Tizio ricorre in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello che ha accolto la domanda di Caio , erede di Sempronio, volta ad ottenere la restituzione della somma di lire 90.000.000 pari alla metà della cifra depositata sul conto corrente intestato a Tizio e Sempronio.
Ma la Corte rigetta il ricorso ossevando che:
- Non v’è dubbio alcuno che, come riconosciuto dai Giudici del merito, “la cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi di conto (art. 1854 c.c.) sia nei confronti dei terzi, sia nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto, salva la prova contraria a carico della parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa” (Cass. sez. 3^, 8 settembre 2006, n. 19305, m. 592937, Cass. sez. 1^, 26 ottobre 1981, n. 5584, m. 416305).
- Ma altrettanto certo è che “una presunzione legale “juris tantum” (quale quella di cui all’art. 1298 c.c., comma 2), poichè da luogo soltanto all’inversione dell’onere probatorio, può essere superata attraverso presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti” (Cass. sez. 1^, 1 febbraio 2000, n. 1087, m. 533335).
- Sicchè non hanno violato alcuna norma giuridica i Giudici del merito, quando hanno ritenuto che la presunzione legale “juris tantum” dedotta dall’attore risultasse superata dalla prova documentale fornita dalla convenuta.
Cassazione civile , sez. I, 05 dicembre 2008 , n. 28839
Fatto
Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Milano, in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda proposta da C.M. per la condanna di C.E., quale erede di C.G., alla restituzione della somma di L. 90.000.000, corrispondente alla metà della somma già depositata su un conto corrente bancario di cui l’attore e il defunto C.G. erano stati cointestatari presso l’agenzia milanese della Rolo Banca, prima che lo stesso C.G. trasferisse l’intera somma di L. 180.000.000 su altri conti di sua esclusiva pertinenza.
Hanno ritenuto i Giudici d’appello che l’indiscussa presunzione dedotta dall’attore, di pari comproprietà tra i cointestatari della somma depositata sul conto corrente bancario, risultava superata dalla prova documentale dell’esclusiva provenienza del denaro da C.G., i cui redditi previdenziali e da capitale venivano versati su un conto che era stato intestato anche al nipote, dipendente della banca, per poter godere delle agevolazioni riservategli appunto quale dipendente. Del resto C.M., benchè lungamente assente per malattia, aveva ripreso il suo lavoro in banca oltre un anno prima della morte dello zio, e non aveva mai contestato lo storno dei fondi dal conto comune. Contro la sentenza d’appello ricorre ora per cassazione C.M. e propone due motivi d’impugnazione, cui resiste con controricorso C.E., che ha depositato anche memoria.
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Diritto
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 116 c.p.c., e vizio di motivazione della decisione impugnata.
Sostiene che i documenti contabili sui quali s’è fondata la corte d’appello non erano stati considerati idonei alla prova neppure da C.E., che infatti aveva chiesto l’ammissione di prove per testi e di una consulenza contabile; mentre i Giudici di secondo grado non avevano valutato i documenti dai quali risultava la comune provenienza del danaro depositato sul conto controverso. Aggiunge che, contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici d’appello, la mancata contestazione da parte sua dello storno dei fondi dal conto comune era giustificata dalle conseguenze invalidanti del grave incidente occorsogli; e comunque non era affatto necessaria.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 1298 c.c., e vizio di motivazione della decisione impugnata. Sostiene che, secondo la giurisprudenza, la cointestazione del conto determina la comproprietà delle somme versate indipendentemente dalla loro provenienza. Sicchè i documenti posti a fondamento della decisione impugnata non possono avere il significato a essi attribuiti dai giudici del merito, in mancanza di una comprovata spiegazione della cointestazione del conto.
2. Il ricorso è infondato.
Non v’è dubbio alcuno che, come riconosciuto dai Giudici del merito, “la cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi di conto (art. 1854 c.c.) sia nei confronti dei terzi, sia nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto, salva la prova contraria a carico della parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa” (Cass. sez. 3^, 8 settembre 2006, n. 19305, m. 592937, Cass. sez. 1^, 26 ottobre 1981, n. 5584, m. 416305).
Ma altrettanto certo è che “una presunzione legale “juris tantum” (quale quella di cui all’art. 1298 c.c., comma 2), poichè da luogo soltanto all’inversione dell’onere probatorio, può essere superata attraverso presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti” (Cass. sez. 1^, 1 febbraio 2000, n. 1087, m. 533335).
Sicchè non hanno violato alcuna norma giuridica i Giudici del merito, quando hanno ritenuto che la presunzione legale “juris tantum” dedotta dall’attore risultasse superata dalla prova documentale fornita dalla convenuta.
Per il resto il ricorso è inammissibile, perchè propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata con riferimento a una plausibile ricostruzione dei fatti, fondata su una ragionevole interpretazione delle prove, cui il ricorrente oppone solo una diversa interpretazione.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, “l’apprezzamento del Giudice di merito circa il ricorso alla presunzione quale mezzo di prova e la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, sono incensurabili in sede di legittimità, l’unico sindacato in proposito riservato al Giudice di cassazione essendo quello sulla coerenza della relativa motivazione” (Cass. sez. 1^, 20 novembre 2003, n. 17596, m. 568316). Sicchè, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. Ed è perciò indiscusso che “il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il Giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al Giudice di legittimità. Ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa” (Cass. sez. L, 5 marzo 2002, n. 3161, m. 552824, Cass. sez. L, 25 settembre 2004, n. 19306, m. 577365, Cass. sez. L, 9 febbraio 2004, n. 2399, m.
569983, Cass. sez. L, 25 settembre 2003, n. 14279, m. 567156, Cass. sez. L, 18 novembre 2000, n. 14953, m. 541875). La resistente ha chiesto la condanna del ricorrente ex art. 96 c.p.c.. Ma non vi sono i presupposti per una responsabilità aggravata della parte soccombente, che in primo grado aveva visto accolta la sua domanda.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese in favore della resistente, liquidandole in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00, per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 11 novembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2008
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