1981: viene dichiarata la separazione personale dei coniugi Tizio e Caia e la casa familiare, di proprietà di entrambi i coniugi viene assegnata alla moglie;
1987: viene pronunciata la sentenza di scioglimento degli effetti civili del matrimonio; nulla si dice in merito all’immobile;
1997: viene pronunciata la sentenza di divisione dell’immobile, con assegnazione a Tizio e con pagamento di conguaglio a Caia.
2002: Tizio promuove un giudizio nei confronti della ex moglie al fine di accertare l’occupazione senza titolo e la condanna al rilascio. Caia si difende, dicendo che doveva ritenersi ancora vigente tra le parti quanto disposto in sede di separazione, visto che la sentenza di divorzio nulla aveva statuito.
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Perde in primo e secondo grado; così ricorre in Cassazione.
2009: la Cassazione conferma la sentenza del giudice di appello osservando:
- che in linea di principio la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio comporta, con il venir meno dello stato di separazione dei coniugi, la revoca della regolamentazione dei rapporti adottata nel precedente giudizio e quindi pure l’eventuale assegnazione della casa coniugale disposta a favore di uno dei due;
- che, pertanto, anche qualora la sentenza di divorzio non contenga alcuna disposizione al riguardo, il coniuge già assegnatario e comproprietario dell’immobile non ha più diritto all’utilizzazione esclusiva ed i rapporti sono regolati dalle norme sulla comunione e segnatamente dall’art. 1102 c.c., finchè ovviamente non intervenga una divisione, sia essa consensuale o giudiziale (in tal senso Cass. 3030/06; Cass. 9689/00);
- che ciò si verifica soprattutto nel caso in cui siano venute meno le ragioni che avevano giustificato l’assegnazione, costituite originariamente dalla presenza della figlia e dalla necessità di assicurarle la continuità della vita familiare nel luogo in cui si era svolta fino ad allora con la presenza di entrambi i genitori;
La Corte respinge inoltre l’eccezione ex art. 1460 c.c. sollevata da Caia la quale lamentava il mancato pagamento del conguaglio. Ma la Corte nega un rapporto sinallagmatico tra l’assegnazione dell’immobile e il pagamento del conguaglio, trattandosi di obbligazioni separate pur trovano origine dallo stesso fatto e cioè lo scioglimento della comunione.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
29 gennaio 2009, n. 2210
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato in data 2.5.2002 V.A. conveniva avanti al Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Chioggia, B.P.G. esponendo che:
con sentenza n. 580/81 il Tribunale di Venezia aveva dichiarato la separazione personale tra lui e la moglie B.G., disponendo fra l’altro l’affidamento della figlia Va. alla madre cui era assegnata la casa coniugale;
con sentenza n. 1992/87 il Tribunale di Venezia aveva dichiarato cessati gli effetti civili del matrimonio;
– con successiva sentenza n. 17975/97, passata in giudicato, lo stesso Tribunale aveva disposto la scioglimento della comunione immobiliare relativamente all’abitazione sita in (OMISSIS), già assegnata alla B. in sede di separazione, disponendone l’attribuzione in proprietà esclusiva ad esso attore e ponendo a suo carico il pagamento di un conguaglio di L. 112.000.000.
Sosteneva che, nonostante fossero venute meno le esigenze di tutela della figlia la quale aveva raggiunto la maggiore età sin dal (OMISSIS), l’immobile era tuttora occupato dalla B. che ne aveva rifiutato il rilascio sul rilievo della perdurante validità della sentenza di separazione che le aveva assegnato la casa coniugale in quanto la successiva sentenza di cessazione degli effetti civili nessun provvedimento aveva adottato al riguardo.
Chiedeva quindi che venisse accertata la occupazione senza titolo dell’immobile da parte della B. con conseguente condanna della medesima al rilascio.
Si costituiva la convenuta che chiedeva il rigetto della domanda sul rilievo che la mancata richiesta di modifica in sede di divorzio delle u condizioni della separazione in ordine al diritto di abitazione ne confermava implicitamente il mantenimento. Deduceva poi che il V. non aveva ancora provveduto al pagamento del conguaglio imposto dalla sentenza di scioglimento della comunione e che tale omissione determinava la risoluzione per inadempimento del trasferimento della proprietà dell’immobile.
Con sentenza del 20.9.2001 il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Chioggia, condannava la convenuta al rilascio dell’immobile, assumendo che la statuizione relativa all’assegnazione della casa coniugale disposta in sede di separazione aveva perso efficacia con il passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili anche se con tale decisione nessun provvedimento era stato adottato al riguardo.
Proponeva impugnazione B.P.G. ed all’esito del giudizio, nel quale si costituiva il V. chiedendone il rigetto, la Corte d’Appello di Venezia con sentenza del 23.11.2004- 18.4.2005 respingeva l’appello, condannando la B. al pagamento delle spese del grado.
Ribadiva la Corte d’Appello che con la pronuncia di cessazione degli effetti civili era venuto meno lo stato di separazione dei coniugi e, di conseguenza, la regolamentazione dei rapporti patrimoniali stabiliti in quella sede, fra cui anche la statuizione relativa all’assegnazione della casa coniugale, pur essendo mancato in tale secondo giudizio un espresso provvedimento al riguardo.
Disattendeva altresì la tesi della preclusione da giudicato prospettata dall’appellante, secondo cui, avendo il Tribunale in sede di scioglimento della comunione rigettato la richiesta del V. di ottenere il corrispettivo, nella misura del 50%, per l’esclusivo utilizzo dell’immobile da parte della B. anche dopo la sentenza di divorzio, avrebbe dovuto del pari ritenersi preclusa ogni statuizione basata sul presupposto di un’abusiva utilizzazione dello stesso.
Osservava al riguardo che in sede di scioglimento della comunione il Tribunale non aveva compiuto alcun accertamento suscettibile di passare in giudicato in ordine alla sussistenza del diritto di abitazione ma aveva esaminato i rapporti fra le parti alla luce delle regole della comunione, escludendo che l’esclusivo godimento da parte della appellante, pur dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, fosse idoneo a giustificare, persistendo la comunione, la richiesta di pagamento di una somma di denaro all’altro comproprietario.
Escludeva infine l’equiparabilità della sentenza – che in sede di divisione ha attribuito la proprietà esclusiva dell’immobile al V. ed il versamento da parte di quest’ultimo del conguaglio – ad un contratto e l’applicabilità anche in questo caso della risoluzione del disposto trasferimento per inadempimento da parte del V. di pagare il conguaglio in quanto tale inadempimento era giustificato, ai sensi dell’art. 1460 c.c., dall’inadempimento della B. di rilasciare l’abitazione.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione B.P. G. che deduce cinque motivi di censura.
Resiste con controricorso, illustrato anche con memoria, V. A..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso B.P.G. denuncia violazione dell’art. 155 c.p.c. e art. 156 c.p.c., u.c., nonchè della L. n. 898 del 1970, art. 6 comma 5. Lamenta che la Corte d’Appello abbia fatto discendere l’automatica caducazione del provvedimento relativo all’assegnazione della casa coniugale disposta in sede di separazione dalla sentenza di divorzio sebbene quest’ultima nulla avesse disposto in proposito e malgrado nel relativo procedimento nessuna domanda di revoca fosse stata proposta dal V., senza peraltro considerare che solo un’esplicita statuizione del giudice avrebbe potuto far venir meno il precedente provvedimento di assegnazione.
La censura è infondata.
In linea di principio si osserva che la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio comporta, con il venir meno dello stato di separazione dei coniugi, la regolamentazione dei rapporti adottata nel precedente giudizio e quindi pure l’eventuale assegnazione della casa coniugale disposta a favore di uno dei due. Pertanto, anche qualora la sentenza di divorzio non contenga alcuna disposizione al riguardo, il coniuge già assegnatario e comproprietario dell’immobile non ha più diritto all’utilizzazione esclusiva ed i rapporti non possono che essere regolati dalle norme sulla comunione e segnatamente dall’art. 1102 c.c., finchè ovviamente non intervenga una divisione, sia essa consensuale o giudiziale (in tal senso Cass. 3030/06; Cass. 9689/00). Ciò soprattutto allorchè, come nel caso in esame, siano venute meno le ragioni che avevano giustificato l’assegnazione, costituite originariamente dalla presenza della figlia e dalla necessità di assicurarle la continuità della vita familiare nel luogo in cui si era svolta fino ad allora con la presenza di entrambi i genitori.
La pronuncia sul punto della Corte d’Appello, che ha fatto applicazione di tale principio, deve ritenersi pertanto giuridicamente corretta, a nulla rilevando, ripetesi, che sia mancata un’espressa disposizione al riguardo, essendo con essa venuta meno ogni precedente statuizione.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione del giudicato esterno, sostenendo che, avendo il Tribunale in sede di divisione della comunione respinto la domanda del V. di pagamento del corrispettivo, pari alla metà, per l’esclusivo utilizzo da parte della convenuta dell’appartamento sul rilievo che tale utilizzazione non poteva considerarsi abusiva e cioè imposta da un comproprietario contro la volontà dell’altro, si era sul punto formato il giudicato con conseguente impossibilità di procedere ad una nuova valutazione nel presente giudizio.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia difetto di motivazione, lamentando che la Corte d’Appello non abbia considerato che il Tribunale in sede di divisione abbia respinto la domanda di pagamento del compenso sul rilievo che l’occupazione dell’abitazione era da ritenersi legittima.
Anche le esposte censure, da esaminarsi congiuntamente per l’identità delle questioni trattate, sono infondate.
Pregiudizialmente deve essere disattesa la tesi espressa dal controricorrente che, richiamando la giurisprudenza in tema di giudicato cosiddetto esterno, ha sostenuto che la sua interpretazione fosse riservata al giudice di merito e non fosse sindacabile in sede di legittimità.
Al riguardo non può prescindersi dalla recente decisione delle Sezioni Unite (24664/07) sulla portata del sindacato di legittimità in ordine alla verifica circa la presenza di un giudicato esterno con effetto preclusivo nei confronti di altri procedimenti.
Nel comporre il contrasto insorto in seno alle sezioni semplici anche dopo la pronuncia delle stesse Sezioni Unite n. 226/01, si è affermato non solo che l’esistenza del giudicato può essere rilevata d’ufficio sulla base degli atti acquisiti al processo, ma che la sua interpretazione debba essere operata alla stregua dell’interpretazione delle norme e non già degli atti e dei negozi giuridici in quanto costituisce la “regula iuris” del caso concreto, con la conseguenza che l’apprezzamento operato dal giudice di merito è sindacabile in sède di legittimità, non già in relazione al mero profilo del vizio di motivazione, ma nel più ampio ambito della violazione di legge e con l’ulteriore conseguenza che “il giudice di legittimità può direttamente accertare l’esistenza e la portata del giudicato esterno con cognizione piena che si estende alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali mediante indagini ed accertamenti anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data dal giudice di merito”.
Accertata quindi la sindacabilità in questa sede della statuizione della Corte d’Appello, ritiene però il Collegio corretto il convincimento cui è pervenuta sul punto la sentenza impugnata la quale ha escluso l’esistenza di un giudicato – asseritamente formatosi nell’ambito del giudizio di divisione in ordine al legittimo godimento dell’abitazione da parte della B. per essere stata rigettata in quella sede la domanda del V. volta ad ottenere il corrispettivo, nella misura della metà, dell’utilizzo esclusivo dell’appartamento da parte della medesima rispetto al presente giudizio nel quale è stato chiesto invece il rilascio dell’appartamento, ormai di esclusiva proprietà del V..
E’ evidente infatti la diversità del petitum e della causa petendi, costituiti, nel precedente giudizio, dalla richiesta di pagamento per l’uso esclusivo dell’appartamento da parte della B. e, nel presente invece, dalla richiesta di accertamento di occupazione abusiva e del conseguente rilascio dell’immobile a seguito della intervenuta divisione.
Nell’uri caso infatti è stato fatto valere un rapporto obbligatorio per il ripristino di un equilibrio economico fra i soggetti comproprietari in conseguenza dell’uso esclusivo da parte di uno di essi, nell’altro (nel presente) invece viene richiesto il rilascio del bene, il cui diritto reale è stato già riconosciuto in via esclusiva in sede di scioglimento della comunione.
Trattasi all’evidenza di due giudizi del tutto distinti sotto i profili richiamati del petitum e della causa petendi, per la cui valutazione peraltro nessuna rilevanza può assumere la circostanza, sottolineata dalla ricorrente, che nel giudizio di divisione il giudice avesse escluso la presenza di un abuso nel comportamento della B., essendo stata tale affermazione riferita al periodo in cui vigeva la comproprietà e giustificata dal giudice in base alle regole della comunione.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia ancora difetto di motivazione, osservando che la Corte d’Appello ha respinto la domanda di risoluzione per il mancato pagamento del conguaglio, limitandosi a richiamare una decisione della cassazione (2558/96), oltre tutto ritenuta non pertinente.
Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 720 e 1116 c.c. e art. 1453 c.c. e segg.. Ripropone la ricorrente la tesi dell’applicabilità – anche al caso come quello in esame di divisione giudiziale con l’attribuzione esclusiva del bene ad un condividente e l’imposizione al medesimo del pagamento del conguaglio – della tesi della risoluzione per inadempimento. Sostiene che nessuna diversità ontologica e giuridica è ipotizzabile se non nella forzosità del trasferimento.
Anche dette censure, da esaminarsi congiuntamente per l’identità delle questioni trattate, sono infondate.
L’istituto della risoluzione per inadempimento trova il suo fondamento nel rapporto sinallagmatico che lega le due prestazioni ed è finalizzato ad assicurare al creditore non inadempiente una tutela più efficace e più immediata di quella concessa con l’adempimento.
Nel caso in esame deve escludersi invece che le due prestazioni – quella del rilascio dell’immobile da parte della B. in conseguenza dell’attribuzione della proprietà esclusiva al V. disposta in sede giudiziale e quella di pagamento del conguaglio da parte di quest’ultimo disposto nello stesso procedimento – siano legate da un rapporto sinallagmatico, trattandosi di obbligazioni separate che, pur trovando la loro genesi nello scioglimento della comunione, non sono frutto di accordi collegati fra le parti e trovano un’autonoma tutela che, da parte della B., può essere assicurata ponendo in esecuzione il titolo che ha riconosciuto il diritto al conguaglio e, da parte del V., con la richiesta di rilascio avvenuta con l’atto introduttivo del presente giudizio.
Non può non tenersi conto inoltre della contraddittorietà della tesi della ricorrente la quale, deducendo che si era formato il giudicato sul suo diritto ad utilizzare l’appartamento coniugale anche dopo la sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio ed osservando altresì che continuava ad avere efficacia l’assegnazione della casa coniugale a suo favore disposta in sede di separazione, in mancanza di una espressa disposizione contraria contenuta nella sentenza di divorzio, mostra all’evidenza che, indipendentemente dalla disponibilità del V. ad adempiere alla sua obbligazione di pagamento del conguaglio, non avrebbe in ogni caso rilasciato l’appartamento. Con la conseguenza che, non potendosi ritenere che fosse stata disponibile ad adempiere alla propria obbligazione, la mancata offerta della somma da parte del V. non è idonea a giustificare la risoluzione per inadempimento. In altri termini, avendo la B. dichiarato di non voler rilasciare l’appartamento anche per motivi diversi dal preteso inadempimento dell’altra parte, non v’è spazio per invocare la risoluzione la quale, oltre tutto, dovrebbe incidere sul contenuto di una statuizione del giudice che sull’attribuzione dell’abitazione aveva già provveduto.
Del tutto fuor di luogo è infine il richiamo all’art. 2932 c.c., comma 2, trattandosi di una norma specifica in tema di contratto preliminare non estensibile ad altre ipotesi nè, tanto meno, allorchè gli obblighi siano sorti in sede giudiziaria.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 3.000,00 per onorario ed in Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 11 novembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2009
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