ha sostenuto che si tratta di
“responsabilità a prevalente, se non integrale, carattere obiettivo, e giustificata, com’è noto, più che da colpa o negligenza in vigilando, dalla esigenza sociale di far sopportare i danni procurati dagli animali a chi da questi trae vantaggio :id est, cuius commoda eius et incommoda” (identica definizione in Pret. Ceva 22-3-1988). Il medesimo brocardo è stato impiegato da una corte di merito, per escludere, in tema di danno cagionato ex art. 2052, la risarcibilità dei danni non patrimoniali: secondo tale pronuncia, il fatto lesivo cagionato da un animale non può comportare riconoscimento di danno non patrimoniale per la ragione che non va ad incidere su interessi primari della persona, quali quelli che ricevono protezione a livello costituzionale. Il proprietario risponde del danno prodotto dal suo animale in base al meccanismo di responsabilità oggettiva che, dal diritto romano al code Napoleon, accolla il danno provocato dall’animale al suo proprietario in base al principio cuius commoda eius et incommoda (Trib. Genova, 26.06. 2006).
Cass.13016/92 pur ammettendo che una delle funzioni perseguite dalla norma sia quella preventiva, ha ribadito che la corretta interpretazione della norma alla stregua dei comuni canoni ermeneutici sia solo quella che àncori l’imputazione della responsabilità alla mera sussistenza di un rapporto di causalità tra fatto dell’animale ed evento del quale è chiamato a rispondere il proprietario o l’utilizzatore.
Il fondamento della responsabilità non va cercato in un giudizio ex post sulla condotta del proprietario o dell’utilizzatore dell’animale, ma individuato nella creazione di un rischio connesso dal lato attivo con la percezione di un’utilità. Il proprietario per esimersi dalla sua responsabilità deve dimostrare che l’animale, nel momento in cui fu causa dell’evento lesivo, era uscito dalla sua sfera di controllo, con il conseguente trasferimento in altra persona del dovere di vigilanza (Cass. 4742/01), in difetto di che sussiste la presunzione di responsabilità ricollegantesi al rapporto di proprietà. Al riguardo, in particolare, deve distinguersi tra le varie specie di animali, e così ad es. fra il caso del cavallo dato in comodato o in locazione ad altri perché se ne serva e quello di un cane che, vedendo uscire uno dei suoi padroni, lo segua e gli si accompagni: in tale seconda ipotesi, non potendosi parlare di servizio in senso tecnico, legittimamente il danneggiato persegue civilmente il proprietario, nei confronti del quale gli incombe soltanto di provare la proprietà e la causa del danno, laddove spetta al chiamato in quella qualità dimostrare il rapporto, di regola contrattuale, intervenuto con un terzo, in virtù del quale si era realizzato quel trapasso di utilizzazione che spezza il nesso di collegamento con il dovere giuridico di vigilanza. Pertanto non può questi esimersi da responsabilità soltanto adducendo che il cane, al momento del fatto, si accompagnava ad altra persona (Cass. 1485/58).
Nella fattispecie di cui all’art. 2052 si concreta quindi, “un tipo di responsabilità-costo, avente unitario criterio di imputazione in un rapporto di statica o dinamica percezione di utilità, resa possibile dalla sussistenza di una situazione di pericolo di danno” .
In questo senso il criterio di imputazione della responsabilità non è la colpa, ma il mero fatto di essere proprietario o ‘servirsi’ dell’animale, responsabilità che ammette l’unica prova liberatoria del concorso di una causa estranea determinante il verificarsi dell’evento lesivo.
La diligenza del legittimato passivo, secondo il carattere oggettivo dell’imputazione, non ha alcuna rilevanza ai fini dell’esonero della responsabilità (Cass. 75/83) : ergo, ad assumere rilevanza non è il contegno del proprietario, bensì il collegamento eziologico tra fatto e danno.
Si è così parlato di una presunzione iuris et de iure , la quale “si fonda, nel sistema della legge, su mancanti o insufficienti cautele nella custodia dell’animale medesimo: appunto perché questo ratione caret ed i suoi movimenti sono istintivi ed irrazionali, la responsabilità per il danno, in qualunque modo da esso determinato, fa capo al proprietario, per un presunto difetto di custodia, come per il danno cagionato dalle cose in custodia cui si riferisce il precedente art. 2051” (App. Milano, 14.03.1961).
– PROVA LIBERATORIA
Gli elementi necessari e sufficienti dell’illecito previsto dall’art. 2052 sono, come si è visto, il rapporto di utenza e il nesso di causalità tra fatto dell’animale ed evento dannoso. La loro sussistenza deve essere provata dal danneggiato, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c; il proprietario o “chi si serve” dell’animale può tuttavia liberarsi provando il caso fortuito .
Così non era secondo le disposizioni del codice previgente. Stando infatti alla littera legis dell’art. 1154 del codice del 1865, il proprietario o il custode rispondevano in ogni caso dei danni cagionati dall’animale, senza che fosse prevista alcuna prova liberatoria .
Per caso fortuito è da intendersi “ogni circostanza estranea al proprietario (o all’utente) che si ponga come causa autonoma dell’evento dannoso, non imputabile al responsabile presunto e da lui non evitabile” (Cass. 3674/75); non è di conseguenza sufficiente la prova di avere usato la comune diligenza nella custodia dell’animale (per tutte Cass., 19-4-1983, n. 2717,ma più recentemente 12161/01). Il caso fortuito “non va quindi determinato secondo una misura soggettiva e cioè in relazione alla impossibilità per colui che ha il possesso dell’animale di incidere sulla di lui condotta, ma secondo una misura oggettiva e cioè in relazione alla interferenza di un fattore causale eccezionale al quale soltanto -e non all’animale- il danno possa essere attribuito” (Pret. Ferrara, 8-5-1978).
Rientra nel concetto di fortuito ogni evento imprevedibile ed inevitabile, ed in ogni caso del tutto estraneo al rischio tipico relativo alla fattispecie, che si inserisce nel rapporto causale con autonoma forza determinatrice.
Al caso fortuito è riconducibile, ad esempio, anche la colpa del danneggiato che, però, per avere effetti liberatori, deve consistere in un comportamento cosciente che assorba l’intero rapporto causale e cioè in una condotta che, esponendo il danneggiato al rischio e rendendo questo possibile in concreto, si inserisca in detto rapporto con forza determinante (Cass. 1400/83).
Non costituisce fortuito, invece, il danno cagionato da un impulso imprevedibile dell’animale, non rilevando a tal fine la normale mansuetudine o pacificità dell’animale: gli impulsi propri della natura degli animali non possono considerarsi casi fortuiti, anche se siano imprevedibili ed impensabili. Gli animali, siano essi particolarmente aggressivi o mansueti, conservano un fondo di selvatichezza che, a volte, determina manifestazioni incoercibili; questi comportamenti, appunto perché espressione della natura degli animali, vanno imputati a chi, conoscendone o dovendone conoscere le possibilità di sviluppo e di manifestazione, per quanto possano essere imprevedibili sul piano concreto, sia proprietario od utente degli animali.
Evidentemente, la mancanza o l’insufficienza di elementi probatori idonei ad identificare la causa esimente, comportano la piena operatività della responsabilità (Cass. 3674/75), con la conseguenza che la causa ignota rimane a carico del danneggiante; né la valutazione compiuta dal giudice di merito può essere censurata in sede di giudizio di legittimità ove appaia come conclusione di un processo logico privo di vizi.
Il parametro non è dunque costituito dal rischio effettivamente atteso dal danneggiante, ma da quello che ragionevolmente avrebbe dovuto attendersi.
Ad esempio, per tali ragioni, la sentenza dell’App. Torino, 30.05.1987 ha escluso che concreti l’ipotesi del fortuito il comportamento della bambina che si avvicini al cane tranquillamente accucciato richiedendogli in modo pacifico l’alzata della zampa. Diverso è invece il caso del minore (nella specie, una ragazza dodicenne) che con comportamento cosciente e volontario, benché avvisato del pericolo, apra due porte, si rechi in giardino ed aizzi il cane venendone morsicato (App. Firenze, 13-4-1964).
Da menzionare, pure, la peculiare ipotesi del danno causato in sede di attività di maneggio: il gestore del maneggio in quanto proprietario o utilizzatore dei cavalli che servono per le esercitazioni, è soggetto, per i danni subiti dagli allievi durante le esercitazioni eseguite sotto la sorveglianza o la direzione di un istruttore e in condizioni, quindi, che privano il cavaliere della disponibilità dell’animale, alla presunzione di responsabilità di cui all’art. 2052 c.c. e non a quella di cui all’art. 2050 c.c (Cass. 9581/98;12307/98), a meno che non si tratti di danni conseguenti alle esercitazioni di principianti o allievi giovanissimi la cui inesperienza, e conseguente incapacità di controllo dell’animale, imprevedibile nelle sue reazioni se non sottoposto ad un comando valido, rende pericolosa l’attività imprenditoriale del maneggio (Cass. 6888/05), ovvero nel caso di noleggio organizzato su percorsi pericolosi o senza adeguata vigilanza per prevedibili situazioni di emergenza (Cass. 3471/99) .
Il furto dell’animale può rilevare quale caso fortuito solo qualora si presenti come un evento straordinario, imprevedibile ed inevitabile. Per questo, un eventuale furto delle bestie non è idoneo a concretizzare un’ipotesi di fortuito giuridicamente rilevante, se risulti che le stesse erano libere di vagare, perché la sottrazione non può considerarsi in queste circostanze n evento straordinario ed imprevedibile (Cass. 3047/72).
Riassumendo, la responsabilità ex art. 2052 c.c. del proprietario dell’animale postula un nesso causale tra il fatto dell’animale e il danno subito dall’attore il quale, pertanto, al fine di far valere detta responsabilità, è tenuto a provare l’esistenza di tale nesso (Cass. 1210/06): solo a seguito di siffatta dimostrazione il convenuto è tenuto, per sottrarsi alla responsabilità ex art. 2052 – la quale è presunta, e prescinde pertanto dalla sussistenza della colpa- a fornire la prova del caso fortuito (Cass. 200/02; 1971/00) costituito da un fattore esterno, che può consistere anche nel fatto del terzo o nella colpa del danneggiato (ad es. assalito da un cane, dopo essersi introdotto in un magazzino dopo l’orario di chiusura al pubblico, Cass. 4160/81), ma che deve comunque presentare i caratteri della imprevedibilità, inevitabilità e assoluta eccezionalità. Detta imprevedibilità, come detto, opera sotto il profilo oggettivo (v. Trib. Bologna 04.05.2005), nel senso di accertare l’eccezionalità del fattore esterno, e non già come elemento idoneo a escludere la colpa del proprietario che, per quanto precisato, è irrilevante a detti fini (Cass. 4742/01).
Sembra opportuno ricordare una recente pronuncia della Suprema Corte cui deve riconoscersi il merito di compendiare le riflessioni cardinali finora enunciate; essa -trattasi della sentenza 19.03.07 n. 6454(Sez. III Pres. Varrone)- ribadisce che la responsabilità aquiliana del proprietario dell’animale prevista dall’art. 2052 c.c. è presunta, fondata non sulla colpa, ma sul rapporto di fatto con l’animale. Ne consegue che per i danni cagionati dall’animale al terzo, il proprietario risponde in ogni caso e per l’intero, a meno che non dia la prova del caso fortuito, ossia dell’intervento di un fattore esterno idoneo a interrompere il nesso di causalità tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, comprensivo anche del fatto del terzo o del fatto colposo del danneggiato che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno. Pertanto, se la prova liberatoria richiesta dalla norma non viene fornita, non rimane al giudice che condannare il proprietario al risarcimento dei danni per l’intero (nel caso di specie, era stato chiesto ai proprietari il risarcimento a causa di un mordo di un cane inferto alla ricorrente mentre era in visita alla loro abitazione e la corte di merito aveva dato rilievo alla imprudenza di quella nella produzione dell’evento, condannando i proprietari al pagamento del 25% dei danni: sull’enunciato principio la S.C. ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata App. Sassari 06.06. 02).
La Cassazione con tale decisione conferma l’orientamento giurisprudenziale che attribuisce natura oggettiva alla responsabilità ex art. 2052 c.c. per i danni cagionati da animali sia sotto la custodia del proprietario, sia smarriti o fuggiti, escludendone la responsabilità solo nei casi in cui l’evento sia imputabile a caso fortuito. Secondo questo modello di responsabilità, una volta provato che l’animale ha cagionato il danno, non sarà necessario prendere in esame la questione della colpa del proprietario o dell’utente, poiché il fatto stesso che si sia verificato l’evento è di per sé sufficiente a mostrare che la custodia non è stata diligentemente esercitata, senza possibilità alcuna per il convenuto di fornire prova contraria. L’effetto che ne deriva è che il proprietario, al fine di scagionarsi, e andare così esente da responsabilità, non può semplicemente provare di aver usato la comune diligenza nella custodia dell’animale, ma occorre la prova che il danno sia stato prodotto dall’animale per cause esterne (cfr. Cass. 14743/02).
In alcune fattispecie concrete è stato escluso che possa rientrare nell’ambito del fortuito l’imbizzarrimento dell’animale, perché ciò non sarebbe estraneo alla sua naturale pericolosità (Cass. 631/79); né concreta l’ipotesi del fortuito l’impulso che determina in un animale d’indole tranquilla, un comportamento dannoso anche difficilmente prevedibile o la fuga dal mattatoio di un grosso bovino, avuto riguardo al naturale istinto di salvezza che lo ha indotto a fuggire abbattendo un cancello (Cass. 4752/99).
• PARTICOLARITA’ E RAPPORTI CON ALTRE NORME
– RANDAGI, ANIMALI SELVATICI E P.A.
L’argomento appare interessante, oltre che per la peculiarità propria dei casi coinvolti, anche per la fonte da cui si fa derivare la responsabilità de qua, perdendo, in tali ipotesi, l’art. 2052 il ruolo di riferimento normativo.
Relativamente a fenomeni di randagismo, la III Sezione Civile di Cassazione (sent. 27001/05) ha stabilito che la vigilanza sui cani randagi spetta alle unità sanitarie locali e, per esse, alla aziende sanitarie locali succedute per legge alle prime. Nel caso di specie la Corte ha fatto riferimento a quanto disposto dall’art. 6 della legge della Regione Puglia n.12 del 1985, secondo la quale spetta ai servizi veterinari delle USL il recupero dei cani randagi. I Giudici di Piazza Cavour hanno precisato che dopo la soppressione delle USL, operata dal d.lgs. n. 502 del 1992, istitutivo delle ASL, i soggetti obbligati ad assumere a proprio carico i debiti degli organismi soppressi mediante apposite gestioni a stralcio (di pertinenza delle Regioni anche dopo la trasformazione in gestioni liquidatorie affidate ai direttori generali delle nuove aziende) sono le stesse Regioni (ex artt. 6 l. n.724/1994 e 2 l. 549/1985).
E’ quindi la P.A. a rispondere dei danni provocati da cani randagi, in applicazione del principio generale del neminem laedere ex art. 2043 c.c., qualora abbia omesso e trascurato di adottare i provvedimenti e/o le cautele idonee a rimuovere ed eliminare il potenziale pericolo rappresentato dai cani randagi, con i poteri attribuiti dalla legge e con le modalità oggetto della discrezionalità amministrativa. Lo aveva già stabilito il GdP di Manduria(sent. 22.10.2003), rilevando che i cani randagi costituiscono per l’utente della pubblica via un’insidia non prevedibile né evitabile ed in definitiva un pericolo occulto di cui la P.A. non può non essere chiamata a rispondere.
La responsabilità per danni causati da un cane randagio deve ascriversi unicamente all’Amministrazione, la quale ha il potere di controllo e di vigilanza sul territorio e deve provvedere alla cattura, al ricovero, alla custodia ed al mantenimento dei cani randagi sotto il controllo sanitario del servizio veterinario dell’ASL.
Rientra nei poteri del Comune la vigilanza ed il controllo del fenomeno del randagismo, mentre la ASL è essenzialmente un organo tecnico del Comune, alla quale viene affidata da quest’ultimo un preciso compito di natura specialistica, con la conseguenza che, non agendo in via autonoma, non può essere direttamente responsabile nei confronti del cittadino: questo quanto stabilito dal GdP di Pozzuoli nella sentenza del 28 giugno 2004.
Secondo una diversa impostazione, l’Amministrazione comunale è tenuta, insieme con le Asl, al controllo del randagismo: il Comune è responsabile del morso di un cane randagio (Cass. 10638/02); se un cane randagio morde una persona causando lesioni personali il Comune e la Asl possono essere chiamati a rispondere dei danni: così ha stabilito la III Sezione Civile di Cassazione che ha confermato una sentenza che aveva condannato il Comune in solido con l’Azienda Sanitaria Locale a risarcire i danni subiti da un signore che era stato morso da alcuni cani randagi. L’amministrazione comunale è ricorsa in Cassazione sostenendo che la responsabilità della cattura ricadeva sulla Asl, territorialmente competente per gli animali randagi, ma la Suprema Corte ha respinto il ricorso sottolineando che “a ragione risulta affermata la responsabilità del comune accanto a quella della Asl”, in quanto, anche se le Asl sono enti dotati di autonomia amministrativa, resta competenza del Comune la verifica dell’andamento generale dell’attività della Aziende Sanitarie attraverso l’attività di vigilanza del sindaco. Infatti, il Comune e anche le Asl, attraverso il servizio sanitario, sono tenute “al controllo del randagismo”.
Passando all’ulteriore prospettiva che qui interessa e riprendendo un profilo menzionato in precedenza, si rammenta che dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto applicabile l’art. 2052 c.c. a qualunque tipo di animale, indipendentemente dalla specie di appartenenza, sempreché sia possibile identificarne un proprietario od un utente.
Sulla base di tali considerazioni, per l’appunto, si è costantemente esclusa l’applicabilità della norma per i danni cagionati da animali stanziali o vaganti in una riserva di caccia.
Prima dell’entrata in vigore della legge quadro sulla caccia (l. 968/77) si riteneva comunemente, sulle orme della tradizione romanistica, che gli animali selvatici viventi in libertà appartenessero alla categoria delle res nullius. Non a caso essi erano suscettibili di occupazione e costituivano l’oggetto dell’esercizio venatorio. Di conseguenza, si è per lo più negata la responsabilità del concessionario della riserva, non potendo lo stesso essere propriamente definito né proprietario né utilizzatore degli animali ivi viventi.
Il quadro normativo ha subito una trasformazione radicale con l’ approvazione della citata legge sulla caccia, ai sensi della quale “la fauna selvatica italiana costituisce patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale” (art. 1). La fauna selvatica -secondo una comune ricostruzione- è stata dunque inclusa tra i beni contemplati dal secondo comma dell’art. 826 c.c. come beni patrimoniali indisponibili dello Stato ed ha inequivocabilmente perso la qualifica tradizionale di res nullius (a riprova, Cass. 8788/91). Certo, sul significato di questa inclusione non v’è concordia; anche se “tale qualificazione implica la proprietà da parte dello Stato, inteso come Stato-ente, e non permette una configurazione adespota del diritto di proprietà, come sarebbe nel caso si volesse direttamente imputarlo allo Stato-comunità” cionondimeno è dubbio se possa applicarsi interamente la disciplina codicistica della proprietà contenuta negli articoli 832 ss., salvi i necessari adattamenti dovuti alla specificità dell’oggetto del diritto in questione. Si è sostenuto da più parti che ci troveremmo in presenza di una sorta di ‘proprietà senza possesso’. La lettera della legge depone dunque per il riconoscimento, in capo allo Stato, di una situazione di titolarità dominicale sulla fauna selvatica. Una delle molteplici conseguenze di tale premessa è che, cessata la riconducibilità degli animali selvatici alla categoria delle res nullius -venendo meno quell’ostacolo di carattere formale che aveva impedito l’applicazione dell’art. 2052 c.c. alla fattispecie in questione, determinando l’irrisarcibilità di queste ipotesi di danno e l’ingiustificata attribuzione di un privilegio alla pubblica amministrazione -, sullo Stato incombe una serie di obblighi derivanti dalla acquisita condizione di proprietario della fauna selvatica (in questi termini Cass. 8788/91). Mentre per l’ipotesi di danno all’agricoltura esiste una disciplina speciale, l’aspetto da affrontare in via preliminare, per la sua più stretta inerenza agli scopi della presente rassegna, è quello relativo all’alternativa tra gli artt. 2052 e 2043 quali criteri specifici di imputazione della responsabilità in capo alla P.A. per i danni cagionati dalla fauna selvatica a cose o persone. Si tengano presenti alcune pronunzie di merito rese in tempi oramai non recentissimi, tra cui la pronuncia del Pretore di Ceva, 22-3-1988, il quale rileva, per l’appunto, come lo Stato, attribuendosi la signoria sulla fauna selvatica, deve ritenersi responsabile ex art. 2052. Tuttavia, l’orientamento prevalente, fatto proprio anche dalla giurisprudenza di legittimità, tende invece ad escludere la sussistenza di una ‘responsabilità automatica’ dell’Ente Pubblico ogni qualvolta si verifichi un qualsiasi incidente con coinvolgimento della fauna selvatica (Cass. 24.10.2003 n. 16008; Cass. 24.09.2002 n. 13907; Cass. 07.04.2008 n. 8953); viene però, al contempo, fatta salva la pretesa risarcitoria per l’eventuale violazione dei doveri di cui all’art. 2043 (così, Cass. 2192/96, ma più recentemente Cass. 14241/04; Cass. 24895/05).
Il fondamento della presunzione di responsabilità di cui all’art. 2052, si sottolinea, va ricercato nella disponibilità dell’animale da parte del dominus; in relazione alla fauna selvatica, proprio per il suo trovarsi in stato di completa libertà, non è ipotizzabile una potestà di governo (Cass. 24895/05); ne consegue che la P.A., a cui non è riconosciuto il potere-dovere di inibire il libero spostamento della fauna, non assume la veste di dominus in senso tecnico e non può quindi essere assoggettata a responsabilità secondo i criteri previsti dall’art. 2052 c.c. .
Infatti, sarebbe estremamente difficile, sul piano di una logica interpretazione dei principi, richiedere anche per gli animali selvatici i presupposti indicati dal citato art. 2052 della sorveglianza tipica della custodia (sent. 53/83) o del rischio collegato all’utile (già Cass. 522/77). La conclusione, quindi, da ricavare, è quella che il danno, diverso da quello all’agricoltura, provocato a persone o a cose da animale selvatico non può essere risarcito alla stregua dell’art. 2052 c.c., ma è astrattamente risarcibile soltanto in base ai principi generali indicati dall’art. 2043 c.c., del quale debbono ricorrere tutti gli elementi con particolare riferimento alla colpa .
– ANIMALI IN CONDOMINIO : RINVIO
In tema di condominio di edifici il divieto di tenere negli appartamenti comuni animali domestici non può essere contenuto negli ordinari regolamenti condominiali, approvati dalla maggioranza dei partecipanti, non potendo detti regolamenti importare limitazioni delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei condomini sulle porzioni del fabbricato appartenenti ad essi individualmente in esclusiva, sicché, in difetto di un’approvazione unanime, le disposizioni anzidette sono inefficaci anche con riguardo a quei condomini che abbiano concorso con il loro voto favorevole alla relativa approvazione, giacché le manifestazioni di voto in esame, non essendo confluite in un atto collettivo valido ed efficace, costituiscono atti unilaterali atipici, di per sé inidonei ai sensi dell’art. 1987 c.c. a vincolare i loro autori, nella mancanza di una specifica disposizione legislativa che ne preveda l’obbligatorietà (Cass. 12028/93). La detenzione di animali in un condominio, essendo la suddetta facoltà una esplicazione del diritto dominicale, può essere vietata solo se il proprietario dell’immobile si sia contrattualmente obbligato a non detenere animali nel proprio appartamento, non potendo un regolamento condominiale di tipo non contrattuale -quand’anche approvato a maggioranza- stabilire limiti ai diritti ed ai poteri dei condomini sulla loro proprietà esclusiva, salvo che l’obbligo o il divieto imposto riguardino l’uso, la manutenzione e la eventuale modifica delle parti di proprietà esclusiva, e siano giustificati dalla necessità di tutelare gli interessi generali del condominio, come il decoro architettonico dell’edificio (Trib. Piacenza, 10.04.1990, n. 231). Il tema così introdotto rileva per la non rara frequenza di ipotesi, soprattutto con riguardo al fatto che il comportamento dell’animale può indurre ad invocare l’art. 844 c.c. in tema di immissioni e loro “normale tollerabilità”. La detenzione di un animale può integrare in astratto la fattispecie di cui all’art. 844 c.c., in quanto tale norma, interpretata estensivamente, è suscettibile di trovare applicazione in tutte le ipotesi di immissioni che abbiano carattere materiale, mediato o indiretto e provochino una situazione di intollerabilità attuale; pertanto, in mancanza di un regolamento condominiale di tipo contrattuale che vieti al singolo condomino di detenere animali nell’immobile di sua esclusiva proprietà, la legittimità di tale detenzione deve essere accertata alla luce dei criteri che presiedono la valutazione della tollerabilità delle immissioni (Trib. Piacenza, 10.04.1990, n. 231). Il giudice può, con provvedimento di urgenza ex art. 700 c.p.c., ordinare l’allontanamento di animali molesti dal condominio, affidando l’esecuzione ad organi pubblici, con divieto assoluto di ritorno nell’edificio condominiale (nella specie, Trib. Napoli, ord. 8.03.1994). Sul tema si è da poco pronunciata la S. C. (sent. 7856/08), rigettando il ricorso avverso una sentenza che statuiva l’obbligo degli appellanti di conformarsi al regolamento condominiale e di fare in modo che la presenza del cane (con la tendenza ad abbaiare ogni qualvolta sentiva suonare il campanello o quando avvertiva la presenza di persone all’interno dello stabile, e spesso anche nelle ore notturne) non fosse lesiva dei diritti degli altri condomini.
– RAPPORTO CON L’ART. 2054
Un caso atto a verificarsi con grande frequenza è quello dello scontro fra un veicolo ed un animale . Per costante giurisprudenza di merito e di legittimità, è configurabile un concorso tra le presunzioni sancite dagli artt. 2052 e 2054 c.c., rispettivamente a carico del proprietario o dell’utente dell’animale e del conducente dell’autovettura (per cui è fatta salva la responsabilità solidale del proprietario della stessa).
La S.C. (19.04.1983, n. 2717) ha in tal senso osservato che “in tema di responsabilità aquiliana, la presunzione di colpa di cui all’art. 2052 c.c. ben può concorrere con quella di cui al successivo art. 2054, onde dei danni prodotti dall’urto tra un autoveicolo ed un animale la sussistenza e la misura della responsabilità dei rispettivi proprietari deve essere determinata in base alle modalità del fatto concreto” (cfr. Cass. 09.12.1992, n. 13016, che conferma “in tema di responsabilità per danni derivanti dall’urto tra un autoveicolo e un animale, la presunzione di colpa a carico del proprietario dell’animale di cui all’art. 2052 c.c., concorre con quella posta dal primo comma del successivo art. 2054 a carico del conducente del veicolo con la conseguente prova liberatoria a carico di quest’ultimo, a meno che il sinistro non si sia verificato mentre l’animale era al traino di un carretto (veicolo) e non debba, pertanto, applicarsi al conducente del mezzo meccanico il secondo comma dell’art. 2054 che pone a suo carico la presunzione di responsabilità solo concorrente” ).
Sul conducente del veicolo grava, dunque, l’onere di provare che il danno si è verificato esclusivamente a causa del comportamento dell’animale; in mancanza di tale dimostrazione rimane operante la presunzione di responsabilità a suo carico (Trib. Perugia 14.03.1983) in quanto il nesso di causalità tra condotta di guida e danno deve ritenersi in re ipsa.
Da ciò si argomenta che nell’ipotesi di scontro tra un veicolo e un animale il concorso fra le presunzioni di responsabilità stabilite a carico del conducente e del proprietario dell’animale, rispettivamente dagli artt. 2054 e 2052 c.c., comporta la pari efficacia di entrambi tali presunzioni e, quindi, la conseguente necessità di valutare, caso per caso, il loro superamento da parte di chi ne risulta gravato. Pertanto, quando non sia possibile accertare la effettiva dinamica del sinistro -perciò la sussistenza e la misura delle rispettive colpe-, se solo uno dei due soggetti superi la presunzione posta a suo carico, la responsabilità graverà sull’altro soggetto mentre in ipotesi di superamento da parte di tutti, ciascuno andrà esente da responsabilità, la quale graverà invece su entrambi se nessuno raggiunga la prova liberatoria; con la conseguenza che il mancato superamento della presunzione da parte di uno degli interessati (nella specie il conducente del veicolo) non implica esonero da responsabilità dell’altro, se questi non abbia vinto la presunzione a suo carico (dando la prova del caso fortuito) (Cass. 5783/97).
La presunzione di responsabilità oggettiva a carico del proprietario o dell’utilizzatore di quest’ultimo concorre con la presunzione di colpa a carico del conducente del veicolo ex art. 2054 anche nel caso che il danneggiato non sia un terzo, ma lo stesso conducente; ciò in quanto l’art. 2054 c.c. esprime principi di carattere generale, applicabili a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione. Pertanto, se danneggiato è il conducente e questi non mostra di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, il risarcimento spettante gli dovrà essere corrispondentemente diminuito, in applicazione dell’art. 1227c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c. (Cass. 200/02).
In sede penale, poi, si ribadisce che qualora un incidente stradale sia determinato dalla presenza sulla pubblica via di un animale incustodito che, investito, provochi lo sbandamento di un veicolo, va addebitata al proprietario dell’animale medesimo la responsabilità del fatto per omessa custodia, sia pure, eventualmente, con il concorso di colpa della persona offesa, ove questa, non si sia accorta tempestivamente della’ostacolo prevedibile ed evitabile (Cass. Pen. 26.05.1988)
– RAPPORTO CON L’ART. 2049
Un breve cenno merita il caso di responsabilità per danni arrecati a terzi da animali che si trovano sotto il controllo del commesso o del dipendente del proprietario nell’esercizio delle proprie mansioni.
In quest’ipotesi è agevole concludere che legittimato passivo dell’azione esperita dal terzo ai sensi dell’art. 2052 c.c. non sarà il dipendente, bensì il committente, sia esso proprietario o utilizzatore dell’animale, in quanto fruitore ultimo delle utilità offerte dalla bestia (resta fermo, quindi il criterio generale).
Così, infatti, la Cassazione (28.10.1969, n. 3558) ha ritenuto che “il soggetto che abbia ricevuto degli animali in semplice custodia al fine di condurli al pascolo e li governi, nell’ambito delle mansioni conferitegli, in vece del proprietario, senza sottrarli all’ingerenza di questo, non esercita su di essi l’uso di cui all’art. 2052 c.c. e, quindi, non risponde in luogo del proprietario dei danni cagionati a terzi dai medesimi animali”. L’orientamento della giurisprudenza ha ritenuto che “ai fini dell’affermazione della responsabilità indiretta del padrone e del committente per il danno arrecato dal fatto illecito del domestico o del commesso è sufficiente un nesso di occasionalità necessaria fra l’illecito stesso e il rapporto che lega detti soggetti, nel senso che le incombenze o mansioni affidate abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno, mentre rimane irrilevante il fatto che tale comportamento si ponga in modo autonomo nell’ambito dell’incarico ricevuto, o abbia addirittura ecceduto dai limiti” (Cass. 75/83, cit.). Nel caso di specie l’Ente Autonomo Teatro dell’Opera, convenuto in veste di committente ai sensi dell’art. 2049 c.c., è stato condannato al risarcimento dei danni cagionati dal cane della propria dipendente, custode dei locali del Teatro, tenuto in libertà nel cortile senza gli adeguati strumenti protettivi.
– ART. 672 C.P. : RINVIO
La Corte di Cassazione, quarantasei anni fa, affermava che la fattispecie contravvenzionale di omessa custodia di animali prevista dall’art. 672 c.p. “si riferisce all’incolumità pubblica, e non all’incolumità delle persone nella circolazione stradale, per la cui tutela esiste, quanto alle contravvenzioni, un’apposita legge speciale che comunemente è indicata con il nome di codice stradale” (sent. 19.11.1963, n. 2438). Sulla scorta di tale massima, sembrerebbe che chi è rimasto coinvolto in un incidente a causa dell’apparizione improvvisa di un animale (domestico o comunque detenuto da qualcuno) non possa richiedere alcuna tutela, nemmeno risarcitoria, perché, alla fonte, non sarebbe ravvisabile una responsabilità ex art. 672 c.p.. Sembrerebbe quasi che all’animale debba essere rimproverata una violazione del codice della strada perché si possa parlare di risarcimento del danno. Se così fosse, però, qualcosa striderebbe: innanzitutto perché all’animale in quanto tale non può rimproverarsi alcuna violazione, né al suo proprietario o detentore può rimproverarsi alcuna responsabilità personale di quel tipo in quanto egli risponde comunque a titolo di omissione colposa di un dovere di vigilanza. Peraltro, sulla individuazione dell’incolumità pubblica come bene oggetto della tutela ex art. 672 c.p., nulla quaestio . Occorre tuttavia intendersi sulla nozione di incolumità pubblica, o meglio, di pericolo per l’incolumità pubblica, essendo l’illecito sanzionato dall’art. 672 c.p. una fattispecie di pericolo. Poi, però, ci si deve intendere sulla singolarità del danno che può derivare dal fatto pericoloso posto in essere. Innanzitutto, l’incolumità, se deve essere pubblica, ossia diffusa, molteplice, deve riguardare un numero indeterminato di persone, ossia un contesto potenzialmente indiscriminato. E’ chiaro che un animale sulla strada costituisce un pericolo imprevedibile per chiunque si trovi a passare in quel luogo in quel momento, e quindi è un fatto pericoloso per la massa degli utenti della strada che, solo per pura fatalità, possono esserne coinvolti. Sotto questo profilo si può rilevare un riflesso pubblicistico, nel senso, appunto, di diffuso. Una volta che si è verificato un incidente a seguito della presenza di un animale, però, vi è un singolo individuo (o singoli individui) che hanno subito un danno, quindi la fattispecie non si fonda più soltanto sul pericolo generico posto in essere, ma anche sul danno specifico causato. Quindi sulla responsabilità eventualmente disattesa da chi doveva custodire l’animale si può costituire la fonte dell’obbligo risarcitorio.
Il fatto che, rispetto alla sentenza su citata, la fattispecie ex art. 672 c.p. non sia più un reato contravvenzionale ma sia stata depenalizzata, poi, nulla aggiunge né modifica, in quanto si tratta comunque e sempre di un illecito sanzionabile a titolo colposo, come detto, per omissione. Né si può applicare al proprietario o detentore dell’animale, in quanto tale, l’art. 6 della l. 689/1981 in tema di responsabilità solidale con l’autore della violazione in quanto, come detto, l’animale non può essere considerato l’autore della violazione.
Posto quindi che l’animale non è rimproverabile per aver disatteso le norme sulla circolazione stradale e che il suo proprietario o detentore neppure è responsabile a tale titolo in quanto non ha commesso alcuna violazione di quel tipo, occorre rifarsi ad un’altra norma generale, per identificare la fonte dell’obbligo risarcitorio, ossia l’art. 2052 c.c., che concerne la responsabilità del proprietario di un animale o di chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso (con il limite del caso fortuito). Qui la Cassazione in sede civile ha costantemente affermato che si tratta di una responsabilità non fondata sulla colpa, ma su una presunzione di colpa (eliminabile, come detto, solo con la prova liberatoria del caso fortuito), e quindi, in sostanza, di una responsabilità oggettiva (Cass. 4742/2001, 200/2002), alias sul rapporto di fatto con l’animale (Cass. 12307/1998). E’ chiaro, quindi, che si tratta di un respiro assai più ampio di quello contemplato dall’art. 672 c.p., norma che, come detto, concerne ipotesi fondate sulla colpa effettiva (per omissione). Non solo. La Cassazione civile ha anche aggiunto un’altra lettura della ipotesi di danno cagionato da animale sulla strada, laddove ha stabilito che anche in questo caso, qualora non sia identificabile una responsabilità esclusiva da parte dell’automobilista nella produzione dell’evento, o l’esclusione della sua responsabilità, si possa ricorrere alla presunzione ex art. 2054 codice civile, essendo questa una norma di carattere generale applicabile a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione (Cass. 200/2002, confermativa di altre precedenti pronunce, Cass. 2615/1970, 778/1978,2717/1983,13016/1992).
Tirando le fila del discorso, quindi, esclusa la possibilità di riferirsi all’art. 672 c.p., ma dovendo invece basarsi sulla norma generale di cui all’art. 2052, sul piano giuridico (e metagiuridico) si deve concludere che se l’animale non è rimproverabile come soggetto della circolazione stradale, è però assimilabile a un veicolo, in particolare a uno strano veicolo di cui il conducente ha perso il comando, e che procede ugualmente a distanza, come una scheggia impazzita, per suo conto. Veicolo, nel senso latissimo, di oggetto semovente sulla strada.
In una recente sentenza (25474/2007), la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui dalla semplice relazione di possesso di un animale o anche solo di detenzione nasce l’obbligo della custodia per il proprietario, ovvero per colui che detiene l’animale : il caso riguarda l’omessa custodia di un cane per cui il giudice di primo grado aveva dichiarato la penale responsabilità del detentore in ordine all’imputazione di lesioni colpose conseguenti all’omessa custodia del cane, di proprietà del figlio dell’imputato. L’animale, infatti, usciva dal cancello automatico dell’abitazione dell’imputato senza museruola e si avventava contro una passante addentandola al polpaccio. All’imputato veniva addebitata non solo la violazione dell’art. 672 c.p., per aver lasciato libero l’animale pericoloso (di proprietà del figlio, ma da lui detenuto nella qualità di componente della famiglia, coabitante nello stesso edificio), ma anche un profilo di colpa generica, sub specie di negligenza ed imprudenza, sul rilievo che lo stesso, alla guida della sua autovettura, era uscito dal cancello della propria abitazione, senza prima curarsi che il cane, privo di museruola, non fosse libero di muoversi e di uscire dal cancello, così come era invece avvenuto. La Corte di Appello di Ancona, richiamando la sentenza di primo grado, riteneva fondato l’addebito colposo e dichiarava l’estinzione del reato di lesioni colpose per intervenuta prescrizione, nonché la sopravvenuta incompetenza per la contravvenzione di omessa custodia di animali ex art. 672 c.p., depenalizzata ex L. 689/1981 e D.lgs. 507/1999, con la trasmissione degli atti al prefetto di Ascoli Piceno per quanto di competenza in ordine alla irrogazione della sanzione amministrativa. L’art. richiamato, infatti, è stato depenalizzato a seguito dell’art. 33 delle L. 689/1981 per cui chiunque lascia liberi o non custodisce con le debite cautele animali pericolosi da lui posseduti, o ne affida la custodia a persona inesperta, è punito con la sanzione amministrativa da € 25 a € 258. Avverso questa pronuncia, l’imputato ha promosso ricorso per Cassazione, lamentando la trasmissione degli atti al Prefetto, per l’erogazione della sanzione amministrativa, in quanto il reato era prescritto e censurando la formula adottata con riferimento alla contravvenzione ex art. 672 c.p. nel dispositivo dalla Corte di Appello, che invece di assolverlo perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, aveva dichiarato il non luogo a procedere, così facendo salvi gli effetti penali della condanna. La Cassazione ha dichiarato infondate tutte le doglianze, innanzitutto rilevando che, in conformità all’interpretazione consolidata dell’art. 24, comma 6, della L. 24 novembre 1981 n. 689, la competenza del giudice penale in ordine alla violazione non costituente più reato, obiettivamente connessa con un reato, cessa nel caso in cui il procedimento innanzi allo stesso si concluda con declaratoria di estinzione del reato ovvero per difetto di una condizione di procedibilità. Correttamente è stata, pertanto, dichiarata l’incompetenza del giudice e disposta la trasmissione degli atti al prefetto competente. Inoltre, la Corte ha ribadito che, in tema di custodia di animali, l’obbligo sorge ogni volta sussista una relazione di possesso o di semplice detenzione tra l’animale ed una data persona, posto che l’art. 672 c.p. relaziona l’obbligo di non lasciar libero l’animale o di custodirlo con le debite cautele al possesso dell’animale, possesso da intendersi come detenzione anche solo materiale e di fatto. Sul concetto di pericolosità dell’animale, poi, è stato condivisibilmente affermato che pericolosi per l’altrui incolumità devono ritenersi non soltanto gli animali in cui la ferocia è caratteristica naturale e istintiva ma tutti quelli che, sebbene domestici, possono diventare pericolosi in determinati casi determinate circostanze . Dal novero di questi ultimi non si può escludere il cane normalmente mansueto, per il quale non vano escluse le elementari regole di prudenza nella custodia dell’animale, in particolare, non lasciare il cane privo di museruola e di guinzaglio.
DOTT. SA ANNA CAFAGNA

sono caduto a cavallo per colpa di 2 cani randagi hanno fatto imbizzarrire il cavallo provocandomi lesioni gravi. preciso che il cavallo non era coperto di assicurazione, in questo caso isiste una legge che mi possa tutelare per il risarcimento dei danni subiti?
Gentile dottoressa,
proprio qualche giorno addietro , ho inviato un mio piccolo contributo sull’argomento all’avv.Minardi.
La presente per informarLa che sul punto è intervenuta recentemente la Suprema Corte di Cassazione che, con sentenza del 3-4-2009, n. 8137, ha stabilito la responsabilità esclusiva dell’ASL in caso di danno scaturente dal morso di un cane randagio, negando la responsabilità del comune, anche sotto il più tenue parametro della responsabilità solidale o concorrente.
Cordialmente.
caro Mirco vorrei sapere il tuo punto di vista in merito al fatto se la condizioni di randagismo di un cane che ha provocato dei danni ad un automibilista, possa essere dall’attore provata attraverso una semplice testimonianza oppure la condizione di randagismo (assenza di cips sottopelle del cane) debba essere provata da personale specializzato (nella specie persona ASL), atteso che dalla relazione del CC. dei Carabinieri intervenuti successivamente sul posto del sinistro non riferisce l’identificazione del cane “randagio” Te lo chiedo perché il comune che assisto non ha mai ricevuto segnalazione da parte dei cittadini e ne dalla Polizia Municipale del fenomeno del randagimo all’interno del territorio di competenza. Vorrei sapere il tuo parere in merito alla responsabilità solidale dell’Ente Comune e della Asl terrotorialmente competente o se invece è responsabile esclusivo il Comune o La ASL. Ti ringrazio anticipatamente per la tua sempre cordiale disponibilità. Cordiali saluti Avv. Gennaro PUGLIESE