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All’indomani della famosa sentenza della Cassazione 350/2013, soggetti più o meno qualificati hanno indotto i clienti delle banche a promuovere una serie di giudizi civili contro le stesse, sostenendo (tra le altre cose) la singolare tesi (per non dire assurda) della sommatoria del tasso corrispettivo e del tasso di mora al fine di accertare l’usurarietà dei contratti di mutuo, c/c, leasing, ecc.
Spesso si trattava di perizie largamente approssimative, superficiali, non di rado errate nella metodologia di calcolo ma soprattutto infondate nelle premesse giuridiche.
Si è trattato a volte di una vera e propria induzione all’introduzione della causa, prospettandosi sicuri risultati e facili ritorni economici.
Queste tesi sono state respinte fortemente dai giudici, ed anzi assai spesso definite temerarie.
Non pochi clienti si sono visti così non solo respingere la domanda, con tutto ciò che ne consegue (spese legali proprie e della banca, della ctu, del ctp, ecc.), ma addirittura si sono visti infliggere pesantisse condanne per lite temeraria (che raramente si erano viste in altri contenziosi).
Il problema è che adesso i clienti hanno diretto le loro richieste risarcitorie nei confronti degli avvocati che li hanno accompagnati in questi giudizi.
Si tratta allora di stabilre dove inizi la responsabilità dell’avvocato nel caso in cui venga rigettata una domanda fondata sull’anomalia bancaria evidenziata nella perizia di parte.
La risposta, invero, è abbastanza semplice in quanto l’avvocato se non è certamente tenuto a verificare i conteggi contenuti nella perizia, tuttavia è tenuto a controllare le premesse giuridiche poste alla base dell’elaborato del perito.
Mi spiego meglio. La tesi della sommatoria del tasso corrispettivo e del tasso di mora non è una “questione tecnica” che può essere lasciata al perito, bensì è una questione anche giuridica in quanto, secondo la prospettazione di certi periti, traeva fondamento dalla sentenza n. 350/2013 della Cassazione.
In realtà, però, la S.C. non ha mai affermato che detti tassi andavano tra loro sommati.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi (pensiamo alla questione della CMS, ad esempio). In ogni caso, il principio generale è questo: l’avvocato deve sempre controllare che la perizia si fondi su presupposti giuridici fondati e corretti. Pertanto, qualora abbia prestato adesione acritica (quasi fideistica) all’elaborato del consulente, risultato del tutto erroneo nei suoi presupposti, l’avvocato incorrerà in responsabilità professionale con conseguente obbligo di risarcire i danni subiti dal cliente.
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